di Salvatore d’Albergo
aprile 2013
Il processo di transizione dalla democrazia parlamentare ad una delle varianti escogitabili per una forma di governo autoritaria necessaria a delegittimare la democrazia sociale è giunto ad uno stadio così avanzato e pericoloso da evocare l’immagine di un “colpo di stato freddo”
Sfida ai principi costituzionali concernenti la forma di governo parlamentare
Il fenomeno non è riducibile però alla sola portata degli intrighi per i quali è passata la rieleggibilità di quel Giorgio Napolitano, che ostentatamente aveva asserito di essere già per ragioni di età privo delle condizioni necessarie ad un secondo settennato, che in linea di principio era stato escluso anche in ipotesi astratta da tutti i suoi predecessori. Quello che, infatti, è maturato nella repentina trama di chi – nei frangenti di una crisi del Parlamento in seduta comune ha fatto precipitare l’immotivata messa in disparte delle ragioni per cui l’ipotesi della rielezione del presidente della Repubblica è stata generalmente valutata con sfavore e perciò ritenuta improbabile perché non perfettamente aderente al modello di Capo dello Stato fissato nella Costituzione – è il precipitato di una convergenza organizzata freneticamente dai vertici dei tre partiti, che con varia intensità sono stati penalizzati nel voto elettorale, corsi ad implorare Giorgio Napolitano a prestarsi ad una operazione che consacra dall’alto la larga intesa tra Pd, Pdl, Scelta civica.
Si è giunti così al culmine di una sfida ai principi costituzionali concernenti la forma di governo parlamentare, con il totale stravolgimento del loro ruolo da parte di tutti gli organi da essa coinvolti, a cominciare dal presidente della Repubblica. Sfida che viene da lontano, e che negli ultimi tre anni ha palesato accelerazioni susseguentisi in modo sempre più incontrollato, incurante del serpeggiare nel popolo sovrano e nel suo elettorato di un dissenso esploso con l’immissione in Parlamento degli esponenti del M5S; portatore di una protesta che ha subito evidenziato il suo peso già a partire dalla dimostrazione della carenza di rappresentatività del Pd, partito di maggioranza ex lege supertruffa alla sola camera dei deputati, e costretto a palesare le sue contraddizioni interne tra la pretesa di imporre un proprio candidato, sia come Presidente della Repubblica, sia come Presidente del Consiglio, e la necessità di ricercare convergenze rese impraticabili a causa dell’ormai clamoroso vuoto di identità politica e parlamentare manifestatosi senza più dubbi.
Grave sconvolgimento delle consuetudini costituzionali e deriva presidenzialistica
Infatti, al di là dell’urticante espressione di “golpe”, diffusa nell’opinione pubblica sconcertata dalla tracotanza di esponenti politici disposti a piegare qualunque principio costituzionale pur di conquistare e mantenere posizioni di potere, è certo e va denunciato a chiare lettere come in pochi e serrati conversari si sia giocata alle spalle del Parlamento una partita complessa riguardante la rielezione senza precedenti del Presidente della Repubblica. Il quale ha peraltro subito fatto sapere come il suo cedimento alle pressioni abbia avuto come merce di scambio i “termini” – così ha tenuto a definirli – del contesto in cui il primo atto dell’intesa avrebbe di lì a poco preso corpo, facendo seguire la conferma alla carica di Capo dello Stato il primo e più importante modo di far valere le sue attribuzioni, con riguardo cioè alla formazione del governo, al quale proposito lo stallo dei tre partiti accorsi al Quirinale notoriamente era più defatigante che mai.
Hanno così potuto farsi strada notizie ufficiose anodine, sia sull’esito anticipato del voto per la rielezione del presidente della Repubblica, con oltre i due terzi previsti per le sole prime tre votazioni già andate a vuoto, insieme alla quarta e alla quinta, sia addirittura sui criteri da porre alla base della composizione del governo. Il che è apparso preoccupantemente anomalo a fronte del fatto che già da circa due mesi il Presidente della Repubblica era stato investito del compito di avvalersi delle consultazioni con i gruppi parlamentari derivanti dal voto elettorale, procedendo ad affidare il cosiddetto “preincarico” al segretario del Pd; e che, a seguito del primo stallo riguardante la procedura di formazione del governo, il Presidente della Repubblica aveva ritenuto di introdurre la novità extra-istituzionale di istituire due gruppi di lavoro al fine di “facilitare un ampio consenso tra le forze politiche presenti in Parlamento” sia sulle riforme istituzionali, sia in materia economico-sociale ed europea. Pertanto, allo stallo emerso nell’elezione del Presidente della Repubblica destinato a succedere al Presidente Giorgio Napolitano, si è sovrapposto lo stallo già preoccupante di cui il Capo dello Stato si è avvalso per le conseguenti implicazioni costituzionali, con il proposito di consegnare al Presidente della Repubblica che avrebbe dovuto succedergli il materiale di riflessione contenuto nella “relazione finale” del gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali e nella “Agenda possibile” elaborata in materia economico-sociale ed europea.
Si è verificato un grave sconvolgimento delle consuetudini costituzionali. Esse, per quanto limitate dalle prassi consolidatesi in un congruo numero di anni di esperienza in materia di formazione di governo, non hanno visto mai comparirel’anomalia di corpi estranei, oltretutto includenti un Ministro del governo in carica per gli affari correnti ed i membri del Parlamento. La loro immissione ha portato all’estremo limite quel fenomeno di dilatazione dei poteri del capo dello Stato, ben oltre il suo cosiddetto ruolo di “garante”; in termini tali che, specie dal 2010 in poi, non poteva non indurre commentatori a vario titolo del funzionamento del nostro sistema politico-costituzionale ad osservare come abbia preso via via piede un’alterazione in senso “presidenzialista” del ruolo di un organo “monocratico” come il Capo dello Stato, senza che nei comportamenti Giorgio Napolitano abbia mostrato di trattenersi nei limiti che il modello costituzionale gli imponeva contro derive verticistiche variamente catalogabili alla luce delle esperienze costituzionali, non solo in Italia, ma in Europa.
Rovesciamento della democrazia politica
La frettolosità con cui il lancio di una rielezione inedita, e persino esclusa recisamente, per poi essere clamorosamente smentita – tanto che il Capo dello Stato si è formalmente dimesso solo dopo il voto di conferma nella carica, proprio perché consapevole sino a poche ore prima di essere destinato alla naturale “cessazione” dalla carica – è poi culminata nel discorso che ha seguito la lettura della formula di giuramento.
Napolitano in trenta minuti ha condensato tutti gli elementi convergenti a giustificare la denuncia che le forze democratiche e il mondo della cultura politica e costituzionale hanno il dovere di diffondere – tanto più alla luce del discorso con cui il presidente ha attaccato frontalmente i partiti delle camere riunite dinanzi a lui, per scaricare soprattutto sul Pd la responsabilità di non aver voluto accogliere gli insistiti richiami, peraltro tutti “extra ordinem”, a quelle riforme istituzionali che la destra sociale e politica rivendica sin dagli anni ‘60, trovando ora nel “comunista diverso”, come viene raffigurato Giorgio Napolitano, una carta di riserva necessaria a vincere le residue esitazioni degli ex PCI ed ex DC a compiere finalmente – nelle attuali circostanze “eccezionali” – quel passaggio di campo teorico e politico che comporta il travisamento dei principi economico-sociali della Costituzione, conseguibile più rapidamente attraverso il rovesciamento della democrazia politica.
Nella virulenza del suo temerario approccio, il Capo dello Stato ha snaturato la sua funzione di rappresentante dell’unità nazionale, tacciando di “chiacchiere” gli accenni alle varie formule con cui è stato qualificato “il tipo” di accordi di governo da lui patrocinato, e mistificando come polemiche “intellettuali” le riserve sui cosiddetti “saggi”, da lui illegittimamente nominati con l’obiettivo di ottenere che, nel segno dell’Europa del potere monetario e delle concentrazioni capitalistiche, anche l’Italia si subordini agli interessi del capitalismo internazionale, parlando demagogicamente di una coesione che fatalmente sancisce la subalternità delle forze del lavoro e dei principi di solidarietà come fondamento democratico-sociale della disciplina del sistema produttivo. Ciò perché, proprio a partire dagli inizi degli anni ’80 – all’epoca della Commissione Bozzi, la prima delle Commissioni create e invocate per operare anche in Italia quel rovesciamento istituzionale operato in Francia sin dal 1958 sotto gli impulsi del Generale De Gaulle, patrocinatore di quella che è stata definita “monarchia repubblicana” – la cosiddetta “anomalia” del caso italiano è stata risucchiata nell’orbita dei ritmi convulsivi della crisi del capitalismo; sicché il conseguente risvolto istituzionale del dominio della formazione sociale in lotta a livello globale contro il movimento operaio e gli altri movimenti sociali, si è ripresentata, al pari della fase che ha preceduto i fascismi, come lo strumentario tradizionalmente usato dalle forze conservatrici per soggiogare con l’autoritarismo l’intera società.
Progressione eversiva
Nell’operazione di cui ormai appare l’alfiere principale, venendo in soccorso della destra nell’esasperata pretesa di coinvolgere un Pd giunto ora allo sbando, Giorgio Napolitano ha dovuto rompere gli indugi che si sono frapposti dopo la crisi pilotata dall’alto già con la nomina del governo Monti, quando, a partire dalla qualifica di “tecnico”, si sono via via disseminati, in una sequenza di formule sostanzialmente univoche, i richiami volta a volta al governo “del presidente”, “istituzionale”, “di scopo”, nella illusoria ricerca di camuffamento delle cosiddette “larghe intese”. Formula, quest’ultima, che nella sua arringa Giorgio Napolitano ha enfatizzato, ovviamente ricorrendo sempre all’Europa come centro di omologazione della politica degli stati/nazione e della comunità sovranazionale, addirittura esaltando l’idoneità del bipolarismo, tipico della storia politica britannica, a configurarsi come meccanismo volto ad assorbire un’opposizione resa disponibile ad accantonare la cosiddetta “alternanza” in nome del “pensiero unico” quale cemento ideologico del primato dell’impresa sulla democrazia, e del Governo sul Parlamento, luogo di travisamento questo della rappresentanza dei partiti.
La progressione eversiva– per la cui riuscita il rieletto Capo dello Stato ha farisaicamente cercato di ammantarsi di una sua presunta fedeltà alla Costituzione, peraltro smentita dall’intento di apportarvi modifiche sia pure (come si suol dire) “limitate” – è attestata dal percorso che dal 2011 ad oggi ha visto il governo Monti operare con l’esclusione di esponenti ufficiali dei due partiti – il Pd e il PdL – ma che peraltro per un anno lo hanno sostenuto a partire dalla fiducia di investitura. Sicché, dopo le elezioni, la situazione sfugge ad ogni possibile definizione che non sia di comodo, dato che il Governo restato in carica è formalmente decaduto per effetto delle nuove elezioni, e tuttavia se ne finge la agibilità addirittura con decreto-legge. Mentre, proprio perché in base alla Costituzione si attende il Governo dotato dei poteri legittimi, si contesta il tentativo di dare comunque avvio alla vita parlamentare nelle more della fine dello “stallo” che lo stesso Giorgio Napolitano ha stigmatizzato, per usarlo tuttavia nel modo più abnorme: apprestandosi, come confermato nel discorso d’insediamento, ad utilizzare documenti fatti predisporre per un passaggio istituzionale in cui i partiti e il Parlamento sono chiamati a fare da comparse, con una eversione ammantata di irrisione, enfatizzando le norme costituzionali che si punta accanitamente a revisionare.
Sistema elettorale maggioritario e ritorno alla prima fase del capitalismo ottocentesco
Le ultime rituali consacrazioni di decisioni imposte per la formazione del governo ritenuto dal Capo dello Stato – come da Berlusconi – “senza alternative”, dimostrano come il “bipolarismo” derivante dalla sostituzione della proporzionalepura con uno dei metodi maggioritari sia il marchingegno che assicura il consolidarsi del pensiero “unico” su cui si basa la continuità del conservatorismo sociale, ai danni di una democrazia destinata a rimanere incompiuta in una scena politica tornata ai nefasti della prima fase del capitalismo ottocentesco, quando doveva ancora nascere il partito socialista, seguito poi dal partito popolare e dal partito comunista: al cui incontro si deve – dopo la caduta del fascismo – la nuova Costituzione democratico-sociale, oggi messa a repentaglio dall’infausta convergenza di Pd, PdL e centristi sotto l’egida di un Capo dello Stato divenuto emblema di un’eversione incontenibile sino a quando non si ricostituirà il partito della rivoluzione democratica.