di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti*
Leggendo tutte insieme le notizie della cronaca giudiziaria dell’ultimo periodo sembra di rivivere gli anni della strategia della tensione.
L’inchiesta ‘Mondo di Mezzo’ che ha svelato la Mafia Capitale e la figura del capo nero Massimo Carminati, la lettera di minacce a Totò Riina del febbraio scorso firmata da una sigla – Falange Armata – scomparsa da vent’anni dalle cronache. E poi i nomi dei fermati, quasi tutti vicini a gruppi dell’estrema destra, per l’omicidio dell’ex cassiere di Gennaro Mokbel, Silvio Fanella, e ancora gli arresti di queste ore ordinati dalla procura de L’Aquila ed eseguiti dal Ros dei Carabinieri su un gruppo di estremisti neri che stava ricostruendo niente di meno che Ordine Nuovo e progettando rapine e altre attività di autofinanziamento per mettere in atto una serie di azioni contro le istituzioni. Sigle, gruppi e nomi che ritornano a distanza di anni.
Ci sono tutti: dalla vecchia banda della Magliana ai terroristi neri, dalla Falange armata in odor di apparati deviati ai mafiosi tradizionali di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. Ci sono perfino i giovani camerati facilmente suggestionabili con le fiabe di presunto “spontaneismo” – armato e non che sia -. Tutti pronti ad agire favoriti da un contesto caratterizzato dalla peggiore crisi economica dal secondo dopoguerra a oggi, da un alto livello di disaffezione nei confronti della politica, da un quadro di corruzione forse peggiore di quello svelato dall’inchiesta Mani Pulite.
Novembre 2014. Sala colloqui del carcere, interno giorno. Un uomo e una donna ai due lati di un tavolo. Lui è stato arrestato in Francia per aver trasportato in barca più o meno un quintale e mezzo di cocaina e poi estradato nel carcere ligure, ha un passato di ex terrorista dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari n.d.r.) e qualche anno di carcere sul groppone, all’anagrafe Emanuele Macchi di Cellere. Ora è indagato per l’omicidio di un colletto bianco, quel Silvio Fanella che custodiva il tesoro di Mokbel, ma ancora non lo sa. Lei è sua moglie, Marinella Rita.
I due si confrontano sulle cause dell’arresto, l’uomo si lagna della qualità dei suoi avvocati. Poi iniziano a parlare dell’omicidio, o meglio, di alcuni arresti dei presunti complici. La tensione è alta, l’uomo non sa di essere già nel mirino degli inquirenti, ma sente che il rischio di essere chiamato in causa è alto. Si lamenta anche delle condizioni di detenzione e del suo stato di salute. La donna si piega verso di lui, quasi a voler ridurre la distanza imposta dal tavolo e dice chiaramente: “Allora io ieri ho chiamato Francesca Mambro, non mi ha risposto, gli ho mandato un messaggio…”. Lui sembra stupito e chiede: “Hai chiamato chi?”. E lei ripete il nome: “Mambro”.
Francesca Mambro, moglie di Valerio “Giusva” Fioravanti, condannata a 13 ergastoli per la strage della stazione di Bologna e un numero impressionante di omicidi, ben 93. Oggi in libertà per “estinzione della pena” dopo 13 anni di carcere e un periodo di arresti domiciliari e di semilibertà. Francesca e “Giusva”, la coppia carismatica dei Nar. Cosa voleva la moglie di Macchi di Cellere dalla collaboratrice dell’associazione ‘Nessuno Tocchi Caino’? Una consulenza legale per aiutare il marito non in buone condizioni di salute? O ricordarle la comune militanza del marito? Uscita dal colloquio, dichiara la donna, andrà subito a cercare la ex primula rossa dei NAR direttamentein ufficio e chiede indicazione al marito di dove si trovi esattamente: “Sta a Largo Argentina, accanto a Feltrinelli…”.
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La moglie di Macchi di Cellere, la cui sim è in contatto con Maurizio Boccacci, annotano gli inquirenti. Boccacci, definito “un personaggio di interesse investigativo”. Boccacci, compagno di classe di “Giusva”. Uno che “se c’era da fare a botte non fuggiva”, ha ricordato Fioravanti. Un soldato fascista senza compromessi, già fondatore di Movimento Politico, con la svastica nel cuore e i naziskin da supportare, e poi leader del gruppo neonazista Militia.
Nel corso della conversazione emerge la consapevolezza da parte di Macchi che le indagini sull’omicidio Fanella si stiano avvicinando anche a lui. Si sente scaricato dai propri riferimenti, teme anzi che lo stiano in qualche modo “vendendo”. La moglie riporta un’altra conversazione avuta con un vecchio camerata, Raimondo Bertoncelli, dalla quale avrebbe capito che a scaricarlo sarebbero stati sia Massimo Carminati (non pronuncia il nome, ma si copre un occhio per far capire a chi si riferisce) che i “mokbeliani”, gli uomini di Gennaro.
Scaricarlo perché? Perché si è fatto prendere trafficando cocaina in Francia? Oppure perché il rapimento di Fanella, finalizzato a recuperare “il tesoro”, quei 50 milioni mai trovati, è finito uno schifo con tanto di morto a terra e di uomo del gruppo di fuoco, Giovan Battista Ceniti, ferito e immediatamente arrestato? Il commando si muoveva per ordine di altri oppure è stata l’iniziativa di un gruppo di vecchi camerati che erano stati esclusi dal tavolo del banchetto degli affari grossi, quelli che avevano gestito negli anni (in concorrenza o assieme) Mokbel e Carminati?
Insieme a Macchi di Cellere, tra gli arrestati per l’omicidio Fanella, ci sono il giovane Ceniti di Verbania, espulso da Casa Pound due anni fa e abbandonato dai suoi complici a pochi minuti dall’omicidio, due complici legati più alla criminalità comune che alla vecchia comunità eversiva che avrebbero procurato l’auto utilizzata per l’azione, un “ristoratore” ancora non identificato , Giuseppe Larosa pregiudicato piemontese anche lui vicino a ambienti dell’estrema destra, e altri due vecchi esponenti neri, Egidio Giuliani e Manlio Denaro. Poi dietro le quinte sfilano altre figure, quelle di Carminati e Mokbel.
Manlio Denaro già coinvolto nella colossale truffa Fastweb Telecom Sparkle, quella che ha permesso di accumulare il tesoro da recuperare, è considerato l’ideatore e mandante.
Denaro che gravitava in gioventù in Ordine Nuovo e che lo stesso Carminati definisce “pericoloso”. Eppure quando lo chiedi a Mario Zurlo, legato ad alcuni dei personaggi dell’inchiesta con i quali condivide la passata militanza nell’estrema destra e titolare di un ristorante a Ponte Milvio, in quella Roma Nord cuore del regno di Massimo Carminati, ti risponde: “Conosco Manlio da sempre. Lui pericoloso? Forse per se stesso”.
Denaro che il 29 novembre avrebbe chiamato Ignazio Abrignani, deputato di Forza Italia, avvocato civilista, vice-presidente della commissione Attività produttive della Camera, per ottenere il trasferimento di un detenuto malato. Quel Gabriele ‘Lele’ Macchi Di Cellere, camerata dell’eversione nera. E Abrignani risponde: «Provo a vedere la Polverini (ex presidente della Regione Lazio, oggi deputata di Fi, n.d.r.)… perché lei conosce il direttore di Rebibbia… capito? Vediamo se intanto riusciamo a spostarlo in infermeria prima di andarlo a trovare… ». Del resto per Denaro «è una questione umanitaria».
Denaro che era amico e uomo di fiducia di un pezzo da novanta della banda della Magliana, Antonio D’Inzillo.
“Non continuiamo a prenderci in giro come abbiamo fatto per troppo tempo: la banda della Magliana non è mai finita”. A parlare è un uomo delle Forze dell’Ordine, uno di quelli della vecchia scuola che ha passato decenni a contrastare il crimine organizzato nella Capitale. “Nello stesso modo non si è certo chiusa, se non sul piano politico, l’esperienza dei Nar tanto per intenderci, che assieme alla Banda hanno insanguinato l’Italia negli anni Settanta e Ottanta. Nomi, ambienti, rapporti e soldi sono gli stessi. A Roma il peso della vecchia Banda e la sua parte di origine eversiva nello scenario criminale si è trasformata in una nuova mafia autoctona. Il numero di ex terroristi e eversori di estrema destra e della Banda, a partire da Massimo Carminati che con la sua doppia militanza già storicamente documentava il connubio fra le due organizzazioni, è impressionante”.
Impressionante, già. I Nomi dell’eversione nera, le reti da contattare e uno scenario di continuità con gli anni più bui della Repubblica che si riapre. Di colpo.
Come sembra emergere, ancora una volta di più, con l’operazione di oggi della procura de L’Aquila nei confronti di un’organizzazione di dimensioni preoccupanti che voleva mettere a segno attentati nei prossimi in tutta Italia. L’organizzazione “Avanguardia ordinovista” che il Ros indicano guidata da Stefano Manni, 48 anni, originario di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano, e con un passato di carabiniere. Parente di Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. “Avanguardia ordinovista” collaborava, secondo gli inquirenti, anche con altri gruppi dell’estrema destra: i “Nazionalisti Friulani”, il “Movimento Uomo Nuovo” e la “Confederatio”. E dalle dichiarazioni dal procuratore de L’Aquila Fausto Cardella sembrano emergere possibili collegamenti con ambienti della criminalità mafiosa quando afferma che «la procura nazionale antimafia ha gli strumenti, tutte le potenzialità per creare un coordinamento più stretto tra le procure, serve una norma, un legge che gli dia facoltà a farla». Come dire, crimimnalità e eversione nera sono – o meglio continuano ad essere – due facce della stessa medaglia.
(fine della prima parte)
22 dicembre 2014
* autori di Grande Raccordo Criminale, Imprimatur editore 2014