di Giuseppe Casarrubea
L’altro ieri sera, ascoltando la tv, mi pareva di essere di fronte a una cattedra universitaria. Si spiegava una lezione incomprensibile per i comuni mortali, il cui linguaggio non aveva nulla di scolastico, ma sapeva di un mondo presentatosi in un momento davanti a noi, come una sorpresa, una scoperta, in un film di fantascienza. Una lezione non molto innovativa, però, perché, a ripensarci un attimo, già dagli anni Quaranta del secolo passato, dopo la sua legittimazione al potere da parte degli Usa (1943) la mafia partì all’assalto dell’intera penisola, non escludendo nessun territorio, ma puntando dritta al cuore dello Stato.
La conquista di Cosa Nostra dell’Italia è una storia vecchia di cui abbiamo sentito parlare già da quando Michele Navarra fu inviato al soggiorno obbligato ritornando subito dopo a Corleone più tronfio di prima; Gerlando Alberti, alias “U paccaré”, l’imperturbabile, trafficante di droga, gironzolava in Lombardia, libero di incontrarsi con chi gli pareva; i boss conquistavano la regione Toscana, Frank Coppola, alias Frank Tre Dita (le altre due le aveva perse dopo una sparatoria) era diventato re di Pomezia con i suoi traffici di cocaina e i fratelli Rimi di Alcamo avevano conquistato la regione Lazio, corrodendo i pubblici poteri nella Capitale.
Che il procuratore Giuseppe Pignatone ci dica ora che Roma è dominata da una vera cupola mafiosa, è come se gridasse di avere scoperto l’acqua calda, che gli uccelli volano e che i pesci nuotano nel mare. O che i rettili strisciano. Ogni essere vivente fa le cose che il potere gli ha consentito di fare. Ragione per cui oggi siamo a un punto in cui dobbiamo solo grattare il fondo. In piena crisi, con le famiglie degli italiani che non ce la fanno più, mentre diverse gang politico-affaristiche criminali, si mangiano l’Italia intera, sottraendo valori, denaro e democrazia a noi che ci definiamo “popolo”.
Fu soprattutto Paolo Borsellino ad avvertirci che la mafia ha due caratteri salienti: si espande a macchia d’olio e ha una forte capacità di penetrare nella pubblica amministrazione, corrompendola. Dunque, nulla di nuovo da questo punto di vista. Presentare come scoperta una verità che puzza da troppo tempo, mi pare veramente cosa per allocchi. Già Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, l’aveva detto al giudice Gracco D’Agostino, a Viterbo: “Siamo una cosa sola come il padre, il figlio e lo spirito santo”. L’unità dei tre mondi di cui parla Massimo Carminati, capo della cricca mafiosa della Capitale, nelle intercettazioni che hanno scatenato il putiferio.
E’ nuova, invece, è la concezione attuale di quell’intreccio storico. Un cambiamento di visione del mondo da parte delle mafie, che non solo hanno assunto il denaro come valore assoluto, e si sono saldate organicamente al potere divenendone parte integrante, ma hanno elaborato una nuova dottrina, quasi filosofica. La teoria dei comportamenti di quella vasta rete di interessi che lega fra di loro i criminali egemonizzati dalla mafia e un certo potere politico, fatto di appalti, tangenti e corruzione.
L’inchiesta Mondo di Mezzo ci spiega che a Roma c’è la mafia che domina su uffici, sistema i propri uomini nei posti chiave, lucra sui poveri, controlla le gare d’appalto, costruisce una pax criminale, in cui tutti sono amici degli amici per scambiarsi favori e lucrare a più non posso. Come ci spiegano i Ros e la procura distrettuale antimafia di Roma. Una vera e propria cupola che ha al suo vertice Carminati e alla periferia un reticolo di politici e affaristi organizzati secondo le leggi della mafia. Carminati non è l’ultimo arrivato. Ha alle spalle parecchi reati, è stato legato alla banda della Magliana e al gruppo terroristico di estrema destra dei Nar. Un’organizzazione responsabile di diverse decine di omicidi e degli 85 morti della strage di Bologna per la quale, con sentenza definitiva furono condannati Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Quanto ha contribuito l’eversione nera nel determinare una corruzione sistemica dei pubblici poteri? Come il mondo della solidarietà e della cooperazione di destra e di sinistra, rappresentato da Salvatore Buzzi, regista degli affari illeciti alle dipendenze di Carminati, può avere deviato dal suo normale corso per diventare una realtà in disfacimento? Lo smarrimento dell’interesse pubblico e la sua deviazione verso quello privatistico ha certamente un percorso lungo. Non è di ieri e non è presente solo nella Capitale. Che si sia diffuso nell’Urbe è un segno della degenerazione nazionale, della capillare riduzione della politica ad affare. Processo che cominciò ai tempi dello scandalo della Banca romana e dell’assassinio di Emanuele Notarbartolo, presidente del Banco di Sicilia, alla fine dell’Ottocento e che si è strutturato con la nascita della Repubblica fino agli scandali dell’ultimo ventennio.
Ed è proprio nel periodo degli anni ’70 e ’80, denunciato da Paolo Borsellino, che la mafia è riuscita a penetrare nelle pubbliche amministrazioni, bloccando ogni processo democratico, attraverso il controllo delle municipalizzate, e di ogni tipo di società partecipata. Un fenomeno politicamente trasversale che ha svuotato di senso la politica e procurato un distacco profondo dalla società. Risultato che non si sarebbe ottenuto se la questione morale posta allora da Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Pci, avesse avuto un seguito, ponendo un ostacolo all’avanzata del degrado dei costumi e dei valori contemplati dalla Costituzione e dal buon senso.
Così siamo arrivati ai tre “mondi” di cui parla Carminati nelle sue intercettazioni. Sono una riduzione schematica dell’organizzazione umana sulla faccia della Terra. Siamo ben oltre la divisione di cui parlava Leonardo Sciascia ne “Il giorno della civetta” (1961): uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaraquaqua. Quella era una realtà gerarchica in cui spettava agli uomini prendere le decisioni. Ed essere “uomini”, pur nell’accezione negativa del termine, significava, dal punto di vista della mafia, avere dei valori, un certo senso dell’onore, coraggio, legami di tutela sociale, quali erano quelli espressi dai padrini e dalle forme del comparaggio, portare rispetto, e via di seguito. Qui ci troviamo di fronte a una società eliminata come tale con un colpo di spugna. Tutti gli uomini valgono zero, è come se non ci fossero. Nello schema, secondo la legge della giungla, c’è posto soltanto per chi può politicamente decidere ( “i vivi sopra”). Come sucesse anche a Luca Odevaine, vicecapo gabinetto di Walter Veltroni (2001-2008), ed ex capo della polizia provinciale indagato per corruzione aggravata ed altri reati.
Dice Carminati al suo braccio destro militare Riccardo Brugia: “E’ la teoria del mondo di mezzo, ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C’è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico”. Quindi un luogo in cui la politica incontra i “vivi” (chi comanda) e i “morti”, i criminali, non a caso definiti “morti”, perché a loro è negata una vita normale, non hanno nulla da perdere, e la stessa vita vale zero. Si può ammazzare un uomo per cento euro o per spacciare droga nell’inferno dell’emarginazione. Gli uomini, in quanto non sono persone, non esistono. Con tutto quello che ne consegue in termini di potere violento, di condizionamento, di corruzione ed altri compiti di morte.
Nel mondo di mezzo invece avviene la redenzione, e il mondo che soggiace al potere di controllo, acquista una sua dignità, si redime e si eleva al grado dei “vivi”. Qui, come spiega il procuratore Pignatone, legale e illegale si fondono. E tutti ne traggono un beneficio. Esiste, dunque, la dimensione della vita ridotta semplicemente al godimento del denaro e alla sua accumulazione selvaggia. Una realtà esposta alla corruzione, e al ricatto. Ed esiste una vera trattativa tra alcuni uomini dello Stato e i mediatori con il mondo soggiacente dei “morti”, un’oltretomba simbolica che ha il connotato dell’assenza di vita. Cosa che capitava alla mafia di vecchio tipo, rappresentata dalla goffaggine e pericolosità analfabeta di Totò Riina, ma che ora ci appare superata da una diversa strutturazione sociale. Con la scomparsa o la crisi delle vecchie teorie sciasciane (ridotte ai simboli delle “coppole e delle lupare”) e la nascita di una nuova condizione in cui la società, con i suoi diritti e i suoi bisogni, diventa evanescente per esistere solo come potenziale merce di lucro e di scambio. A fronte di questa condizione Pignatone ha in parte ragione, in quanto il mondo della mafia, con le sue ataviche caratteristiche continua ad esistere. Ma ha torto quando non mette in evidenza la mutata natura delle sue componenti arcaiche e le conseguenze implicite: il distacco tra società e politica, lo svilimento delle istituzioni e la loro torsione cronica verso scopi illegali, il non senso costituzionale della vita politica e, persino, l’abolizione delle classi sociali. Siamo nel regno della follia e la visione del mondo che ci dà Carminati è solo la nostra autodistruzione.
8 dicembre 2014