Foto: Salvo Lima
di Giuseppe Pipitone
Nella seconda puntata della nostra inchiesta, l’origine delle stragi siciliane programmate nelle riunioni di Enna tra l’ottobre ’91 e il febbraio ’92 nelle quali i boss stabilirono per la prima volta l’uso della sigla misteriosa (2-continua)
Sull’isola il 1991 è un anno di summit e decisioni importanti. Tra il settembre e il dicembre del 1991 il capo dei capi Totò Riina riunisce i principali boss di Cosa Nostra in un casolare nelle campagne intorno ad Enna: le coperture politiche della piovra sembrano scricchiolare e la sentenza della Cassazione sul Maxiprocesso è alle porte. Cosa Nostra deve decidere come comportarsi, deve decidere come muoversi nel caso in cui il ”fine pena mai” per i principali padrini diventasse definitivo. Solo che a Enna non ci sono probabilmente soltanto boss mafiosi.
All’hotel Sicilia, c’è una prenotazione, datata 6 dicembre 1991 e intestata a Paolo Bellini, alias Roberto Da Silva, l’ex militante d’Avanguardia Nazionale, prima fuggito in Brasile negli anni ’80, poi ricomparso in Italia a cavallo delle stragi, oggi collaboratore di giustizia. Bellini è l’uomo che qualche mese dopo aggancerà il mafioso Nino Gioè, conosciuto in carcere, per intavolare una sorta di Trattativa parallela: Cosa Nostra avrebbe fatto ritrovare alcune opere d’arte rubate, e in cambio i boss avrebbero ottenuto l’alleggerimento del carcere duro, mentre l’intero stivale era sconquassato dal tritolo. L’avvio di quell’attacco allo Stato di Cosa Nostra viene pianificato alla fine del 1991 proprio a Enna.
Nelle stesse settimane in cui i boss decidono la genesi della strategia stragista, nella città al centro della Sicilia c’è anche Bellini, che ha preso una camera all’hotel Sicilia: per fare cosa? Oggi l’ex Primula Nera, deponendo come testimone al processo sulla Trattativa, giura di essersi trovato a Enna per un credito da riscuotere a Catania. Una giustificazione che non convince i pm: perché da Catania Bellini deve pernottare a Enna, a 90 chilometri di distanza? È un fatto, però, che quelle riunioni ennesi rappresentano il prequel dell’arrivo della Falange in Sicilia. È durante quei summit che Riina inizia a stilare la lista nera dei politici e magistrati da assassinare. Ed è sempre a Enna che alle orecchie dei boss, viene sussurrata per la prima volta quella sigla: Falange Armata. “Per quanto riguarda gli obiettivi da colpire si trattava di azioni di tipo terroristico anche tradizionalmente estranee al modo di operare e alle finalità di Cosa Nostra. Queste azioni secondo una prassi che erano già in atto da tempo dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata”, racconta il collaboratore di giustizia Maurizio Avola. “Si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla Falange Armata”, conferma l’altro pentito Filippo Malvagna.
Chi è che lo ordina ai boss ? Secondo Avola, l’ordine arriva direttamente da Riina. Ma il capo dei capi da chi riceve l’input per l’utilizzo di quella sigla finora comparsa soltanto sulle pagine dei giornali e collegata a fatti lontani da Cosa Nostra? Un nodo ancora oggi rimasto insoluto, ma che per gli inquirenti appare estremamente importante per capire cosa succede dopo. Perché il 12 marzo del ’92, dopo che Salvo Lima viene assassinato a Mondello, all’Ansa di Bari arriva la telefonata che segna l’incrocio della Falange con i tentacoli di Cosa Nostra: “Tenendo fede all’annuncio fatto, il comitato politico della Falange Armata, in piena autorità e perfetta convergenza, si assume la paternità politica e la responsabilità morale dell’azione condotta in Sicilia contro l’europarlamentare Salvo Lima”, dice una voce al centralinista dell’agenzia di stampa: questa volta l’accento tedesco forzato è svanito, per lasciare spazio ad una netta inflessione siciliana.
È soltanto l’inizio. Meno di un mese dopo, quella stessa voce ricontatta la redazione pugliese dell’Ansa: sono le 11 e 25 del 5 aprile 1992, le urne sono aperte per le elezioni politiche, e questa volta l’oggetto della rivendicazione non è lo spettacolare agguato contro un politico di primo piano della corrente andreottiana. Questa volta, la voce che dice di parlare a nome della Falange rivendica l’omicidio di un maresciallo dei carabinieri, Giuliano Guazzelli, abbattuto a colpi di mitra sulla strada statale tra Agrigento e Porto Empedocle. Si dirà subito che è un omicidio della Stidda, l’altra mafia siciliana, un assassinio maturato nella faida interna alle cosche agrigentine. Secondo i pm di Palermo che indagano sulla trattativa, l’omicidio di Guazzelli è un segnale di Cosa Nostra contro Calogero Mannino, l’ex potentissimo ministro della Dc, oggi imputato nel processo sul dialogo Statp-mafia: dopo Lima, c’è il politico originario di Sciacca nella black list di Riina. Solo che all’epoca nessuno ricollega quei due fatti di sangue. Anzi quasi nessuno: all’interno del Ros, il Reparto Operativo Speciale dei carabinieri dove prestava servizio Guazzelli, gli investigatori antimafia considerano l’omicidio nell’agrigentino come un segnale diretto a Mannino, e quindi il secondo atto della violenza nella strategia di attacco allo Stato. Lo stesso Mannino dopo quell’assassinio è atterrito, spaventato, tenta di tornare il meno possibile in Sicilia e con il collega Nicola Mancino arriva a lasciarsi sfuggire: “Adesso tocca a me”. Mannino lo sa che l’omicidio Guazzelli è un segnale diretto contro di lui, e lo sanno anche gli ex colleghi del carabiniere, i militari del Ros. Inspiegabilmente, però, lo sa anche Falange che infatti ricollega l’omicidio di Guazzelli con l’agguato che costa la vita a Lima; e per lanciare un messaggio a chi di dovere rivendica i due omicidi alla stessa redazione dell’Ansa, usando le stesse identiche parole: “Tenendo fede all’annuncio fatto, il comitato politico della Falange Armata, in piena autorità e perfetta convergenza, si assume la paternità politica e la responsabilità morale dell’azione condotta in Sicilia contro il carabiniere Giuliano Guazzelli”. Da lì in poi i falangisti metteranno la firma su ogni singolo atto della guerra di Cosa Nostra allo Stato: la strage di Capaci, quella di via d’Amelio, le bombe a Roma, Firenze e Milano. Sarà Gaspare Spatuzza ad imbucare le lettere con cui la Falange rivendica le stragi del luglio 1993: a fornirgli quelle missive, racconta oggi il pentito di Brancaccio, era stato Fifetto Cannella, il boss condannato per la strage di via d’Amelio, che nel 2004 sarà anche lui inserito nella lista di otto detenuti (tra cui appunto il calabrese Pelle) che il Sisde di Mori voleva mettere a libro-paga. Il dato inquietante, e per certi versi inspiegabile, è che ad un certo punto la Falange inizia a mettere la firma non solo su esecuzioni e stragi compiuti da altri, ma addirittura su fatti di natura politica, come se fosse un interlocutore del governo, un soggetto politico seduto al tavolo della segretissima Trattativa che si sta consumando tra esponenti delle Istituzioni e Cosa Nostra.
Il 7 aprile del 1992, viene minacciato di morte Niccolò Amato, direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria, molto inviso ai detenuti per il suo pugno di ferro dentro le carceri; il 26 giugno le minacce di morte toccano al ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, autore, insieme al guardasigilli Claudio Martelli, del decreto che introduce il 41 bis; il 9 settembre arriva uno strano messaggio di “raccomandazione” per Nicola Mancino, che nel frattempo ha preso il posto di Scotti al Viminale; l’1 aprile 1993 è la volta delle minacce al capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e al presidente della Camera Giovanni Spadolini; poi il 14 giugno del 1993 arriva un inedito messaggio di compiacimento per la nomina di Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio ai vertiti del Dap al posto di Amato: avvicendamento che gli anonimi rivendicano come “una vittoria politica della Falange”; il 21 settembre del 93, poco prima che vengano lasciati scadere più di trecento provvedimenti di 41 bis per detenuti mafiosi ecco l’invito rivolto a Scalfaro, perché “faccia sapere pubblicamente come la pensa sulla questione dei detenuti”. Episodi che sembrano slegati tra loro, ma che oggi per la procura di Palermo sono tutti pezzi dello stesso puzzle: quello dei colloqui tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato, che avevano come oggetto l’alleggerimento della condizione carceraria per i detenuti, più altri privilegi per i boss, in cambio della fine delle stragi. Chi è che comunica ai telefonisti gli episodi da rivendicare, i messaggi di compiacimento da inviare, i destinatari delle istituzioni sui quali fare pressione? Chi è che spiega agli uomini della Falange che Capriotti e Di Maggio terranno un atteggiamento più morbido di Amato nella gestione dei detenuti? Chi c’è a questo punto dietro la Falange?
Seconda puntata – Continua
2 novembre 2014
“Falange Armata: dal delitto Mormile alla Uno Bianca” – Prima puntata