(Nota Política do PCB)
Il Brasile, dalla fine degli anni ’50 e inizi degli anni ’60, ha vissuto una crisi di consolidamento e di crescita del capitalismo nel paese, conseguenza del proprio processo di accumulazione accelerato dal modello economico impiantato da Juscelino Kubitschek [presidente del Brasile dal 1956 al 1961, ndr]. Lo Stato brasiliano ha garantito l’infrastruttura necessaria al pieno sviluppo capitalistico, con una crescita record dei settori più dinamici della struttura industriale brasiliana, capitanata, tra gli altri, dalle aziende automobilistiche, della costruzione navale e della meccanica pesante, per lo più controllate da capitali stranieri. L’espansione capitalista è stata ottenuta con l’aumento della produttività industriale, con l’introduzione di nuove tecnologie, agevolata dall’apertura al capitale straniero e dall’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro.
Se questa politica fu capace di promuovere un elevato grado di de-nazionalizzazione dell’economia brasiliana, allo stesso tempo non comportò contraddizioni aperte con gli interessi dei capitalisti nazionali, poiché propiziò la formazione di un nucleo di aziende associate ai gruppi multinazionali presenti in Brasile. Questo quadro proiettò la borghesia brasiliana associata al capitale internazionale, in una posizione di distacco dalle altre frazioni della classe dominante che componevano lo Stato nel cosiddetto “patto populista “, fino ad allora mantenuto sulla base dell’equilibrio tra loro. I settori più dinamici della borghesia brasiliana volevano distanziarsi da qualsiasi progetto nazionalista che, da un lato, rigettasse o limitasse la presenza del capitale straniero nel paese e, dall’altro, favorisse o non impedisse la mobilitazione crescente della classe lavoratrice e delle masse popolari per i loro diritti.
Allo stesso tempo, lo sviluppo del capitalismo richiedeva una nuova ondata di espansione produttiva, con l’approfondimento del processo di concentrazione del capitale, da portare avanti attraverso l’espulsione dal mercato delle imprese meno forti e, pertanto, meno competitive. Ben presto giunse una crisi di sovra-accumulazione di capitale o di sovrapproduzione, tipica della fase monopolistica del capitalismo. Nei primi anni ’60, l’esistenza di un governo come quello di João Goulart [presidente dal 1961 al 1964, ndr], identificato con proposte di sviluppo nel quadro di un “capitalismo nazionale autonomo” e che, a causa delle sue origini storiche, era costretto al dialogo con i vertici sindacali, significava chiaramente un ostacolo alle pretese della grande borghesia integrata in forma subalterna nel capitale internazionale, disposta quindi a prendere d’assalto il potere dello Stato per soddisfare al meglio i propri interessi.
D’altro canto, in questo periodo si verificava la partecipazione attiva di larghi strati di lavoratori della città e della campagna agli scontri politici, che attirava anche i settori degli strati medi, soprattutto studenti e intellettuali. Se l’espansione della mobilitazione popolare non metteva immediatamente in discussione l’ordine capitalista, non cessava di rappresentare però una seria minaccia per gli interessi delle frazioni della classe borghese legate alle banche, alla grande industria e al latifondismo. Ciò portò ad una congiuntura di crescente tensione, con il governo di Joao Goulart messo sotto pressione da tutti i settori della lotta politica, tanto da subire una diminuzione di potere e autorità.
La risposta dei gruppi capitalistici più strutturati nel periodo, costituiti dalla borghesia industriale, finanziaria e latifondista, fu la preparazione di un movimento reazionario pronto a contenere la minaccia proveniente dalle masse lavoratrici. Il colpo di stato del 1964, ha rappresentato un’azione repressiva per distruggere e schiacciare le forze popolari in ascesa, anche allo scopo di riorganizzare le forze politiche del nucleo centrale del potere, per allontanare le frazioni borghesi considerate obsolete dal punto di vista del modello di sviluppo economico che si voleva sviluppare, cercando di consolidare il capitalismo monopolistico nel paese, per il quale era necessario radicalizzare l’espropriazione della classe operaia a livelli ancora più violenti di quanto fin lì praticato.
L’azione golpista incontrò una timida resistenza da parte del movimento sindacale e popolare. La linea politica adottata dal PCB, che influenzava ampi settori del movimento operaio, in pratica disarmava i militanti di fronte all’ondata reazionaria che prendeva forma a partire dalla diffusione dell’ideologia anti-comunista e dal discorso del “pericolo rosso” predicato dalle associazioni padronali e da organismi come Ipes [Istituto di ricerche e studi sociali] e Ibad [Istituto brasiliano di azione democratica], apparati privati dell’egemonia capitalista, oltre che dai dispositivi tipicamente coercitivi come l’Esercito e la Scuola superiore di guerra, portò a contagiare porzioni significative degli strati medi, attirandoli nel sostegno al golpe del 1964.
L’errata interpretazione della realtà brasiliana, vista ancora come caratterizzata da residui “feudali” e la definizione della strategia della rivoluzione brasiliana come democratica-nazionale, che prevedeva l’alleanza dei lavoratori con una “borghesia nazionale”, presumibilmente non disposta all’imperialismo, fece sì che i comunisti, come i principali leader dei gruppi coinvolti nella lotta per le riforme, sottovalutassero la preparazione dei gruppi fondamentali della classe dominante al colpo di stato. Il PCB, con la Dichiarazione di marzo del 1958, riteneva necessario lottare per il consolidamento e l’espansione della legalità democratica, partendo dal presupposto che fosse possibile intervenire in modo più diretto nel processo di cambiamento sperimentato dalla società, organizzando la pressione popolare sullo Stato e conducendo la rivoluzione brasiliana con mezzi pacifici. La difficoltà di collegare la realtà brasiliana dell’epoca ad una società capitalistica matura portò a conclusioni contraddittorie, come quella di scommettere su una rivoluzione democratica-nazionale, tappa da realizzarsi prima della rivoluzione socialista. Nella pratica, la conduzione del processo finì nelle mani di settori della borghesia che non avevano pretese di grandi cambiamenti nel quadro sociale ed economico brasiliano.
Tuttavia, dopo l’insediamento della dittatura e dopo un periodo di dispersione, per aver sottovalutato la possibilità di golpe, il PCB fu capace di articolare strumenti per la costruzione della resistenza negli spazi possibili, cercando di ampliare la lotta verso la ripresa del movimento di massa, mentre allo stesso tempo partecipava alla creazione di una grande forza di opposizione riunita nel fronte democratico. Negli anni ’80, i settori moderati dell’opposizione borghese liberale negoziarono la transizione dall’alto in direzione della democrazia formale e l’ampio movimento di lotta contro la dittatura non fu in grado di approfondire il cambiamento di direzione in una alternativa anticapitalista per il Brasile.
Il PCB, per partecipare attivamente alla resistenza contro la dittatura e anche se correttamente non aderì alla lotta armata – comprendendo che questa forma di lotta non era compatibile con i rapporti di forza – pagò un alto costo per questo percorso di lotte: centinaia di militanti comunisti furono arrestati, torturati, assassinati ed esiliati. Prima di sviluppare la “apertura lenta, sicura e graduale” e dopo aver sconfitto le organizzazioni che fecero ricorso alla lotta armata, la dittatura si concentrò su una violenta liquidazione del PCB.
Nei primi mesi del 1973, il dirigente regionale del PCB, Celio Guedes, fu ucciso con un colpo alla nuca nella sede di Cenimar a Rio de Janeiro. Nel 1974, furono assassinati i dirigenti nazionali David Capistrano da Costa, crudelmente ucciso; Jose Roman, operaio; John Massena, metallurgico; Luiz Ignácio Maranhão Filho, giornalista; Walter de Souza Ribeiro, ufficiale dell’esercito e attivo militante delle lotte per la pace. Nello stesso anno fu ucciso il professore di storia e presidente del sindacato degli insegnanti di Rio de Janeiro, Afonso Henrique Martins Saldanha.
Nel 1975 la repressione contro il PCB fu ancora più violenta. Eliminò i membri del Comitato centrale Elson Costa, leader dello sciopero dei camionisti nello [Stato di] Minas Gerais; Hiran de Lima Pereira; Nestor Veras, leader delle lotte contadine; Itair Veloso, operaio edile; il giornalista e avvocato Orlando da Silva Rosa Bomfim Junior; il giornalista e avvocato Jaime Amorim de Miranda; il dirigente della gioventù comunista Jose Montenegro de Lima. I loro corpi non sono mai stati trovati.Morirono inoltre sotto tortura il grafico Alberto Aleixo, il tenente di Polizia militare di San Paolo José Ferreira de Almeida, il colonnello in pensione José Maximino de Andrade Netto, il commerciante Pedro Jeronimo de Souza. Alla fine del 1975, la repressione assassinò, sotto tortura, Vladimir Herzog, docente all’Università San Paolo e giornalista, militante del PCB a São Paulo. L’anno successivo, caddero vittime della dittatura, il militante Neide Alves Santos e l’operaio metalmeccanico Manoel Fiel Filho, responsabile per la distribuzione del giornale Voz Operária [Voce Operaia] nelle fabbriche del quartiere Mooca a San Paolo.
Nella sua riorganizzazione dopo il ritorno degli amnistiati nel 1979, il Comitato centrale eletto nel 1982 guidò il Partito su un percorso di conciliazione di classe, insistendo sul mantenimento della politica del fronte democratico che fino ad allora era stata corretta – ma era già superata – invece di promuovere un cambiamento di alleanze a sinistra.
Superato il periodo dittatoriale, 30 anni di cosiddetta ridemocratizzazione della vita politica nazionale non sono stati in grado di modificare il quadro fondamentale di una società segnata da profonde disuguaglianze sociali, in cui i vari governi hanno come obiettivo di garantire gli elevati profitti delle imprese, delle banche e del latifondo, completamente integrati nel capitalismo internazionale e riadattando l’apparato repressivo della dittatura per contenere, col terrore statale, la minaccia per il potere borghese individuata nelle manifestazioni popolari e nella lotta di classe. Questo perché è cambiata la forma di egemonia borghese, con il ripristino della legalità democratica, ma il sistema capitalista non per nulla è cambiato, approfondendo così sempre di più la disuguaglianza e l’esclusione sociale.
La transizione dall’alto, che guidò il passaggio dalla dittatura alla democrazia formale borghese, ha garantito l’impunità a torturatori e assassini che agirono al servizio del regime, consentendo oggi la tortura e l’esecuzione sommaria di persone – per lo più lavoratori poveri, emarginati dalla società di mercato – come una pratica adottata dalla polizia in tutto il paese.
A 92 anni dalla sua nascita, il PCB vive oggi un processo di ricostruzione rivoluzionaria, riconosce gli errori commessi nel passato e ne esalta i successi, sottolineando il ruolo eroico di tutti i quadri del Partito che lottarono contro la dittatura, soprattutto di quelli che hanno pagato con la loro vita l’impegno storico della trasformazione della realtà brasiliana e per la rivoluzione socialista.
Per l’abrogazione della Legge di amnistia. Punizione dei torturatori, degli assassini e collaboratori del regime.
Per l’abrogazione della Legge di sicurezza nazionale e dell’Ordinanza del ministero della Difesa, che promuove l’utilizzo dei militari per la repressione dei movimenti popolari.
Per la smilitarizzazione delle polizie.
Con il Potere popolare, verso il Socialismo!
01 Abril 2014
Traduzione per Resistenze.org