Una esponente locale del partito di Di Pietro fa morire la testata storica sulla quale scriveva il presidente Giorgio Napolitano.
di Redazione
L’insegnante in pensione Annita Zinni di Montenero di Bisaccia, amica di famiglia di Antonio Di Pietro ed esponente del suo partito, sta decretando la morte del giornale La Voce delle Voci, edizione nazionale della testata storica La Voce della Campania, sulla quale negli anni ’70 scrivevano grandi intellettuali del Pci campano, il più illustre del quali è il capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Vantando un “transeunte di patema d’animo” – attestato da una psicologa – che sarebbe stato causato da 10 righe di un articolo scritto nel 2008 sulla Voce dal giornalista Rai Alberico Giostra, e relativo al chiacchierato svolgimento dell’esame di maturità sostenuto da Cristiano Di Pietro, la pensionata Zinni ha chiesto ed ottenuto che Massimo Marasca, giudice civile della città in cui vive, Sulmona, le assegnasse un risarcimento per danni da diffamazione pari a quasi centomila euro. Fra i testi a suo favore il giudice ha ritenuto di ammettere anche Aura Scarsella, amica della Zinni, nonché procuratore capo facente funzioni a Sulmona, dove conduce inchieste che vedono abitualmente al suo fianco, in veste di gip, lo stesso Massimo Marasca.
Il “patema”, secondo il giudice, avrebbe causato “danni” alla Zinni nell’anno 2009. Raffiche di mitra? Coltellate? Benché monetizzati in quasi centomila euro cash, di sicuro quei “danni” non furono tali da frenare la folgorante escalation della Zinni che pochi mesi dopo, a luglio 2010, viene eletta per acclamazione segretario cittadino di Italia dei Valori a L’Aquila (avendo dovuto quindi sostenere il lungo e duro confronto politico con i rivali interni), senza contare il successivo ingresso a vele spiegate nel direttivo nazionale del partito di Ignazio Messina, dove siede tuttora.
Oggi, dopo avere notificato pignoramenti a pioggia in tutte le banche italiane, la Zinni aggredisce con pignoramenti al Registro stampa (e perfino al Ministero dei Beni Culturali) anche la testata storica La Voce della Campania, un tempo diretta da Michele Santoro e nel 2007 insignita al Quirinale del Premio Saint Vincent per il suo giornalismo d’inchiesta, da sempre rivolto al contrasto della criminalità organizzata.
Più volte i giornalisti della Voce hanno subito attentati ed intimidazioni dai clan, spesso provenienti dalla vasta area grigia dei colletti bianchi che pullulano in ogni settore della città, a cominciare da quelli istituzionali. Una testimonianza efficace del clima pesante di cui parliamo è contenuta nelle nostre interviste per il film ‘O Sistema, i cui coraggiosi autori facevano riferimento, fra l’altro, agli articoli di Roberto Saviano, allora sconosciuto collaboratore di testate come La Voce della Campania, e ad altre inchieste della stessa Voce portate avanti fin dal terremoto dell’Irpinia, che segna il passaggio dei clan dall’ambito locale fino all’attuale status di feroce holding multinazionale.
La camorra non è riuscita a fermare il giornalismo d’inchiesta della Voce. Ci riesce oggi Italia dei “Valori”, ci riesce l’esponente di un partito politico, l’IdV, che si candida ad entrare nel parlamento europeo (dove ha sede anche la Corte dei Diritti dell’Uomo), ci riescono i metodi a nostro giudizio rozzi ed illegittimi adottati dal suo avvocato Sergio Russo.
La Corte d’Appello dell’Aquila, dove si è appena aperto il giudizio di secondo grado, ha respinto la nostra documentata richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione. Non esisterebbero, secondo i giudici, né il fumus né il periculum. Dimenticano, fra l’altro, i pericula di ordine pubblico collegati proprio alla testata. Sappiamo già quali potranno essere i soggetti – meglio, i colletti – interessati ad oscurare per sempre questa esperienza. Se non saranno loro, potremo affermare che l’incarico di zittire definitivamente un giornalismo capace di dare tanto fastidio alle mafie (armate ed istituzionali), operante da sempre in piena collaborazione con Dia e Dda, se l’è assunto una certa parte della magistratura. E di sicuro se lo è assunto l’intera classe politica italiana, compresa quella attuale, che in cinquant’anni di storia non ha mai voluto allineare a principi di civiltà una legge sulla diffamazione tipica dei regimi fascisti.
Quanto infine alla Zinni, staremo a vedere se questa vicenda farà onore al suo partito nella difficilissima campagna elettorale che si apre per una compagine ormai allo stremo, lacerata dalle zuffe interne intorno ai lasciti milionari del fu partito moralizzatore italiano. Questa storia la vada a raccontare nei comizi, quando per il suo partito si farà più affannosa l’impossibile corsa verso Strasburgo, o in direzione dell’ancor più interessante Consiglio regionale d’Abruzzo, per il quale si vota il 25 maggio.
Non sappiamo se la signora Zinni avrà il coraggio di raccontarla. Noi, di sicuro, lo stiamo già facendo.
Napoli, 20 aprile 2014