numero 43 ottobre 2003
Aldo Tortorella
Non mi fa piacere scrivere questo articolo sulle opinioni del segretario DS, Piero Fassino, a proposito di Craxi e Berlinguer. Ci sono, lo capisco, rilevanti questioni politiche su cui intervenire. Ma c’è anche qualcosa che viene prima del merito della questione. Sebbene ormai io mi senta del tutto estraneo alla politica condotta dal gruppo dirigente DS, da cui ho voluto uscire da tempo, non mi fa piacere dover constatare che il segretario del partito cui anch’io – sebbene all’opposizione – ho partecipato abbia atteso più di venti anni per rendere pubblico il suo vero giudizio su chi aveva ragione e chi aveva torto nella disputa tra Craxi e Berlinguer.
Il fatto che io sia stato e sia radicalmente critico intorno a molte delle scelte di questi dirigenti che sono venuti facendo le loro esperienze nel governo del partito e dello Stato non cancella, per quel che mi riguarda, un dato emotivo dovuto a una lunga consuetudine. Le diversità di opinione non possono essere inimicizia. Non mi sono compiaciuto delle dure sconfitte subite in questi anni – e pagate da tutti – a causa di un indirizzo politico che pure ho contrastato. E non mi allieta, ora, ricordare, come altri ha già fatto, che Fassino è un dirigente politico nazionale proprio dai tempi dell’ultimo Berlinguer e dunque aveva tutte le occasioni per dire almeno ai suoi compagni ciò che dichiara di pensare fino da allora: e cioè, in sostanza, che Craxi aveva ragione e Berlinguer aveva torto. Aveva le occasioni per dirlo e aveva il dovere di dirlo perché si tratta di un tema rilevante per la politica e, ancor prima, per i sentimenti di molti.
E veniamo al merito (anche se il metodo, è ovvio, è sostanza esso stesso). Come si sa, Fassino, nelle sue precoci memorie, paragona Berlinguer a un giocatore di scacchi il quale si accorge che “con la prossima mossa l’avversario gli darà scacco matto” e che ha un solo modo per evitare la sconfitta: “morire un minuto prima che l’altro muova”. Dunque Craxi aveva una linea vincente e Belinguer era un fallito. Per chiarire meglio, Fassino aggiunge: “In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica” 1. Come si dice per un malato terminale: per fortuna è morto. Che tristezza.
Un partecipe esegeta del pensiero del segretario (Bruno Gravagnuolo, su “l’Unità” 2) ci ricorda che l’immagine avrebbe una sua “dignità estetica”, in quanto è tratta da un noto film di Bergman nel quale un cavaliere crociato gioca una partita a scacchi con la morte e rinuncia a muovere l’ultima pedina. Ma qui non si tratta di un pensiero sul destino dell’uomo. Qui la metafora di Bergman diventa solo un giudizio sprezzante.
Tuttavia, capisco bene che bisogna andare oltre una istintiva ripulsa perché Fassino afferma una tesi politica e, ancor prima, una ricostruzione storica che come tali vanno discusse. Ho sempre pensato e penso che – come è ovvio – non c’è alcun oggetto mentale, nessuna istituzione e nessuna persona che possano essere avvolti da un velo di sacralità (e quando ciò avviene è un disastro). Tra l’altro, avendo io lavorato con Berlinguer in modo particolarmente intenso proprio nell’ultima fase della sua attività, quella che viene sopra ogni altra esecrata (Pecchioli e io fummo in quel periodo i coordinatori della segreteria del PCI) sarebbe assurdo, per me, sottrarmi a una discussione critica.
Ma una discussione, critica finché si voglia, è altra cosa dal giudizio sommario e liquidatorio di Fassino. C’è in esso una così straordinaria dimenticanza dei fatti che, per la prima volta, in quasi vent’anni di riserbo assoluto, Giovanni Berlinguer ha sentito l’obbligo di intervenire per ristabilire qualche dato di fatto a proposito dell’opera del fratello.
Ho letto che, di fronte alle critiche interne ed esterne, Fassino viene affermando – nei discorsi alle feste dell'”Unità” – la riconoscenza personale verso Berlinguer e il suo convincimento sulla importanza della sua lezione morale, invitando a leggere tutto il libro e non una sola frase. Ma la riconoscenza personale e il riconoscimento morale non mutano la netta condanna politica. E il libro pienamente la conferma. Certo, non mancano i riconoscimenti per il tempo del compromesso storico, pur sempre accompagnati da riserve profonde. L’idea dell’austerità oggi risulta ‘profetica’: ma, ahimè, era fuori tempo e fuori luogo quando Berlinguer la proclamò 3. L’assunzione della democrazia come valore universale e lo strappo con l’URSS furono cose giuste: ma, ahimè, Berlinguer le accompagnò con l’illusione della terza via 4 e con l’incapacità della schietta assunzione di un profilo socialdemocratico. La tensione etica fu innegabile: ma il discrimine posto da Berlinguer con la ‘questione morale’ viene messo nel dimenticatoio. La condanna investe, soprattutto, il tempo successivo alla rottura dei governi di solidarietà nazionale. L”alternativa democratica’ è equivoca fin dal nome: si poteva pensare che si volesse accusare i partiti al governo di non essere democratici. Il PCI viene portato da Berlinguer a una “deriva identitaria e solipsistica”. Esso “di fronte alle difficoltà del presente non sa opporsi al richiamo del passato”; e “si rifugia in una autoconsolatoria affermazione di identità”, rivendicando rispetto agli altri partiti una “diversità quasi genetica” anziché programmatica. Insomma Berlinguer è un passatista, poco più di un settario, uno che esilia il suo partito “in una malinconica navigazione senza bussola”.5 Craxi – di contro – viene visto come colui che interpreta “le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo”. Egli è “l’alfiere di quella parte d’Italia che ormai ritiene le rigidità sindacali un ostacolo alla modernizzazione del paese”. Certo, egli “anziché sollecitare la ristrutturazione produttiva e finanziaria” offre alle imprese “un debito pubblico generoso, che con tassi di interesse doppi rispetto all’inflazione strangolerà il paese” e vi aggiunge “una riduzione della scala mobile” 6. Ma ciò non toglie – a parere di Fassino – che egli colga l’esigenza di innovazione con una sfida su due fronti: alla DC per la direzione del pentapartito e al PCI per l’egemonia nella sinistra. Craxi “coglie prima di altri … un’esigenza di modernizzazione” e “per primo pone l’esigenza di una riforma istituzionale che prenderà avvio dieci anni dopo”. Tutto ciò, aggiunge il nostro autore, “nulla toglie alla gravità di Tangentopoli”. Ma “piaccia o non piaccia Craxi ha posto problemi veri anche se spesso ha dato risposte sbagliate” 7.
Si tratta di una condanna, seppur con attenuanti, per l’uno e di un riconoscimento di merito, seppur con qualche riserva, per l’altro. Ma questi giudizi si scontrano, prima di ogni altra considerazione, con il buon senso. Un commentatore di fermi principi liberaldemocratici come Piero Ottone, dopo aver detto ciò che a suo giudizio fu positivo e negativo nell’opera di Craxi al governo, osserva che se è giusto giudicare un politico dal risultato finale “il suo risultato fu pessimo: prese in mano il Partito socialista e lo distrusse”. E Giorgio Bocca che definisce se stesso “anticomunista e liberalsocialista” e che fu testimone partecipe di quel dramma, schernisce la tesi del golpe giudiziario cui si dovrebbe la fine del PSI e ricorda: “I Borrelli, i Di Pietro, dovevano, per così dire, ancora nascere e il partito di Craxi delle tangenti e degli assessori era già in piena metastasi…”.
Dall’altra parte, e all’opposto, Berlinguer ha lasciato ai suoi eredi un grande partito, sulla cui rimanente struttura è ancora oggi fondata l’organizzazione di cui Fassino è segretario. Quale che sia il giudizio da dare sulla svolta – il modo con cui essa venne condotta, come si sa, non mi convinse per nulla – ci sarebbe stato poco da svoltare se i guidatori avessero avuto il volante ma non l’automobile, e cioè se non ci fosse stato un partito certo in crisi, ma ancora forte e solido.
Tuttavia, questa opposta sorte dei due partiti non viene accettata come una prova sulle ragioni o sui torti dei contendenti di allora poiché essa è apparsa, particolarmente ad alcuni che furono socialisti, come un paradosso, un’assurdità, una specie di incomprensibile beffa della sorte, oppure una congiura dei magistrati rossi, dato che la disputa interna al movimento d’ispirazione socialista si veniva intanto concludendo con il crollo dell’URSS e del movimento comunista storicamente dato.
Ma una spiegazione ragionevole c’è. Ed essa non sta solo nella lunga storia del PCI: rispetto alla quale una lettura seriamente critica (cui anch’io ho cercato di contribuire) è cosa diversa e opposta rispetto alle falsificazioni, alle calunnie e alle grottesche abiure cui ci si è dedicati. La spiegazione è anche nel Berlinguer dei suoi ultimi anni, aperti dall’assassinio di Moro.
Ho ben presente quell’incubo. Qualcuno ha voluto ricordare, sulla base dei verbali della direzione del PCI, che intervenni solitariamente per dire che c’era da tener conto che si discuteva della vita di una persona e, per di più, di una persona che era un avversario politico. Ma il PCI – e ognuno di noi – venne paralizzato dalla certezza che ogni gesto per la trattativa avrebbe rappresentato una frana per lo Stato e per il partito. Berlinguer visse, sebbene nel suo modo quasi segreto, un dramma anche personale: dover assistere impotente all’agonia proprio di chi più d’ogni altro si era adoprato nella DC per aprire una nuova stagione politica.
Il governo che nacque il giorno stesso del rapimento di Moro era stato concepito per cercare di aggiustare, con l’ingresso dei comunisti nella maggioranza dopo trent’anni di opposizione, una esperienza già in crisi, quella di un governo di soli democristiani sorretto dall’astensione delle sinistre. Ma anche il nuovo governo era di soli democristiani, compresi i peggiori, e nel PCI vi erano dubbi sul votarlo fino alla notizia del rapimento. Ma con la morte di Moro cadeva anche la speranza di un vero mutamento della DC. E la nuova maggioranza con i comunisti, se risanò in parte i conti pubblici anche con sacrifici per i lavoratori, non mostrò alcun segnale di rinnovamento. Berlinguer venne gradatamente constatando che la linea della solidarietà nazionale era fallita e non era certamente estranea allo sbandamento di larga parte della giovane generazione e alla protesta di vasti settori operai.
Nacque in tal modo il bisogno di una alternativa a quella politica. Ma nel rapporto con il PSI non ci si può immaginare una realtà che non esisteva.
La segreteria Craxi era nata dopo il successo del PCI nelle elezioni del ’76, un successo vissuto dal PSI come un dramma. Venne posta sotto accusa la politica di De Martino degli ‘equilibri più avanzati’ nel centro-sinistra di allora, considerata subalterna ai comunisti. Ricordo Bobbio che dice: noi scuotiamo l’albero, gli altri raccolgono i frutti. Però di tutte le sue critiche al PSI, o che riguardavano anche vizi che non sarebbero stati corretti, fu accolto essenzialmente l’impulso alla competizione con il PCI. Un impulso che fu anche stimolante (per esempio nella rivista di Federico Cohen, “Mondoperaio”). Ma ben presto prevalse piuttosto l’idea dello scontro nel nome di una lotta contro il temuto soffocamento rappresentato da una eventuale stabile intesa tra PCI e DC. Quando Berlinguer propose – dopo un anno di sostegno esterno delle sinistre a un monocolore democristiano – un governo laico e di sinistra con sostegno esterno democristiano, la segreteria socialista fu la prima ad opporsi più o meno pubblicamente così come si acconciò subito al veto Dc a un ingresso di socialisti e comunisti in un governo vero di unità nazionale – dopo averlo sollecitato. Quando – infine – dopo le elezioni succedute alla fine della solidarietà nazionale Berlinguer, in un incontro con i socialisti, avanza la proposta di una opposizione comune per costruire insieme un nuovo rapporto e una nuova prospettiva, la risposta di Craxi è ancora negativa, perché la sua scelta sarà per il ritorno al governo con la Democrazia cristiana sulla base di un nuovo patto di esclusione dei comunisti. E non si dimentichi che Berlinguer, descritto come un settario antisocialista, fu il primo, nel 1978, a proporre e a sostenere il socialista Pertini come presidente della Repubblica.
Sappiamo ora, per la pubblicazione delle note riservate del segretario di Berlinguer, Tonino Tatò, ciò che Craxi vagamente propose durante un colloquio tra la segreteria del PSI e la società editoriale dell'”Espresso”, raccontato da Scalfari a Tatò e da questi riferito a Berlinguer 8. Craxi disse che avrebbe potuto aprire una trattativa segreta con i comunisti purché il PCI proponesse Craxi stesso come presidente del Consiglio di un governo con i DC, impegnandosi a sostenerlo sui punti di programma eventualmente concordati, senza entrare nella maggioranza. La ricompensa sarebbe stata una sua dichiarazione sulla affidabilità democratica dei comunisti. Non ricordo se questa stranezza comunicata per vie traverse sia stata mai discussa in qualche sede di partito, ma sono ben certo – salvo smentite – che a nessun dirigente comunista di allora sarebbe venuto in mente di prenderla in considerazione.
La vera divisione nella direzione del PCI non fu su qualche proposta di Craxi o contro Craxi, ma sulla rottura con il governo di solidarietà nazionale. Per la prima volta, come annotò Natta nel suo diario, si manifestò allora una aperta distinzione di tendenze tra chi sosteneva la rottura (tra cui ero anch’io), e chi voleva la continuazione di quell’esperienza.
Continuo a pensare che non ci fosse altra strada al di fuori di quella proposta da Berlinguer che era, in sostanza, molto semplice e netta: o dentro nel governo o all’opposizione. La situazione in cui eravamo non solo era perdente per il partito, in calo in tutte le elezioni parziali, ma era divenuta un pasticcio e un groviglio incomprensibile, rischiosa per la salute stessa della democrazia italiana.
Certamente, le scelte che furono fatte durante l’opposizione ai governi di pentapartito fino a quello di Craxi possono essere discusse tutte, ma solo una visione poco democratica può definire un grande partito che conduce una opposizione costituzionalmente corretta, per quanto aspra essa sia, come un partito alla deriva, solipsistico, senza bussola, allo sbando e via insultando, perché non accetta la linea del governo cui si oppone.
Non ci fu allora lo scontro tra un innovatore e un passatista, tra un ‘riformista’ e un barricadero, ma una lotta tra due opposte concezioni della innovazione necessaria.
Bisogna chiedersi che razza di innovazione economica fu quella che – come lo stesso Fassino ricorda – aumentò l’inflazione dilatando a dismisura il debito pubblico e contemporaneamente attaccò il salario e il potere sindacale. Perché di questo si trattò nell’iniziativa governativa sulla scala mobile: non vi fu solo un taglio della contingenza, ma un accordo separato senza la CGIL, in spregio ai principi della contrattazione (nonostante Lama, come si dice, avesse un buon rapporto con Craxi). Questo tipo di ‘innovazione’ veniva da quella linea liberistica che si stava affermando nel mondo con la Thatcher e con Reagan, e che porterà agli effetti oggi visibili nei paesi della fame e in quelli del sottosviluppo ma visibili anche all’interno dei paesi capitalistici sviluppati con la tendenza allo smantellamento dello Stato sociale, con l’aumento delle distanze tra ricchi e poveri, con il restringimento degli spazi democratici e con il ritorno alla guerra come strumento per il dominio e per la conservazione delle gerarchie.
E lo stesso scadimento dell’etica pubblica anche da parte di tanti rappresentanti del PSI in quel periodo – perché non si può fingere che si trattasse solo di finanziamenti illeciti ai partiti, come Fassino e tutti quanti sanno benissimo – non fu la conseguenza inevitabile della fragilità umana. L’uomo è certamente corruttibile, ma lo diventa tanto più quanto più cadono le barriere rappresentate dai vincoli che una comunità stabilisce e che ciascuno introietta. Se in un partito si afferma come innovatrice l’ideologia e la pratica che un vecchio socialista come Foa definì “il danaro per il potere, il potere per il danaro” il resto viene di conseguenza, soprattutto se il cattivo esempio viene dall’alto.
L’innovazione cui pensava e che cercò di realizzare l’ultimo Berlinguer era opposta a questa, e io credo che fosse assai più dentro alle esigenze della contemporaneità e alla visione del futuro. Certo, gli davano fastidio le mode di pensiero scambiate per modernità e non era disposto a rinunciare alle sue convinzioni più profonde Durante la preparazione di un suo intervento – credo a un congresso giovanile – quasi sovrappensiero mi disse: “Mi vogliono far dire che abbiamo sbagliato tutto da sempre, io non ci sto”. Me ne stupii, non per quel che diceva ma perché non era prodigo di comunicazioni sui suoi stati d’animo, anzi, il contrario. Ma quel “non ci sto” che gli era venuto alle labbra era il contrario di una qualsiasi nostalgia del passato.
Berlinguer aveva capito che nessuna delle correnti di pensiero che venivano scuotendo il mondo – il nuovo femminismo che rivendicava non più la identificazione con i valori maschili, ma cercava una soggettività nuova, il movimento ecologista che veniva svelando una contraddizione costitutiva ed esplosiva del modello di sviluppo, una concezione nuova della lotta per la pace e del pacifismo -, nessuna di queste idee nuove veniva dalla cultura del movimento di ispirazione socialista, anzi nasceva non solo fuori di esso – comunisti o socialdemocratici che si fosse – ma spesso contro di esso. E sentì per tempo che stava sorgendo una nuova questione del lavoro con l’invocazione da parte delle imprese alla liberazione dai lacci e dai lacciuoli e con l’appello sempre più insistito a una flessibilità esasperata che sarebbe diventata – come è diventata – precariato, assenza di diritti, nuova subalternità.
L’ultimo tempo della vita di Berlinguer fu scandito da questa ricerca di un nuovo fondamento per le idealità cui aveva dedicato l’esistenza: questo significava il ‘non starci’ a buttare tutto a mare. L’innovazione per il tempo nuovo non poteva e non doveva essere l’adeguamento alla ristrutturazione capitalistica. E la stessa ‘questione morale’, che sollevò dieci anni prima della scoperta di Tangentopoli, corrispondeva alla volontà di trovare un altro rapporto tra etica e politica rispetto a quello che un machiavellismo deteriore era venuto introducendo nel movimento comunista e non solo in esso.
D’altra parte è proprio dell’ultima parte della sua vita lo ‘strappo’ definitivo dal mondo sovietico, con la posizione sui fatti polacchi e l’affermazione della fine della ‘spinta propulsiva’ dell’Ottobre russo. È paradossale che coloro che criticavano Berlinguer quasi che avesse perso la bussola (e la testa) con le scelte successive al compromesso storico, sono disposti a rendergli pieno riconoscimento per le decisioni in materia internazionale. Come se le une fossero in contraddizione con le altre. Ma è vero il contrario. Egli intravvide la crisi finale del socialismo reale (è lui che chiede in quel tempo: che socialismo è quello che non riesce neppure a produrre il grano per i propri cittadini?), ma non ne ricavò l’idea dell’acconsentimento al modello capitalistico, che sapeva vincente. Vincente, disse, per la quantità della produzione di merci, ma non per la qualità della vita del genere umano. Se il fallimento sovietico indicava la fine di tutta una vecchia concezione del socialismo, bisognava cercare una concezione nuova per farlo rinascere. Questa ricerca fu il peccato che gli viene rimproverato.
La ricerca di Berlinguer, si dice, portò all’isolamento. Ma se egli non avesse sfidato l’isolamento, se si fosse accodato ad altri partiti e alla vecchia pratica politica, con essi il PCI sarebbe stato spazzato via, non avrebbe potuto durare oltre se stesso. Dopo la sua morte non avemmo le forze per portare avanti la sua idea di innovazione già prima minoritaria proprio perché rompeva con schemi tradizionali, cui apparteneva ancora il compromesso storico. Altro che passatista: proprio nel movimento giovanile di oggi per un altro mondo possibile ritorna l’eco delle sue ultime posizioni.
Ha ragione Rossana che ha definito la operazione politica di Fassino su Berlinguer come l’offerta di un simbolo sacrificale per il definitivo affossamento di quanto poteva restare di un pensiero alternativo dentro il proprio partito in vista di quel partito ancora una volta ‘nuovo’ che dovrebbe nascere intorno a Prodi. Una ‘novità’ che spinge verso un più accentuato moderatismo nel momento stesso in cui si manifesta la crisi del liberismo. È una strada cieca, anche se porterà il consenso di gran parte dei gruppi dirigenti e dominanti, se donerà premi letterari e se, in definitiva, troverà un consenso fortemente sostenuto dai media. Ma è anche un’operazione cieca. Berlinguer aveva lasciato in eredità un grande partito: ma la sua figura era un’eredità in se stessa. È una nuova insensatezza voler disperdere pure questo patrimonio. Tanto più che una tale operazione distruttiva già oggi non regge come si vede dagli affannati tentativi di recupero. La figura di Berlinguer resisterà perché non è stata costruita da una qualche fabbrica di monumenti e di miti.
note:
1 Piero Fassino, Per passione, Rizzoli 2003, p. 161.
2 Bruno Gravagnuolo, Berlinguer, la grandezza e i limiti, “l’Unità”, 19 settembre 2003.
3 Fassino, ivi, pp. 78-81.
4 Ibidem, p. 215.
5 Ibidem, pp. 160-161.
6 Ibidem, p. 155.
7 Ibidem, p. 261-262.
8 Gli appunti e le note di Tatò sono raccolti in un volume: Caro Berlinguer, con introduzione di Francesco Barbagallo (Einaudi 2003). Barbagallo chiarisce che le note di Tatò non vanno lette come pensieri di Berlinguer, notazione opportuna perché già stanno nascendo in qualche recensione maliziose conclusioni. Tatò era parte del gruppo politico che originariamente si era definito dei ‘comunisti cattolici’ e aveva in Franco Rodano il proprio capo. Nelle note di Tatò si sente l’influsso del pensiero di Rodano così come egli lo esprimeva nella “Rivista trimestrale”. L’orientamento di Rodano non solo si distingueva nettamente da quello di Berlinguer su numerose questioni, ma divenne apertamente e pubblicamente conflittuale soprattutto per lo strappo con l’Unione sovietica..