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I ritardi dei processi di Trump: sì del giudice Merchan, no della giudice Chutkan
Domenico Maceri
“So benissimo che c’è un’elezione imminente” ma in questo caso “non è rilevante”. Così la giudice Tanya Chutkan mentre interrompeva John Lauro, avvocato difensore di Donald Trump, nella discussione dei tempi accelerati che dovrebbero condurre al processo dell’ex presidente a Washington D. C. Si tratta, com’è noto, del caso criminale in cui Trump è stato accusato di quattro capi di accusa dal procuratore speciale Jack Smith per i tentativi di ribaltare l’esito dell’elezione del 2020. Il caso era stato interrotto poiché la Corte Suprema aveva dichiarato che il presidente degli Stati Uniti gode di immunità parziale per i suoi atti ufficiali. Smith ha dovuto eliminare quelle parti che lui crede facessero parte dell’immunità di Trump iniziando un nuovo caso penale. L’avvocato di Trump stava tentando di continuare a ritardare come fanno i legali dell’ex presidente anche negli altri casi, aspettando e sperando che il loro assistito sia rieletto all’elezione di novembre. In tale eventualità i tre processi federali verrebbero spazzati via da un nuovo Ministro di Giustizia che sarebbe nominato da Trump.
Se la giudice Chutkan ha dimostrato di non essere influenzata dal fatto che l’accusato Trump sia un ex presidente e di nuovo candidato, il giudice Juan Merchan di New York ha preso un’altra strada. Merchan ha presieduto il caso dei pagamenti di 130 mila dollari che Trump fece alla pornostar Stormy Daniels tramite il suo avvocato Michael Cohen, dichiarandoli spese legali. Infatti erano pagamenti per mantenere il silenzio della Daniels alla vigilia dell’elezione del 2016 che alla fine fu vinta da Trump. Al processo tenutosi a New York il 30 maggio scorso il 45esimo presidente è stato condannato da una giuria di 34 capi di accusa. La condanna gli ha sporcato la fedina penale che gli farà perdere la licenza di vendere alcol in due campi di golf nello Stato del New Jersey. Inoltre, paradosso dei paradossi, Trump non qualificherebbe come agente dell’Fbi ma se rieletto avrà la possibilità di nominare il direttore dell’agenzia di polizia federale.
Merchan avrebbe dovuto inizialmente emettere la sentenza l’11 luglio, ossia 6 settimane dopo la condanna, come prevede la legge. Il primo luglio però la Corte Suprema ha annunciato che il presidente gode di immunità per atti ufficiali. Merchan rimandò la sentenza al 18 settembre per esaminare se il processo aveva incluso testimonianze protette dall’immunità presidenziale. Adesso un nuovo ritardo. Merchan ha annunciato che la sentenza sarà rimandata al 26 novembre a conclusione dell’elezione presidenziale.
Merchan ha spiegato la sua decisione asserendo che si tratta di “un caso unico nella storia del Paese” aggiungendo che la sentenza di un “condannato all’unanimità per reati” consiste della “decisione più difficile per un giudice”. Tutto ben detto anche se il rinvio della sentenza favorevole a Trump fa pensare alla motivazione che il condannato sia un ex presidente che allo stesso tempo è il portabandiera di uno dei due partiti principali per la presidenza. La giustizia, dunque, sembra mettersi in secondo luogo alla politica. I ritardi della sentenza suggeriscono dunque che non tutti i condannati siano uguali come non molti in America già credono. I potenti e i VIP usano le loro risorse per ottenere trattamenti preferenziali.
Alcuni analisti legali hanno ipotizzato che Merchan abbia scelto una strada che riflette la realpolitik nascondendo però la forte possibilità che la condanna includa il carcere. Secondo le direttive giudiziarie in casi simili vi sarebbe una possibile pena massima di 4 anni di carcere alla quale si aggiungerebbero multe addizionali. Quindi Merchan avrebbe potuto comprarsi tempo, aspettando l’esito dell’elezione per la sentenza. Da considerare che Trump sarebbe candidato alla pena massima indicata dalla legge perché non ha mai dato nessuna indicazione di pentimento per la sua condanna. Non l’ha mai riconosciuta e ha continuato ad attaccare il sistema giudiziario, il procuratore di New York Alvin Bragg, persino il giudice Merchan stesso, accusandoli di corruzione. I suoi attacchi hanno aumentato il pericolo all’incolumità degli individui coinvolti nel processo a causa delle frequenti minacce di alcuni dei sostenitori dell’ex presidente.
La reazione di Trump al rinvio della sentenza è stata di apprezzamento per la spiegazione del giudice Merchan il quale ha qualificato l’imposizione della sentenza “se necessaria”. In una conferenza stampa sull’argomento nella quale non ha però risposto a domande dei giornalisti l’ex presidente ha però attaccato la qualità dei suoi avvocati, asserendo che possiede “questo talento legale che però non può avere la meglio con giudici corrotti”. Ha aggiunto però di essere “deluso dal talento dei suoi legali”. Gli avvocati di Trump erano presenti e il loro volto impassibile ci ha dato un’impressione del loro imbarazzo nei loro rapporti con un difficilissimo cliente. Trump, lo stesso giorno dell’annuncio di Merchan, ha dovuto affrontare la brutta notizia della causa civile di E. Jean Carroll che i suoi legali non sono riusciti a fare archiviare nel Tribunale della Corte di Appello a New York. I legali di Trump hanno asserito l’uso di testimonianze improprie al processo conclusosi nel maggio dell’anno scorso nel quale l’ex presidente è stato giudicato colpevole di aggressione sessuale, imponendogli una multa di 5 milioni di dollari. In un secondo processo più tardi Trump è stato condannato per avere diffamato la Carroll imponendogli una multa di 84 milioni di dollari. Quando Trump si lamentava dei suoi legali si riferiva probabilmente a questa causa civile nella quale ha anche usato le sue risorse per ottenere trattamenti favorevoli fuori dal comune.
Le due strade intraprese da Chutkan e Merchan ci confermano quello che in tanti modi si sa già. I ricchi e potenti possono usare il sistema giudiziario per ottenere trattamenti speciali e pene molto più leggere dei poveri disgraziati con non hanno soldi e a cui viene assegnata rappresentazione legale del governo, spesso inadeguata.
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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
Foto di Jon Tyson