A cura di Enrico Vigna
Quel 13 agosto di ventuno anni fa, era una giornata molto calda nell’enclave di Gorazdevac, oltre alla tensione per le violenze e i tentativi di assalti intorno al villaggio, c’era un’afa pesante e soffocante, come le giornate che si vivevano tra le case dei serbi e di alcune famiglie rom. Quasi come se tutti fossero in attesa di altre violenze, altre sparatorie, altri incendi, altri morti. Nonostante questo, tutto appariva uguale al giorno prima, tutto pareva immobile come le loro vite chiuse, assediate dentro l’enclave. Così, come in altri giorni, alcuni ragazzi e ragazzini, con incoscienza o solamente voglia di vivere una normalità propria di ogni ragazzo giovane, ma a loro negata, in un Kosovo “liberato” dalla NATO e sotto tutela della KFOR, decisero di andare al fiume Bistrica, che scorre a poche centinaia di metri dalle case, a cercare refrigerio dalla calura estiva, a passare qualche momento di spensieratezza, di giochi nell’acqua e momenti di leggerezza.
Ma quel 13 agosto non era un giorno uguale agli altri per i ragazzi dell’enclave serba, quel giorno cambiò la vita di tutti loro e, tragicamente, per due finì lì la loro breve esistenza.
Quel giorno alcuni assassini, eroici “liberatori” del Kosovo, commisero un atto criminale e barbaro, ignobile e senza alcuna giustificazione, con un vile attacco terroristico spararono 87 colpi con fucili automatici, contro i ragazzi inermi, mentre facevano il bagno nel fiume: due di loro Pantelija Dakić (12 anni) e Ivan Jovović (19 anni) furono uccisi mentre semplicemente nuotavano, e altri quattro: Marko Bogićević (12 anni), Dragana Srbljak (13 anni), Bogdan Bukumirić (14 anni) e Đorđe Ugrenović (20 anni) rimasero gravemente feriti. Colpiti da mani assassine mentre aspiravano semplicemente. ai loro sogni di gioventù.
Difficile trovare parole da scrivere di fronte a una fine ingiustificata delle giovani esistenze di Panta e Ivan, uccisi alle soglie della vita. Sono stati uccisi non perché avessero qualche colpa e non perché avessero fatto del male a qualcuno, ma perché erano serbi, perché erano nati serbi nella loro stessa terra, il Kosovo e Metohija. Ricordarli significa riaffermarli come un simbolo del martirio e della sofferenza del popolo serbo in KosMet, della dignità calpestata, del diritto alla vita e alle proprie radici per ogni popolo e ribadire un atto per la verità e la giustizia.
Il fatto che dopo ventuno anni, gli autori di questo crimine non sono mai stati trovati e EULEX ha ufficialmente chiuso le indagini, ha un significato preciso di quale sia stata e sia tutt’oggi la realtà e i risultati prodotti dall’aggressione e i bombardamenti alla RFJ del 1999, per LIBERARE il Kosovo. Questo è stato solo uno delle migliaia di crimini, commessi dal giugno 1999 in poi in quella martoriata provincia jugoslava e serba. Mentre il mondo occidentale “democratico e diritto umanista”, senza pudore, si è conformato all’ideologia dell’ingiustizia, delle falsità storiche e dell’egemonismo unipolare atlantista.
Il padre dell’assassinato Pant Dakić, Milisav, ha affermato che dopo ventuno anni, non si aspetta più che le cosiddette autorità del Kosovo attuale, trovino o dicano chi siano gli assassini, la sua unica speranza è che la Serbia ci riesca. “…Sono passati 21 anni. Onestamente non mi aspetto che questa banda che governa oggi il Kosovo, trovi chi ha assassinato mio figlio e Ivan. Mi aspetto che il nostro Paese lo faccia, ma è già passato troppo tempo…Quando andai sul posto per controllare, c’era un sentiero battuto, è lì che sono arrivati gli assassini, hanno controllato, osservato e poi commesso il crimine…Per dieci anni nessuno è venuto a chiedere nulla riguardo all’omicidio di mio figlio…Non mi aspetto che questi qui trovino l’assassino, ma spero che un giorno la verità venga fuori. Resto forte e conservo la forza per portare avanti questa battaglia di verità e giustizia e poi sarò un uomo sereno e potrò morire…”, ha detto Milisav Dakić. Il padre dell’assassinato Pant ha ricordato quel giorno di 21 anni fa: “…Due figli e una figlia erano al fiume Bistrica. Il fratello più giovane che era lì con il fratello, era accanto a Pant ferito e non lo ha lasciato finché non sono arrivato io, i proiettili fischiavano accanto a loro…Ho preso Pant tra le mani e se avessi cominciato subito la ricerca, visto che conosco il terreno, avrei trovato gli assassini. Sono stato fermato da Pant, perché l’ho preso tra le mani e l’ho portato subito alla base della KFOR, dove questa gente non voleva accettarci, allora siamo andati all’ospedale di Pec. Là siamo stati ricevuti con applausi dispregiativi e un’accoglienza di scherno, come se fossimo a un matrimonio…e invece mio figlio stava morendo…Io mi sono seduto accanto a Pant e Bogdan e gli tenevo le mani. Ho visto un uomo con un cappotto. La quarta parte del cranio di Bogdan era stata spinta fuori e non mostrava segni di vita, un uomo con ago e filo è andato verso di lui. L’ho allontanato perché non sapevo con quale intenzione avesse e cosa volesse fare. Pant era accanto a lui. Sono andato in un’altra stanza per meno di un minuto. Prima Pant respirava profondamente, all’improvviso sono entrati 50 soldati in equipaggiamento da guerra, sono entrati e mi hanno detto che Pant era morto. Non credo che una cosa del genere possa accadere in 1-2 minuti, poi sono andati via e ho il dubbio che quella banda di criminali abbia prelevato gli organi di Pant, ho un dubbio grandissimo….”, ha dichiarato Milisav Dakic.
Questa storia è un emblema della sofferenza del popolo serbo in Kosovo e Metohija, dal giugno 1999, dopo l’arrivo delle forze internazionali nella provincia meridionale serba. Le vittime sono un risultato di una folle ideologia di odio, da parte di terroristi e criminali auto proclamatisi “liberatori”, supportati, armati e protetti dai paesi NATO, per una cinica strategia di distruzione della RFJ, per meri scopi di interessi geopolitici. Un odio esasperato rivolto contro tutto il popolo serbo, le sue radici, storia e cultura nella terra kosovara e questa ideologia quasi psicopatica, che però non è folle, ma è stata pianificata scientificamente, è diventata forma politica di dominio e terrore contro i serbi, ma anche contro le altre minoranze, a cominciare dai rom, per finire all’uccisione di tutti quegli albanesi kosovari ( forse la maggioranza delle persone perbene e oneste) che non accettavano questa follia pianificata. Purtroppo questa condizione non è stata abbandonata e guida le “autorità” del cosiddetto “stato Kosova” ed è la realtà del Kosovo tutt’oggi.
Sopravvissuto di Goraždevac: “ Le ferite del corpo sono guarite, ma il dolore nell’anima non si è mai interrotto”.
“…Ancora oggi mi sento esattamente lo stesso di quel giorno: il dolore non si ferma. Le ferite nel corpo sono guarite, ma il dolore nell’anima mai…”, ha affermato Bogdan Bukumirić, che fu curato per sei mesi per le gravi ferite riportate in quella giornata atroce. Bukumirić, che nel 2003 aveva 15 anni, ha condiviso i suoi ricordi che, come dice lui, non lo abbandonano mai, e nella conversazione con il giornale “KosovoOnline”, ha ricordato i suoi amici uccisi Pantelija Dakić e Ivan Jovović. “…Tutti passavano davanti a casa mia perché era la più vicina al fiume e quel giorno i miei amici mi invitarono ad andare, io resistetti, lo chiesi anche a mio padre, che sembrava avere una premonizione. Mi disse ‘aspetta un pò, l’acqua è fredda’, ma dopo mi ha lasciato e siamo andati al fiume, l’acqua era molto fredda, quindi sono uscito velocemente e sono rimasto con i miei amici che avevano già acceso il fuoco per arrostire il mais…Ero accanto a Pant, dopo 10, 15 minuti è iniziata una prima raffica di fuoco. All’inizio non sapevamo cosa stesse succedendo, poi tre proiettili mi hanno colpito al lato sinistro attraversandomi. Tenete presente che volevo vedere il mostro, il criminale che sparava. Mi sono voltato verso di loro nella speranza di vederne la figura, nel caso fossi riuscito a sopravvivere. Poi sono stato colpito da due proiettili sopra il petto. Quando sono caduto un proiettile mi ha preso in testa e l’ottavo proiettile ha sfiorato la caviglia della mia gamba sinistra”, ha detto. A Goraždevac, già dal 1999, i serbi avevano imparato a riconoscere da dove proveniva il rumore degli spari, così andarono tutti al fiume nella speranza che non fosse successo nulla ai loro figli. La lotta per salvare la vita ai ragazzi feriti è cominciata subito dopo che i boia avevano terminato il loro sanguinoso banchetto ed erano fuggiti. “…Mi hanno messo in macchina e mi hanno trasferito alla base della Kfor a Goraždevac, ma lì non c’era un medico che potesse prestarmi i primi soccorsi, quindi mi hanno trasferito all’ambulatorio del villaggio, dove mi hanno fasciato e alleviato le ferite. Nel frattempo, la gente del posto e la mia famiglia chiedono alla Kfor di trasferirmi all’ospedale di Peć, ma ricevono la risposta che questo non poteva essere fatto per motivi di sicurezza,” racconta Bogdan.
I suoi ricordi rammentano che con suo fratello e i suoi vicini si erano recati alla base con un’auto con targa serba e la loro macchina si era fermata proprio accanto al mercato di Pec.
“…Un vicino era seduto sul sedile posteriore accanto a me e mi incoraggiava continuamente dicendomi che sarebbe andato tutto bene. Quando la nostra macchina si fermò, ci hanno aggredito, volevano tirarci fuori dall’auto, hanno demolito l’auto, il mio vicino che guidava venne colpito con pugni, pietre e il vicino che era accanto a me, mi ha protetto da tutto e dai colpi…”.
Secondo quanto gli è poi stato raccontato, dice che sono passati due veicoli della Kfor, che lo hanno trasferito su un veicolo, mentre i vicini e il fratello sono stati trasferiti su un altro. Da lì furono trasferiti all’ospedale di Pec e lui fu messo nella stanza dove giaceva Pantelija assassinato.
“…Il padre di Pantelia teneva sia la sua che la mia mano. All’ospedale erano allegri, suonavano musica ad alto volume, c’erano anche altri feriti. Dopodiché un medico e uno della Kfor vennero a prestare i primi soccorsi, ma il padre di Pant non lo permetteva perché il medico di Goraždevac, che era con noi, notò che davo segni di vita e insistette perché mi trasferissero nella parte settentrionale di Kosovska Mitrovica, ma occorreva chiedere l’autorizzazione al comando di Pec e il comando a Pec doveva chiedere al comando di Pristina e così via…”, dice Bogdan.
Dopo tre ore c’è stata la decisione di trasferirlo, dopodiché hanno permesso che lui e Marko Bogićević venissero trasportati in elicottero verso Mitrovica, ma poi si sono diretti verso Prizren, dove hanno lasciato Marko alla base tedesca della KFOR.
Bogdan fu poi trasferito nella parte meridionale di Mitrovica, nella base francese della Kfor. La dottoressa Milena Cvetković dell’ospedale KBC di Kosovska Mitrovica nord, quando ha scoperto dove si trovava e, sotto la propria responsabilità, si è diretta in ambulanza verso l’ospedale della base francese. Dopo aver insistito fortemente per essere presente mentre gli operavano la milza, ha poi chiesto cosa sarebbe successo alla ferita sulla testa. “…Quando le dissero che avevano chiamato un neurochirurgo da Pristina, lei non sapeva quale medico avevano chiamato, se era francese o albanese, andò nel panico e insistette perché mi trasferissero nella parte nord di Mitrovica. All’inizio non accettarono ma poi dopo molte discussioni accettarono. Lì avrei dovuto essere portato con un elicottero serbo dell’Associazione Auto-Moto, ma non gli permisero di sorvolare il confine amministrativo, allora il medico mi ha trasferito in ambulanza a Raška in Serbia, da dove venni poi portato in elicottero all’ospedale di Belgrado…”, ha raccontato Bogdan. Come afferma anche oggi, quando ricorda tutta la situazione, si sente assolutamente lo stesso del primo giorno. “…Quel mostro criminale che a quel tempo uccise e ferì noi ragazzi innocenti, se ne va libero, forse lo vediamo tutti i giorni, forse mi guarda e ride, non lo so. Ogni giorno mi aspetto, ogni secondo mi aspetto che qualcuno mi chiami e mi dica: ‘…il mostro è stato arrestato. Sarebbe un po’ più facile per me…E’ inverosimile che in un’area così piccola, non sia stato possibile trovare chi ha sparato. Perché la comunità internazionale non ha fatto nulla? Neanche sui fatti di Stari Gracko, né sull’autobus Nis Express, essi sono qui per fare qualcosa, penso che sia giusto sapere chi è stato e fargli rispondere dei loro crimini, dei miei due compagni morti, delle mie ferite…Coprire un crimine è un reato molto grave. Noi vittime e le nostre famiglie abbiamo il diritto di sapere chi è stato, e io vorrei fargli solo una domanda: perché i ragazzi, perché noi …”, ha detto Bogdan.
Il suo messaggio è rivolto innanzitutto alla comunità internazionale: per riavviare le indagini, sottolineando che ci sono prove, perché nel rapporto si afferma che sono stati ritrovati 87 bossoli. Ma l’indagine su quel delitto è stata ufficialmente sospesa e chiusa nel 2010. Oggi, Bogdan Bukumirić vive a Belgrado, si è realizzato come padre di famiglia, e la sua forza per vivere, come afferma con un sorriso, gli viene data dalle sue due figlie.
Da 21 anni il Bistrica per Bogdan Bukumirić non è più un’oasi dove ha trascorso l’infanzia con gli amici e ha cercato refrigerio dalla calura estiva, dal 13 agosto 2003 Bistrica è per lui un fiume di sangue.
L’assassinio ed il ferimento dei ragazzi serbi sul fiume Bistrica è considerato uno dei quattro più grandi crimini contro i serbi dal 1999, dall’arrivo della missione internazionale KFOR in Kosovo.
Il villaggio di Goražvdevac è un villaggio di dolore e sofferenza, ma anche un villaggio di valorosi, che ancora sopravvivono nei loro focolari e proteggono la dignità serba. Nonostante la tragica perdita e le pressioni quotidiane, i serbi di Goraždevac sopravvivono nella loro terra, custodendo le tombe dei loro figli e antenati caduti e le radici dell’esistenza serba in Metohija, che esiste ininterrottamente da secoli in quelle terre e che nessuno potrà cancellare. In una nota consegnata ai media, le famiglie inconsolabili, sottolineano che ”… ancora aspettiamo giustizia, ma in assenza della giustizia umana, possiamo solo sperare almeno in quella, sempre gradita, di Dio…”.
Davanti alla chiesa di San Geremia a Goraždevac si è svolta la cerimonia commemorativa in onore di Ivan Jovović e Panta Dakić, uccisi sul fiume Bistrica 21 anni fa
La cerimonia commemorativa è stata celebrata dal metropolita Teodosije di Raška-Prizren con la concelebrazione del parroco di Gorazdevac padre Nenad Našpalić, del parroco di Osojana, Dalibor Kojić e dei monaci del monastero di Visoki Dečani.
“…Ventuno anni, fratelli e sorelle, da quando qui in questo villaggio sul fiume Bistrica accadde questo sventurato evento in cui pagarono coloro che sono i più puri davanti a Dio, cioè i giovani, Ivan e Panto e gli altri feriti. Oggi siamo tutti riuniti qui a celebrare per loro un servizio commemorativo con preghiere per le loro anime innocenti, per coloro che furono immolati come agnelli giovani e puri. Per loro che sono un impegno per tutti noi che siamo di Gorazdevac… la nostra consolazione e speranza per Ivan e Panta e per tutti gli altri che soffrono, soprattutto per i bambini non solo in Kosovo e Metohija ma in tutto il mondo, che soffrono ancora oggi, è quella che il mondo si converta alla pace, come bene comune… “, ha detto il metropolita Teodosije nel suo discorso.
PROGETTO enclavi “ SOS Kosovo Metohija
Esattamente un anno dopo, nel 2004, arrivai a Gorazdevac, con la scorta armata della KFOR, come delegato di SOS KosovoMetohija-SOSYugoslavia, con la delegazione del sindacato Samostalni della Zastava di Kragujevac…Iniziò quel lontano giorno di 20 anni fa il nostro Progetto nell’enclave di Gorazdevac, con i lavoratori licenziati della Zastava di Pec e i bambini dell’enclave. Andai al monumento che ricorda Pant e Ivan, portai dei fiori, ma ero lì davanti in silenzio, e ricordo che sempre in silenzio, chiesi scusa e perdono come, purtroppo, cittadino di un paese che ha supportato, finanziato e armato quei criminali e assassini, definiti “liberatori” e portatori di democrazia e libertà…..Nella verità storica solamente criminali terroristi che hanno aperto vigliaccamente il fuoco, uccidendo e ferendo semplici ragazzi inermi.
Progetto Enclave Gorazdevac
Nel viaggio di solidarietà condotto con SOSKosovoMetohija-SOS Yugoslavia, abbiamo realizzato il video documentario “Kosovo 2005, viaggio nell’apartheid”, una documentazione in dettaglio di come vive questa gente, della loro tremenda realtà. Aiutiamoli almeno con cibo, materiale scolastico, farmaci…
Aiutiamoli a non sentirsi soli e abbandonati da tutti, diamo un po’ di speranza a quelli che pagano le conseguenze della guerra, nel cuore d’Europa, e che nonostante tutto, hanno il diritto alla speranza che la solidarietà non sarà negata loro. Sostenete per quanto possibile, questo ulteriore sforzo.
Enrico Vigna, SOSKiM-SOSYU e Rajka Veljovic, Ufficio adozioni e rapporti internazionali, Sindacato Samostalni Zastava KG
Raccogliendo questo appello, rinnoviamo il nostro Impegno per l’enclave di Gorazdevac Insieme ai nostri referenti locali abbiamo deciso di destinare un primo kit di generi di emergenza per ciascuno dei 210 bambini e ragazzi ancora presenti nell’enclave |
Enrico Vigna presidente di SOSYugoslavia-SOSKosovoMetohija
13 agosto 2024