La vittoria di Antonio Ingroia e Domenico Gozzo
di Giorgio Bongiovanni
Dopo oltre vent’anni d’attesa finalmente un importante tassello di verità viene sancito in via definitiva dalla corte di Cassazione. Marcello Dell’Utri è stato il “garante” dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra ed ora dovrà scontare una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ci sono volute poco più di quattro ore di camera di consiglio, affinché la corte presieduta da Maria Cristina Siotto accogliesse le richieste del sostituto pg Aurelio Galasso. Ed ora è certificato che “i rapporti tra Cosa Nostra e Dell’Utri non si sono mai interrotti e si sono protratti senza soluzione di continuità dal 1974 fino al 1992”.
Una sentenza che, senza motivi di esaltazione e fanatismo ma con concretezza e realismo, possiamo definite come la vittoria di Antonio Ingroia e Domenico Gozzo (anche se non va dimenticato il contributo dei pg in Appello, Antonino Gatto e Luigi Patronaggio ndr). Sono stati loro i pm che hanno rappresentato l’accusa nel processo di primo grado.
Sono stati loro i primi, con una monumentale requisitoria durata 16 udienze (dal 5 aprile all’8 giugno 2004), a tracciare il racconto di una storia imprenditoriale e politica vissuta dall’ex senatore di Forza Italia accanto a Silvio Berlusconi. Una vicenda che si è costantemente intrecciata con Cosa nostra, la più potente organizzazione criminale italiana. Per cercare di proteggere Dell’Utri in questi ultimi vent’anni è successo di tutto e la fuga in Libano è soltanto l’ultimo episodio in ordine temporale.
Aspettando che una mancata estradizione non si faccia beffa della giustizia e della verità l’analisi su Dell’Utri va ben oltre all’immagine dell’uomo “cerniera” tra mafia e politica.
Il ruolo recitato dall’ex senatore supera addirittura quello di Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, scavalcato proprio da Dell’Utri durante la trattativa Stato-mafia. Sì perché se la sentenza nelle sue valutazioni si fermerà al 1992 (anche se aspettiamo di leggere le motivazioni ndr) come si possono ignorare gli incontri che Dell’Utri tiene con Vittorio Mangano alla vigilia delle elezioni del 1994? Come non si può tenere conto delle pesantissime indicazioni del collaboratore di giustizia Spatuzza (la cui attendibilità non lascia dubbi) circa i rapporti fra lo stesso Dell’Utri ed i fratelli Graviano, scesi in campo per conto di Riina e Provenzano, alla vigilia del fallito attentato all’Olimpico?
Elementi che parlano della trattativa più importante tra Stato e mafia che si è sviluppata dopo le stragi di Falcone e Borsellino e che avrebbe avuto in Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi, amico di banchieri e potentati massonici, membro dell’Opus dei, uno dei suoi protagonisti.
E questa sentenza sancisce definitivamente la figura del “mafioso” Dell’Utri. Ricordo perfettamente quando il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, durante un’intervista mi disse: “I mafiosi non siamo noi. Noi siamo Cosa Nostra. I veri mafiosi sono quelli con la giacca e la cravatta, i colletti bianchi. Quelli sono i veri mafiosi. Noi siamo generali, soldati, assassini. Abbiamo anche un cuore, e nel mio caso, io mi sono pentito veramente.
Perché si ricordi, dottore Bongiovanni, che Cosa Nostra è come la gramigna, non muore mai. Ma i mafiosi non siamo noi, sono quelli che ci hanno alimentato e permesso di sopravvivere da 200 anni”.
Questa condanna rappresenta un importante passo in avanti per arrivare a nuove verità.
I pm che stanno conducendo le indagini sulla trattativa Stato-mafia, tra questi Antonino Di Matteo, condannato a morte da Riina, potrebbero scoperchiare il “vaso di Pandora” dove non ci sono i Dell’Utri, i mediatori e gli uomini cerniera, ma anche i mandanti esterni delle stragi. Quegli assassini criminali potenti dentro lo Stato, membri delle istituzioni, della politica, dell’economia che hanno voluto la morte del generale dalla Chiesa, di Falcone, di Borsellino, che hanno causato le stragi del 1993. Mandanti dal volto coperto, finora ignoti, ma un po’ meno certi dell’impunità proprio grazie a questa sentenza.
– 10 maggio 2014