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Nei pomeriggi domenicali d’estate Palermo si svuota. Vanno tutti al mare. Borsellino no. Lui, come tutte le domeniche dell’anno, andava a trovare la madre. Sempre la stessa routine.

Era il 19 luglio del 1992. Le due auto blindate del magistrato imboccarono a tutta velocità via Mariano D’Amelio e si fermarono all’altezza del civico 21. Ad attenderle, nascosto, c’era il boss Giuseppe Graviano. Davanti al palazzo una vecchia 126 Fiat rubata, imbottita con novanta chili di esplosivo del tipo Semtex-H (una miscela di potente pentrite, tritolo e T4).

Alle 16.58’20” Graviano pigiò il radiocomando. Fu l’inferno. Borsellino era in attesa di varcare il cancello d’ingresso del palazzo della madre. Il magistrato saltò in aria con cinque poliziotti della scorta. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finirono appiccicati al quinto piano sulla parete dell’edificio. Morirono anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. L’unico a salvarsi fu l’agente della scorta Antonio Vullo, che era in fondo alla strada, intento a fare manovra. «Ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto».

La zona dell’attentato fu invasa in pochi minuti dalla folla di curiosi che avanzava fra i rottami delle due auto blindate accartocciate. C’era chi rovistava fra i sedili delle auto, chi calpestava la carcassa della Croma del magistrato. La scena del crimine era diventata un porto di mare. Fra i resti delle auto blindate si aggiravano centinaia di uomini. In divisa e in borghese. Tantissimi palermitani attirati dal gran botto e dalla colonna di fuoco raggiunsero via D’Amelio. Nello scompiglio generale qualcuno riuscì a muoversi con freddezza, e senza farsi notare portò via la borsa di cuoio del giudice Borsellino e la sua agenda rossa. La blindatura della Croma aveva risparmiato tutto quello che si trovava nel portabagagli. La borsa del magistrato era ancora intatta. Finì prima nelle mani di un capitano dei carabinieri e poi in quelle di qualcun altro. Fu subito consegnata ai familiari di Borsellino. Non mancava nulla. Sigarette. Fogli di interrogatorio. Oggetti personali. C’era tutto, tranne l’agenda rossa, dove Borsellino segnava ogni suo pensiero dal giorno della morte di Giovanni Falcone. In quei giorni Borsellino avrebbe dovuto incontrare Alberto Lo Cicero. Ma il primo verbale di Lo Cicero fu redatto solo il 24 luglio, con altri magistrati, che misero in dubbio i suoi racconti. Nel frattempo, altrove, ci si stava già muovendo per mettere in piedi «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, frutto di un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

Estratto da “The Italy Project”. 

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