QUANDO NAPOLITANO ERA CONTRO L’EURO
Marco Palombi
L’anno è il 1978. Il giorno il 12 dicembre, ed entro pochi mesi si terranno le prime Europee. È il giorno in cui il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, si presenta alla Camera per dire che l’Italia sarebbe entrata subito, dal 1° gennaio, nel Sistema monetario europeo (Sme), un regime di cambi fissi tra le monete comunitarie che è il vero papà dell’euro (anche allora, peraltro, Londra disse no). È una sorpresa perché solo poche settimane prima, il governo aveva respinto le pressioni francesi e tedesche per un’entrata immediata . Non solo: è anche una crisi di maggioranza visto che il governo – nato il giorno del rapimento di Aldo Moro – è sostenuto da Dc, Pci e Psi e i due partiti di sinistra sono contrari a un’ingresso nello Sme come s’è andato delineando. Le motivazioni dei comunisti sono strettamente tecniche e assomigliano molto a quelle di chi oggi si oppone all’euro (che, a differenza dello Sme, non è neanche un sistema flessibile).
IL PCI, subito dopo il discorso di Andreotti, riunisce la sua direzione alla Camera. La relazione introduttiva – si legge nei verbali del partito conservati all’Istituto Gramsci – la tiene l’attuale presidente della Repubblica Giorgio, Napolitano. Per dire il nostro sì allo Sme – spiega il futuro capo dello Stato, all’epoca responsabile economico del Pci – chiedevamo tre condizioni: “Garanzia sui tassi di cambio” (cioè riallineamento periodico del valore delle monete); “garanzie sui prestiti del Fmi” e “misure di trasferimento di risorse a favore delle economie più deboli”. Siccome irrigidire il cambio comporta degli svantaggi per “le economie più deboli”, questo va pagato da chi ci guadagna: un principio dimenticato nel recente dibattito sui “compiti a casa” dei Piigs. Napolitano lo spiega con incredibile, profetica chiarezza: “Inserendoci in quest’area, nella quale il marco e il governo tedesco hanno un peso di fondo, dovremo subire un apprezzamento della lira e un sostegno artificiale alla nostra moneta. Nonostante ci sia concesso un periodo di oscillazione al 6%, saremo costretti a intaccare l’attivo della bilancia dei pagamenti. Lo Sme determinerà una perdita di competitività dei nostri prodotti e un indebolirsi delle esportazioni. C’è un attendibile pericolo di ristagno economico” (tutte cose puntualmente successe).
I DIRIGENTI del Pci, lo dice chiaramente più d’uno, sono convinti che il voltafaccia di Andreotti e della Dc sia dovuto alla scelta di far cadere il governo per spostare l’asse politico a destra, sulla linea indicata da Giorgio La Malfa, segretario repubblicano: “Nelle più nobili motivazioni di La Malfa – insiste Napolitano – vi è alla base un giudizio catastrofico sull’Italia” ed “emerge una concezione strumentale degli impegni internazionali in funzione interna (antisindacale)”. Il cosiddetto “vincolo esterno” usato e teorizzato da molti anche oggi: “Ce lo chiede l’Europa”. Il giorno dopo, la direzione del Pci si riunisce ancora: Enrico Berlinguer spiega che il vertice di maggioranza sullo Sme – tenutosi proprio quella mattina – è andato male, che Andreotti conferma l’entrata immediata nello Sme nonostante siano ormai pubbliche le perplessità della Banca d’Italia (“Scalfari mi ha confermato che Paolo Baffi ha spiegato al governo la sua opposizione tecnica, ma ha concluso che la scelta è politica”), la contrarietà di più di un ministro e di due partiti della maggioranza (per il Psi, nell’aula di Montecitorio, la esprimerà Fabrizio Cicchitto). Non mancano i particolari di colore. Alfredo Reichlin: “Poco fa mi ha telefonato da Berlino Gerardo Chiaromonte (migliorista come Napolitano, ndr) e dice che i giornali della Germania Ovest sono in festa”.
IL PROBLEMA per il Pci, a questo punto, è non essere additato come “nemico” dell’Europa: Ugo La Malfa, per dire, sosteneva che non aderire allo Sme significava abbandonare l’occidente e la Nato. “Campagna terroristica”, la definisce seccamente Napolitano in quella riunione. La pietra tombale sulla questione, di fronte alle preoccupazioni “europeiste” di alcuni come Paolo Bufalini) la mette con la consueta icasticità l’economista Luciano Barca, padre dell’ex ministro Fabrizio: “Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia”. La linea, ovviamente, la detta invece Berlinguer: “Noi dobbiamo entrare nel merito delle questioni monetarie ed economiche, poi fare una polemica di demistificazione della retorica europeista”. Il “terrorismo” di Napolitano, insomma. Sarà proprio lui, com’è noto, a intervenire alla Camera, spiegando il no del Pci con un lucidissimo discorso sugli squilibri regionali che l’irrigidimento del cambio rischia di accentuare (e il dato è sotto gli occhi di tutti, compreso il “rigore a senso unico”): “Si è finito per mettere il ‘carro’ dell’accordo monetario davanti ai ‘buoi’ di un accordo per le economie”, anche per “le sollecitazioni pervenuteci dai governi amici”, scandì Napolitano. Il pericolo che questo costituiva per la sinistra italiana gli era chiaro: se qualcuno volesse “far leva sulle gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio per porre la sinistra e il movimento operaio dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo irresponsabile e velleitario, non meno di quelli che hanno spinto pezzi della Dc a premere per l’ingresso immediato nello Sme in funzione di meschine manovre anticomuniste, destinate a sgonfiarsi rapidamente”. Poi, in realtà, s’è sgonfiato prima il Pci.
14 maggio 2014
Nella foto: Pajetta, Napolitano, Berlinguer