di MOWA
Avevamo parlato, nel Dens dŏlens precedente, di come le attività imprenditoriali confliggano con quelle delle libertà individuali che siano esse liberali o confessionali e, comunque, cadano nel dilemma “irrisolvibile”: “a chi va il pluslavoro prodotto da chi lavora in quelle società?
Convinti che non sia un tema di poco conto proviamo a far riflettere tutti coloro che accettano la logica del mercato…
Partendo dall’assunto che: “…La formula della circolazione delle merci era M (merce) – D (denaro) – M (merce), ossia: vendita di una merce per l’acquisto di un’altra. Al contrario, la formula generale del capitale è: D-M-D ossia: compra per la vendita (con profitto). Marx chiama plusvalore questo accrescimento del primitivo valore del denaro messo in circolazione. Il fatto di questo «aumento» del denaro nella circolazione capitalistica è noto a tutti. Precisamente questo «aumento» trasforma il denaro in capitale, che è un particolare rapporto sociale di produzione storicamente determinato.
Il plusvalore non può scaturire dalla circolazione delle merci, perché questa conosce soltanto lo scambio tra equivalenti; non può sorgere da un aumento dei prezzi perché i guadagni e le perdite reciproche del venditore e del compratore si compenserebbero, mentre qui si tratta appunto di fenomeni di massa, medi, sociali, e non di fenomeni individuali. Per ottenere il plusvalore «il possessore di denaro deve trovare sul mercato una merce il cui stesso valore d’uso abbia la proprietà peculiare di essere fonte di valore »: una merce il cui processo d’uso sia, al tempo stesso, un processo di creazione di valore. Tale merce esiste. Essa è la forza-lavoro dell’uomo. Il suo uso è il lavoro, e il lavoro crea il valore. II possessore di denaro compra la forza-lavoro al suo valore, valore che è determinato, come quello di qualsiasi altra merce, dal tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione (vale dire, dal costo del mantenimento dell’operaio e della sua famiglia). Avendo comprato la forza-lavoro, il possessore di denaro ha il diritto di consumarla, ossia di obbligarla a lavorare tutto il giorno, per esempio dodici ore. Ma in sei ore (tempo di lavoro «necessario») l’operaio crea un prodotto che basta a coprire le spese del proprio mantenimento; mentre nelle sei ore rimanenti (tempo di lavoro «supplementare») crea un pro dotto «supplementare» non pagato dal capitalista, ossia il plu svalore. Perciò dal punto di vista del processo di produzione bisogna distinguere nel capitale due parti: il capitale costante, che viene impiegato per procurarsi i mezzi di produzione (macchine, strumenti di lavoro, materie prime, ecc.), e il cui valore (in una o più volte) passa, senza variare, nel prodotto finito; e il capitale variabile, che viene impiegato per procurarsi la forza lavoro. Il valore di questa seconda parte del capitale non rimane invariato, ma aumenta durante il processo del lavoro, creando il plusvalore. Per esprimere il grado di sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale, bisogna dunque confrontare il plusvalore, non già con il capitale totale, ma soltanto con il capitale variabile. II saggio del plusvalore, come Marx chiama questo rapporto, sarà, secondo il nostro esempio, di 6/6, ossia del 100 per cento”.
Ed, ancora: “Premessa storica del sorgere del capitale, è, in primo luogo, l’accumulazione di una determinata somma di denaro nelle mani di singole persone, in un periodo in cui lo sviluppo della produzione mercantile in generale abbia già raggiunto un livello relativamente alto, e, in secondo luogo, l’esistenza di un operaio «libero» in due sensi, – libero da qualsiasi costrizione o limitazione nella vendita della forza-lavoro e libero perché privo di terra e di mezzi di produzione in generale, – l’esistenza di un lavoratore privo di proprietà, di un «proletario», il quale non può esistere se non vendendo la propria forza-lavoro.
L’aumento del plusvalore è possibile grazie a due metodi fondamentali: il prolungamento della giornata di lavoro («plusvalore assoluto ») e la riduzione della giornata di lavoro necessaria («plusvalore relativo»). Analizzando il primo metodo, Marx traccia un quadro grandioso delle lotte della classe operaia per la riduzione della giornata di lavoro, e dell’intervento del potere statale, prima per allungarla (secoli XIV-XVII) e poi per ridurla (legislazione di fabbrica nel secolo XIX). Dopo la pubblicazione del Capitale, la storia del movimento operaio di tutti i paesi civili del mondo ha fornito migliaia e migliaia di fatti nuovi che illustrano questo quadro.
Analizzando la produzione del plusvalore relativo, Marx studia tre fasi storiche fondamentali nell’aumento della produttività del lavoro da parte del capitalismo: 1) cooperazione semplice; 2) divisione del lavoro e manifattura; 3) macchine e grande industria.
Una conferma della profondità con la quale Marx ha messo in luce i tratti fondamentali e tipici dello sviluppo del capitalismo, è data tra l’altro dal fatto che l’indagine della cosiddetta produzione «artigiana» russa fornisce una ricchissima documentazione sulle prime due di queste tre fasi. E l’azione rivoluzionaria della grande industria meccanizzata, descritta da Marx nel 1867, è apparsa, nel corso del mezzo secolo trascorso da allora, in tutta una serie di paesi «nuovi» (Russia, Giappone e altri).
Inoltre, straordinariamente importante e nuova è l’analisi fatta da Marx della accumulazione del capitale, ossia della trasformazione di parte del plusvalore in capitale, dell’impiego del plusvalore non già per i bisogni personali o per i capricci del capitalista, ma per una nuova produzione. Marx dimostrò l’errore di tutta la precedente economia politica classica (cominciando da Adam Smith) la quale supponeva che tutto il plusvalore, trasformandosi in capitale, passasse al capitale variabile. Esso si scompone in realtà in mezzi di produzione più il capitale variabile. Nel processo di sviluppo del capitalismo e della sua trasformazione in socialismo, ha enorme importanza il fatto che la parte costituita dal capitale costante (nella somma totale del capitale) aumenta più rapidamente della parte costituita dal capitale variabile.
L’accumulazione del capitale, affrettando la eliminazione dell’operaio da parte della macchina, creando a un polo la ric chezza e al polo opposto la miseria, genera anche il cosiddetto «esercito del lavoro di riserva», l’ «eccedente relativo» di operai, ossia la «sovrappopolazione capitalistica», che assume forme straordinariamente varie, e che dà al capitale la possibilità di estendere la produzione con estrema rapidità. Questa possibilità, unita con il credito e con l’accumulazione del capitale sotto forma di mezzi di produzione, ci dà, fra l’altro, la chiave per comprendere le crisi di sovrapproduzione che sopravvengono periodicamente nei paesi capitalistici, dapprincipio, in media, ogni dieci anni e, in seguito, a intervalli più lunghi e meno determinati. Bisogna distinguere l’accumulazione del capitale sulla base del capitalismo dalla cosiddetta accumulazio ne primitiva: dalla separazione violenta del lavoratore dai mezzi di produzione, dall’espulsione del contadino dalla terra, dal furto delle terre delle comunità, dal sistema coloniale, dai debiti statali, dal protezionismo doganale, ecc. L’«accumulazione primitiva» crea a un polo il proletario «libero», e al polo opposto il proprietario del denaro, il capitalista.
La «tendenza storica dell’accumulazione capitalistica» è caratterizzata da Marx con le seguenti celebri parole: «L’espropriazione dei produttori immediati viene compiuta con il vandalismo più spietato e sotto la spinta delle passioni più infami, più sordide e meschinamente odiose. La proprietà privata acquistata col proprio lavoro (dal contadino e dall’artigiano), fondata per così dire sull’unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica che è fondata sullo sfruttamento di lavoro che è sì lavoro altrui, ma, formalmente, è libero… Ora, quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai.
Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati» – in K. Marx – Il Capitale, vol. I…”
Sottolineando che: “Estremamente importante e nuova è inoltre l’analisi che Marx fa nel II volume del Capitale, della riproduzione del capitale sociale nel suo insieme. Anche qui Marx non considera un fenomeno individuale, ma un fenomeno di massa; non una particella frazionaria dell’economia sociale, ma tutta questa economia nella sua totalità. Correggendo il sopraindicato errore dei classici, Marx divide tutta la produzione sociale in due grandi sezioni: 1) produzione dei mezzi di produzione e 2) produzione degli oggetti di consumo; e poi esamina minutamente, basandosi su esempi numerici, la circolazione di tutto il capitale sociale nel suo complesso, tanto nella riproduzione semplice, che nell’accumulazione. Nel III volume del Capitale è risolto il problema della formazione del saggio medio di profitto in base alla legge del valore. Un grande progresso compiuto dalla scienza economica per merito di Marx consiste nel fatto che l’analisi viene condotta dal punto di vista dei fenomeni economici di massa, di tutto l’insieme dell’economia sociale, e non dal punto di vista dei casi singoli o delle manifestazioni esterne della concorrenza, a cui si limitano spesso l’economia politica volgare o la moderna «teoria dell’utilità marginale». Marx comincia con l’analizzare l’origine del plusvalore, e soltanto in seguito esamina la sua scomposizione in profitto, interesse e rendita fondiaria. Il profitto è il rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale impiegato in un’impresa. Il capitale a «struttura organica elevata» (in cui, cioè, il capitale costante supera il capitale variabile in misura superiore alla media sociale) dà un saggio di profitto inferiore alla media. Il capitale a «struttura organica bassa» dà un saggio di profitto superiore alla media. La concorrenza fra i capitali, il loro libero passaggio da una branca all’altra ridurranno in ambo i casi il saggio di profitto al saggio medio. La somma dei valori di tutte le merci di una determinata società coincide con la somma dei prezzi delle merci stesse, ma nelle singole imprese e nei singoli rami della produzione le merci, sotto la pressione della concorrenza, vengono vendute non al loro valore, ma secondo i prezzi di produzione, equivalenti al capitale impiegato più il profitto medio.
In tal modo, il fatto indiscutibile e generalmente noto del divario tra i prezzi e il valore, e della perequazione del profitto viene pienamente spiegato da Marx sulla base della legge del valore, perché la somma dei valori di tutte le merci coincide con la somma dei prezzi. Ma la riduzione del valore (sociale) ai prezzi (individuali) non avviene semplicemente e direttamente, ma in modo molto complicato; poiché è ben naturale che in una società nella quale i produttori isolati di merci sono uniti l’uno all’altro soltanto dal mercato, le leggi non possano manifestarsi se non come leggi medie, sociali, generali con deviazioni indivisuali, in questa o quell’altra direzione, che si compensano reciprocamente.
L’aumento della produttività del lavoro implica un più rapido accrescimento del capitale costante rispetto al capitale variabile. Ma siccome il plusvalore è in funzione del solo capitale variabile, si comprende che il saggio del profitto (rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale e non soltanto la sua parte variabile) abbia la tendenza a diminuire. Marx analizza minutamente questa tendenza e numerose circostanze che la mascherano o la ostacolano. Senza fermarci all’esposizione delle parti straordinariamente interessanti del III volume del Capitale consacrate al capitale usurario, commerciale e finanziario, passiamo alla parte più importante, alla teoria della rendita fondiaria. Il prezzo di produzione dei prodotti agricoli, a causa della limitatezza della superficie della terra che nei paesi capitalistici è interamente nelle mani di singoli proprietari, è determinato dai costi di produzione non in un terreno medio, ma nel terreno peggiore e non nelle condizioni medie, ma nelle peggiori condizioni di trasporto dei prodotti al mercato. La differenza tra questo prezzo e il prezzo di produzione nei terreni migliori (o in migliori condizioni) costituisce la rendita differenziale. Analizzandola minutamente, mostrandone la origine nella diversa fertilità dei diversi terreni, nelle differenti quantità di capitale investito nella terra, Marx mise in piena luce (si vedano anche le Teorie sul plusvalore, in cui merita speciale attenzione la critica a Rodbertus) l’errore di Ricardo, il quale riteneva che la rendita differenziale provenisse soltanto dal passaggio progressivo da terreni migliori a terreni peggiori. Invece si producono anche passaggi in senso inverso; i terreni di una categoria si trasformano in terreni di un’altra categoria (grazie al progresso della tecnica agricola, allo sviluppo delle città, ecc.) e la famosa «legge della produttività decrescente del terreno» è un profondo errore che tende a scaricare sulla natura i difetti, la limitatezza e le contraddizioni del capitalismo.
Inoltre, l’uguaglianza del profitto in tutti i rami dell’industria e dell’economia nazionale in generale presuppone piena libertà di concorrenza, libertà per il capitale di trasferirsi da un ramo a un altro. Invece, la proprietà privata della terra crea il monopolio, che ostacola questa libertà. A causa di questo monopolio, i prodotti dell’agricoltura, la quale si distingue per una più bassa struttura del capitale e che, per conseguenza, dà un saggio di profitto individuale più elevato, non entrano nel pieno e libero processo di livellamento del saggio del profitto; il proprietario della terra ottiene, in quanto monopolista, la possibilità di mantenere i prezzi al di sopra della media, e questo prezzo di monopolio genera la rendita assoluta. La rendita differenziale non può essere soppressa in regime capitalistico; la rendita assoluta invece può essere soppressa, per esempio con la nazionalizza zione della terra, col passaggio della terra in proprietà dello Stato. Questo passaggio della terra allo Stato significherebbe la rovina del monopolio dei proprietari privati, una libertà di concorrenza più conseguente e più ampia per l’agricoltura.. Ecco perché, osserva Marx, più di una volta, nella storia, i borghesi radicali hanno sostenuto questa rivendicazione borghese progressiva della nazionalizzazione della terra, la quale spaventa però la maggioranza della borghesia, perché «tocca» troppo da vicino un altro monopolio, oggi particolarmente importante e «sensibile»: il monopolio dei mezzi di produzione in generale. (Marx stesso ha esposto in forma mirabilmente popolare, concisa e chiara la sua teoria del profitto medio del capitale e della rendita fondiaria assoluta, nella lettera a Engels, in data 2 agosto 1862. Cfr. Carteggio, III volume, pp. 77-81. Cfr. anche la lettera del 9 agosto 1862, ivi, pp. 86-87.) Per la storia della rendita fondiaria è inoltre importante ricordare l’analisi di Marx, che mostra la trasformazione della rendita in lavoro (quando il contadino crea un prodotto supplementare lavorando la terra del proprietario) in rendita in prodotti o in natura (il contadino ricava dalla propria terra un prodotto supplementare, che dà al proprietario, in forma di una «costrizione extraeconomica»), quindi in rendita in denaro (la stessa rendita in natura trasformata in denaro in seguito allo sviluppo della produzione mercantile: nella vecchia Russia l’obrok), e infine in rendita capitalistica, quando, in luogo del contadino, sorge l’imprenditore agricolo, che coltiva la terra con l’aiuto di lavoro salariato. In rapporto con questa analisi della «genesi della rendita fondiaria capitalistica», devono essere segnalate una serie di acute osservazioni di Marx (specialmente importanti per i paesi arretrati come la Russia) sulla evoluzione del capitalismo nell’agricoltura. «La trasformazione della rendita in natura in rendita in denaro non è soltanto necessariamente accompagnata, ma perfino preceduta, dalla formazione di una classe di giornalieri nullatenenti, che prestano la loro opera per denaro. Durante il periodo in cui questa classe si viene formando, quando essa appare ancora soltanto sporadicamente, si sviluppa necessariamente presso i più agiati tra i contadini tributari di rendita la consuetudine di sfruttare gli operai agricoli per proprio conto, precisamente come nei tempi feudali i servi della gleba più ricchi usavano impiegare servi per loro conto. Essi acquistano in tal modo gradualmente la possibilità di accumulare un certo patrimonio e di tra sformare se stessi in futuri capitalisti. Fra i vecchi possessori del terreno, lavoranti in proprio, sorge così un vivaio di affittuari capitalisti, il cui sviluppo è condizionato dallo sviluppo generale della produzione capitalistica al di fuori della campagna vera e propria» (Il Capitale, vol. III, parte II, p. 332)… «L’espropriazione e la cacciata d’una parte della popolazione rurale non solo mette a libera disposizione del capitale industriale, assieme agli operai, i loro mezzi di sussistenza… ma crea anche il mercato interno» (Il Capitale, vol. I, parte II, p. 778). L’immiserimento e la rovina della popolazione rurale a sua volta ha la funzione di creare, per il capitale, l’esercito di riserva del lavoro. In ogni paese capitalistico «una parte della popolazione rurale si trova quindi costantemente sul punto di passare fra il proletariato urbano o il proletariato delle manifatture [cioè non agricolo]… Questa fonte della sovrappopolazione relativa fluisce dunque costantemente… L’operaio agricolo viene perciò depresso al minimo del salario e si trova sempre con un piede dentro la palude del pauperismo”. (da V.I.Lenin in Karl Marx Breve saggio biografico ed esposizione del marxismo)
Detto ciò, ora, vorremmo sapere come possano conciliarsi gli indirizzi cattolici di “Comunione e Liberazione” e della “Compagnia delle Opere” con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo operato nelle loro aziende.
Cosa intendono, a questo punto, per “sussidiarietà” o “solidarietà per chi ne ha bisogno” se sono fautori degli stessi processi economici di Confindustria che stridono con eguaglianza e socializzazione?
La dimostrazione è evidente nelle continue holding che costruiscono ed arricchiscono pochi a scapito di molti, e le indagini giudiziarie sono la dimostrazione pratica del forte disagio provato dall’establishment di CL o CDO quando emergono fatti come Parmalat, Cirio ecc. dove, ci sono coinvolte personalità a loro afferenti.