“È evidente che, nonostante i continui slogan e le promesse fatte in campagna elettorale, il governo ha un solo obiettivo: fare cassa ancora una volta sulle pensioni”. Così la segretaria confederale della Cgil, Lara Ghiglione, in merito alle numerose ipotesi riguardanti le pensioni emerse nelle ultime settimane.

 

“Le due leggi di Bilancio approvate fino ad oggi – prosegue la dirigente sindacale – lo dimostrano chiaramente: dai tagli alla perequazione delle pensioni, con cui il governo ha fatto cassa fino al 2032 per ben 61,3 miliardi di euro lordi, fino alla revisione delle aliquote di rendimento per i dipendenti pubblici, che riguarderà più di 700 mila lavoratori e consentirà all’esecutivo di tagliare altri 61,3 miliardi fino al 2043”.

Inoltre, la segretaria confederale denuncia l’azzeramento di ogni forma di flessibilità in uscita: “Opzione Donna è stata di fatto annullata, mentre i requisiti di età per l’Ape Sociale sono stati aumentati, rendendo sempre più difficile per le lavoratrici e i lavoratori poter accedere alla pensione. Quota 103 è stato un fallimento totale, come aveva sostenuto da tempo la Cgil. L’intenzione dell’esecutivo sembra essere quella di mantenere i lavoratori, soprattutto nel pubblico impiego, al lavoro il più a lungo possibile, senza prevedere alcun turn-over. I servizi pubblici di qualità vanno garantiti attraverso mirati investimenti sugli organici e sulle professionalità e non costringendo le lavoratrici e i lavoratori a permanere in servizio”.

Le ipotesi del governo

Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil, ci aiuta a comprendere le ipotesi che l’esecutivo sta valutando. Vediamo quali sono e i punti critici.

Flessibilità in uscita

Per quanto riguarda la flessibilità in uscita, il responsabile politiche previdenziali spiega che – tra le opzioni al vaglio del governo – c’è l’allungamento delle finestre per le pensioni anticipate (uomini 42 anni e 10 mesi e donne 41 anni e 10 mesi). La volontà sarebbe quella di portare le finestre di uscita a 7 mesi, con un allungamento conseguente di 4 mesi delle attuali finestre, che significherebbe di fatto spostare il traguardo pensionistico a 43 anni e 5 mesi per gli uomini e 42 anni e 5 mesi per le donne.

 

Nella stessa area, c’è anche la mancata proroga dell’Ape sociale per il 2025, che aveva visto già una stretta nel 2024 con l’allungamento di 5 mesi del requisito di età, da 63 anni a 63 anni e 5 mesi.

Così come non dovrebbe esserci la proroga di opzione donna per il 2025, nonostante sia una misura che abbraccia una platea molto ristretta di donne, dopo il completo azzeramento deciso da questo governo con la legge di bilancio del 2023 che aveva previsto il diritto condizionato a determinate categorie (caregiver, invalide dal 74%, licenziate o dipendenti aziende con tavolo di crisi aperto) e lo scorso anno con l’aumento di un anno di età da 60 a 61 anni di età (un anno in meno per ogni figlio, fino a un massimo di due), sempre con 35 anni di contribuzione al 31.12.2023.

Stessa sorte per “quota 103” (62 anni di età e 41 anni di contribuzione), con il calcolo esclusivamente contributivo. Misura criticata da subito dalla Cgil che aveva stimato una platea complessiva di pensioni pari a 2.500, rispetto alle 17.000 ipotizzate dall’esecutivo.

Arriverebbe invece l’introduzione di quota 41 solo per i lavoratori precoci – coloro che hanno un anno di contribuzione prima dei 19 anni di età – ma solo con il ricalcolo contributivo, che secondo le stime dell’ufficio previdenza della Cgil può ancora raggiungere un taglio superiore al 20%.