di Pablo Neruda
Nella notte il contadino dorme, ma la mano
sveglia, affonda nelle tenebre e chiede all’aurora:
Alba, sole del mattino, luce del giorno che viene,
dimmi se ancora le mani più pure degli uomini
difendono la rocca dell’onore, dimmi aurora,
se l’acciaio sulla tua fronte rompe la sua forza,
se l’uomo rimane al suo posto, ed il tuono al suo posto,
dimmi, chiede il contadino, se la terra non ode
come cade il sangue degli eroi arrossati, nell’immensa notte terrestre,
dimmi se ancora sopra l’albero sta il cielo,
dimmi se ancora risuonano spari a Stalingrado.
E il marinaio in mezzo a mare tremendo
scruta le umide costellazioni,
e una ne cerca, la rossa stella della città ardente,
e scopre nel suo cuore quella stella che brucia,
e quella stella d’orgoglio le sue mani vogliono toccare,
quella stella di pianto creata dai suoi occhi.
Città, stella rossa, dicono il mare e l’uomo,
città, chiudi i tuoi raggi, chiudi le tue porte dure,
chiudi città il tuo famoso lauro insanguinato,
e che la notte tremi con lo splendere cupo
dei tuoi occhi dietro un pianeta di spade.
E lo spagnolo ricorda Madrid e dice: sorella,
resisti, capitale della gloria, resisti:
dal suolo si alza tutto il sangue sparso
dalla Spagna, e per la Spagna si solleva nuovamente,
e lo spagnolo chiede, già contro il muro
delle fucilazioni, se Stalingrado vive;
e c’è nel carcere una catena di occhi neri
che bucano le pareti col tuo nome
e la Spagna si scuote col tuo sangue e i tuoi morti,
perché le offristi l’anima tua, Stalingrado,
quando partoriva la Spagna eroi come i tuoi.
Conosce la solitudine, la Spagna:
come oggi conosci la tua, Stalingrado.
La Spagna strappò la terra con le unghie
quando Parigi era bella più che mai.
La Spagna dissanguava il suo immenso albero di sangue
quando Londra, come Pedro Garfias ci racconta,
pettinava le sue aiuole, i suoi laghi di cigni.
Oggi di più conosci questo, forte vergine,
oggi, Russia, conosci di più la solitudine ed il freddo.
Mentre migliaia di obici squartano il tuo cuore,
mentre gli scorpioni con crimine e veleno
accorrono, Stalingrado, a mordere le tue viscere,
New York balla, Londra medita, e io dico “merde”
perché il mio cuore non resiste più
e i nostri cuori non resistono più, non resistono,
in un mondo che lascia morire soli i suoi eroi.
Li lasciate soli? Ora verranno per voi.
Li lasciate soli?
Volete che la vita
precipiti alla tomba, e il sorriso degli uomini
sia cancellato dalla latrina e dal calvario?
Perché non rispondete?
Volete più morti sul fronte dell’Est
finché riempiano tutto il vostro cielo?
Ma allora non vi resta che l’nferno
Già si stanca di piccole prodezze
il mondo, dove al Madagascar i generali,
con eroismo, uccidono cinquantacinque scimmie.
Il mondo è stanco di congressi autunnali,
ancora con un ombrello a presidente.
Città, Stalingrado, non possiamo
giungere alle tua mura, siamo lontani.
Siamo i messicani, siamo gli araucani,
siamo i patagoni, siamo i guaranì,
siamo gli uruguaiani, siamo i cileni,
siamo milioni di uomini.
E abbiamo altra gente, per fortuna, nella famiglia,
ma non siamo ancora venuti a difenderti, madre.
Città, città di fuoco, resisti finché un giorno
arriveremo, indiani naufraghi, a toccare le tue muraglie
con un bacio di figli che speravano di tornare.
Stalingrado, non esiste un Secondo Fronte,
però non cadrai anche se il ferro ed il fuoco
ti mordono giorno e notte.
Anche se muori non morirai!
Perché gli uomini ora non hanno morte
e continuano a lottare anche quando sono caduti,
finché la vittoria sarà nelle tue mani,
anche se sono stanche, forate e morte,
perché altre mani rosse, quando le vostre cadono,
semineranno per il mondo le ossa dei tuoi eroi,
perché il tuo seme colmi tutta la terra.
“Poesia politica, 1953”