di Saverio Lodato
Dimettersi, facendo credere che il ciclo virtuoso del Paese sia ormai a buon punto.
Dimettersi, facendo credere che la metastasi italiana sia l’antipolitica, e non la Politica certificata che occupa le Istituzioni.
Dimettersi, facendo credere che l'”essere italiani”, per sessanta milioni di cittadini, faccia premio e gratifichi sull’essere sudditi vessati fiscalmente e espropriati da troppo tempo del diritto di votarsi la propria rappresentanza.
Dimettersi, facendo credere che rare, e lodevolissime eccellenze – la scienziata nucleare, l’astronauta, il medico di “Emergency” contagiato da Ebola, i soccorritori a mare, la donna ufficiale medico che aiuta a partorire la profuga nigeriana -, possano costituire il paravento umano di un paese che invece non funziona.
Dimettersi, facendo credere che esistono un “mondo di sopra” e un “mondo di sotto”, andando linguisticamente a prestito dai “sociologi criminali”, alla Carminati.
Dimettersi, facendo credere che il “mondo di sotto” sia bonificabile a colpi di ordini di cattura, e che il “mondo di sopra”, per emanazione, ne risulterà purificato, senza che lo stesso “mondo di sopra” decida finalmente di andare, una volta e per sempre, a Canossa.
Dimettersi, facendo credere che l’Italia, sul proscenio internazionale in tumultuosa ebollizione, stia giocando la sua partita alla pari degli altri partners.
Dimettersi, facendo credere che ci si possa appropriare propagandisticamente delle parole di Papa Francesco, al fine di utilizzarle nel teatrino italiano.
Aspettavamo con curiosità l’ultimo discorso del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per l’ultimo dell’anno. Sapevamo che si sarebbe trattato di impresa ardua, per la quantità e la complessità dei problemi che ci accingiamo a traghettare nel 2015; niente, infatti, ci siamo definitivamente lasciati alle spalle.
Non pretendevamo di assistere al turbinio della bacchetta magica, rivelazioni sensazionalistiche sul futuro immediato, autocritiche impietose sulle riforme istituzionali tutte ancora di là da venire, legge elettorale in primis, meno che mai, Dio ce ne scampi, il riconoscimento di aver commesso qualche errore da parte di chi – non dimentichiamolo – è stato seduto sulla Poltrona Massima per nove anni di fila.
Giorgio Napolitano, ce lo si lasci dire, non appartiene alla scuola di Pepe Mujica, il presidente dell’Uruguay, che devolve in beneficenza il novanta per cento del suo appannaggio, ha rifiutato di vivere nel palazzo presidenziale, vive in una casa di cinquanta metri quadrati, si sposta su un vecchio “maggiolone” Wolkswagen, fa la coda quando finisce in ospedale, ha alle spalle quattordici anni di carcere come oppositore di regime.
Ma esistono vie intermedie.
Non occorreva infatti essere un Pepe Mujica per levare una parola contro le spaventose diseguaglianze fra “ricchi” e “poveri” che ci sono in Italia. Per osservare quello che tutti sanno: che la pressione fiscale più alta d’Europa si registra proprio in Italia. Per pronunciare un J’accuse, magari anche en passant, contro la “partitocrazia” che continua a succhiare le migliori linfe vitali del paese. E questo – e le due cose non si escludono -, quale forza, quale vigore, quale credibilità, avrebbero impresso all’intemerata contro l’”antipolitica”!
Non occorreva essere un Pepe Mujica per agevolare l’inchiesta dei giudici di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia, piuttosto che ostacolarla con perniciosa determinazione, al punto di tentare sino in fondo di sottrarsi a un interrogatorio dovuto.
Pertini, Scalfaro, Ciampi, sotto un certo profilo lo stesso Cossiga, lasciarono ciascuno il proprio segno, facendosi carico delle emergenze attraversate dalle Italie di allora durante i loro rispettivi settennati.
Ma Napolitano? Monocorde, monotematico, in quel suo voler piallare ogni angolo, ogni increspatura, ogni tornante dell’infinito enigma Italia, mentre di ben altre parole di denuncia si sentiva il bisogno. Ci è risultato difficile, durante l’ascolto del suo commiato, cogliere una nota di phatos, di vicinanza a chi stava ad ascoltarlo, apostrofato con perifrasi di burocratica gelidità: “voglio rivolgermi a ciascuno di voi come persone, come cittadini”. Troppa grazia, verrebbe da dire.
Né ci è parsa gran prova di stile l’aver per l’ennesima volta ribadito che alla fine del primo mandato furono gli altri a chiedergli il bis, e che ancora oggi, a chi è tornato a richiederglielo, ha dovuto frapporre l’ostacolo – rispettabilissimo si capisce – dell’età avanzata. E agli storici del futuro, che si occuperanno di lui, chiede di farlo, quando sarà, “con obbiettività e insieme con spirito critico”, quasi che a quei livelli sia persino concesso scegliersi i futuri storici di famiglia.
La clessidra ha rilasciato i suoi ultimi granelli di sabbia. Si volta pagina. Dimesso un Capo dello Stato se ne fa un altro. Vedremo, fra poco, come e chi sarà il prossimo. Menestrelli e paraninfi quirinalizi, intanto, sono già pronti per il nuovo giro di valzer.
Ma fa specie che nessuno abbia sentito il dovere di osservare che Napolitano, lasciando la guida del paese, non abbia sentito l’imperativo civile e morale di pronunciare la parola “mafia”. Nell’Italia delle “quattro mafie”.
Nell’Italia che dalle “quattro mafie” è stata occupata e scempiata in lungo e in largo, dal Sud al Nord.
Nell’Italia, che cerca di fare la sua parte, rappresentata invece da Nino Di Matteo.
Ci voleva uno stomaco da struzzo per riuscire a non pronunciare la parola “mafia”. Napolitano ci è riuscito. Non era facile. Dopo questo discorso, in Europa, un certo comunismo e’ davvero finito.
Ma a Napolitando l’omissione non fa onore.
Avanti un altro.
2 gennaio 2015