da Clash City Workers
Il 20 Febbraio 2015 il governo Renzi ha reso definitivi gli schemi di decreto sulla seconda parte del Jobs Act, quella che riguarda la nuova tipologia di tutela dai licenziamenti illegittimi e la nuova indennità di disoccupazione.
Questi due schemi, insieme al decreto Poletti dello scorso Marzo, che di fatto aboliva l’obbligo della causalità nella stipulazione di contratti a tempo determinato, ridisegnano drasticamente il mercato del lavoro in Italia, al fine di razionalizzare la risposta alla domanda pressante dei padroni, in crisi di valorizzazione dei capitali: abbassare il costo del lavoro per creare più profitto.
Analizziamoli entrambi.
I. Addio all’articolo 18!
Che cosa cambia con il contratto a tutele crescenti, introdotto da Renzi col decreto approvato il 20/02/2015? La disciplina dei licenziamenti individuali è da sempre materia di contenzioso, politico e sindacale. Dal 1970 al 2012 i licenziamenti individuali sono stati regolati dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Il licenziamento – quello non discriminatorio, ma giustificato – può essere per:
giusta causa – colpa grave del lavoratore;
giustificato motivo soggettivo – colpa non grave del lavoratore, l’azienda ha l’obbligo di preavviso;
giustificato motivo oggettivo – interruzione dell’attività lavorativa, fine di un appalto o chiusura di uno stabilimento.
Vediamo di seguito la storia e la qualità dei cambiamenti introdotti prima dalla Fornero, ora da Renzi: alla fine del testo inseriamo una tabella riepilogativa.
1. La storia
L’articolo 18 stabiliva che, in tutti i casi di nullità, inefficacia o illegittimitàdel provvedimento, l’imprenditore era condannato al reintegro del lavoratore sul posto di lavoro: la possibilità di licenziare, dunque, c’era, ma se il licenziamento non era giustificato veniva di fatto annullato col ritorno del lavoratore al proprio posto. La distinzione tra nullità e illegittimità non era significativa perché la sanzione era la stessa: diventa significativa, e da comprendere dunque bene, solo a partire dal 2012, anno in cui Elsa Fornero rimette mano alla disciplina, modificando in più punti il testo dell’articolo 18.
Per capirci spieghiamo brevemente la differenza:
un licenziamento è nullo quando è discriminatorio e di conseguenza viola la legge (ad esempio, quando avviene durante un congedo di maternità);
è inefficace quando è espresso in forma orale o scritta senza indicare le motivazioni;
è annullabile quando è illegittimo.
Le modifiche riguardavano la restrizione delle possibilità di reintegrazione: questo restava nel caso di licenziamento discriminatorio, quindi nullo, inefficace, e nel caso di licenziamento illegittimo per manifesta insussistenza del fatto contestato o sproporzione tra colpa e provvedimento nel caso di motivi disciplinari( “perche’ il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”).
In tutti gli altri casi di illegittimità riconosciuta, cambiava la sanzione: dalla reintegrazione si passava all’indennizzo, calcolato da un minimo di 15 a un massimo di 24 mensilità.
La modifica Fornero, dal punto di vista dei padroni, non era sufficiente: la possibilità di reintegro era ancora molto alta, dato che rimaneva prevista nei casi di sproporzione tra colpa e provvedimento, che sono tra i casi più frequenti di cause di licenziamento portate in tribunale, e inoltre il minimo indennizzo previsto era più di un anno di stipendio.
Renzi, dunque, interviene essenzialmente su questi punti, semplificando drasticamente la disciplina, tant’è che non va ad intervenire, col decreto, modificando il testo dell’articolo 18, ma sostituendolo completamente con un nuovo testo.
Il reintegro resta, come possibilità, solo in due casi: nel caso di licenziamento nullo in quanto discriminatorio, inefficace e nel caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto materiale addotto direttamente dimostrata in giudizio. In tutti gli altri casi di illegittimità, conclamata e riconosciuta da un giudice, la sanzione diventa esclusivamente quella dell’indennizzo, e il minimo scende da 15 a 4 mensilità (due mensilità per anno di lavoro, fino a un massimo di 24 mensilità).
Lo schema di decreto prevede, inoltre, l’esenzione dall’IRAP e dal pagamento dei contributi pensionistici per tre anni per tutti i nuovi contratti attivati nel 2015: facile immaginare che, al termine del periodo di sgravi fiscali e contributivi, molti di questi contratti termineranno.
2. Limitazione delle ipotesi di reintegro
Nei mesi e nei giorni passati il governo e la stampa di regime si sono affannati a rassicurare gli animi: IL REINTEGRO RESTA, NON VI AGITATE! LA LEGGE È GIUSTA, L’ARTICOLO 18 ERA UN RETAGGIO DEL PASSATO!
Proviamo ad entrare nel merito di questa obiezione. Il reintegro resta nel caso di licenziamento discriminatorio, quindi nullo, o inefficace in quanto intimato in forma orale.
Un licenziamento in forma orale è raro, semplicemente, o esiste solo nella testa dei padroni più barbari o più imbecilli: si tratta di una comunicazione del tipo “Torna a casa, non mi servi più” che nessuna persona dotata di senno adotterebbe come forma per liberarsi di qualcuno. Eppure anche questa forma è stata adottata: è il caso dei facchini di una cooperativa che lavorava per Esselunga. Per questi casi, per fortuna, il reintegro rimane. La stessa cosa vale per il licenziamento discriminatorio, legato cioè a motivi di genere, orientamento sessuale, colore della pelle, opinioni politiche, orientamento religioso etc etc. E’ fin troppo evidente che nessun padrone licenzia mai qualcuno palesemente per questi motivi: nella giurisprudenza non si è mai dato un solo caso di licenziamento discriminatorio, i padroni hanno sempre mascherato la discriminazione sotto la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo.
Ancora, il reintegro resta per i casi di insussistenza del fatto materiale direttamente dimostrata in giudizio.
Il caso è importante, specialmente, ma non solo, nei casi di licenziamento per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa). Le parole anche in questo caso sono importantissime. Vediamo innanzitutto la specifica “fatto materiale”: nella precedente legge Fornero si parlava genericamente di “fatto”; alcuni giudici hanno interpretato la parola “fatto” come “fatto giuridico”, come l’insieme cioè delle circostanze oggettive e dell’interpretazione soggettiva del giudice stesso, e ne hanno quindi dedotto di poter procedere all’assoluzione del lavoratore e alla condanna del datore di lavoro al suo reintegro.
La Cassazione aveva già provveduto a correggere questa interpretazione ma, per evitare rischi, in fase di preparazione si è preferito aggiungere l’aggettivo “materiale”, che esclude l’interpretazione soggettiva del giudice, ridotto a mero “sanzionatore” e “calcolatore” dell’indennità.
Il lavoratore ha diritto, dunque, al reintegro solo se riesce a provare in tribunale che il fatto materiale a lui imputato o comunque addotto a ragione del licenziamento non sussiste. L’onere della prova spetta al lavoratore licenziato (prima spettava invece al datore di lavoro provare la sussistenza della motivazione): in pratica il padrone può tranquillamente ricorrere ad una argomentazione manchevole o debole, perché può contare sulle difficoltà, per un singolo lavoratore non particolarmente motivato o non sufficientemente assistito dal sindacato, di ricorrere in giudizio e dimostrare l’insussistenza del fatto addotto (nel solo Veneto, nel 2013, i ricorsi in tribunale contro un licenziamento sono stati 250, a fronte di circa quattromila licenziamenti), mentre prima il padrone era dovuto a dimostrare lui stesso la sussistenza delle motivazioni.
Per rendere improbabile proprio il ricorso in tribunale, comunque, il datore di lavoro può offrire una somma pari a una mensilità per anno di servizio, da un minimo di 2 a un massimo di 18, esente da imposizione fiscale, al lavoratore, se accetta di rinunciare alla causa. A dimostrazione della serietà con cui i padroni vogliono in tutti i modi evitare il contenzioso, il 13 gennaio 2015 il testo dello schema di decreto è stato appositamente modificato per inserire le coperture dovute alle minori entrate derivanti dalla mancata imposizione fiscale su queste somme!
Considerando tutte le ipotesi, in sintesi, è come dire che il reintegro è rimasto, sì, ma solo nel caso di licenziamenti a calci in culo o a sputi in faccia davanti a testimoni, oppure se si riesce a dimostrare che il padrone ha inventato tutto di sana pianta!
In tutti gli altri casi, che sono la maggioranza, il padrone adduce un motivo plausibile a ragione del licenziamento (quindi maschera anche un eventuale licenziamento discriminatorio sotto la forma di licenziamento giustificato): il giudice ne valuta, eventualmente, la legittimità e nel caso in cui non la ritrovi annulla il licenziamento e condanna il padrone al reintegro. Annullava, condannava: da oggi non avviene più.
Il primo paradosso diabolico dello schema di decreto è che permane il riconoscimento giuridico dell’illegittimità dell’atto, ma l’atto non viene annullato: il giudice potrà riconoscere che un lavoratore è stato licenziato ingiustamente ma non potrà cancellarne il licenziamento!
La sanzione in forma di indennizzo è, a questo punto, una foglia di fico: l’illegittimità di fatto scompare, perché se lo schema di decreto stabilisce un indennizzo monetario come unica sanzione, si sta dicendo praticamente che ogni padrone può liquidare, in qualunque momento e senza preoccuparsi di giustificare niente, un lavoratore, dandogli al massimo due anni di stipendio (ma due anni di stipendio sono l’indennizzo per un licenziamento dopo 12 anni di lavoro!!!)
3. Qualche esempio concreto
Mario è un operaio di 58 anni: da otto anni lavora ai telai della “Paola Textile” di Montemurlo, vicino Prato. Durante un periodo di malattia dovuto ad un grave problema cardiaco, Mario chiede, in vista del rientro, di cambiare mansione; l’azienda, per tutta risposta, lo licenzia adducendo un giustificato motivo soggettivo. Mario fa ricorso contro la sentenza e il giudice, avendo riconosciuto l’illegittimità del licenziamento, condanna l’azienda alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di tutte le mensilità e i contributi dovuti dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione. Mario potrebbe scegliere di prendere 15 mensilità, oltre a quelle già dovute dall’azienda, e di non rientrare, ma è lontano dalla pensione, non è riuscito a trovare un altro lavoro ed ha bisogno di continuare a versare i contributi pensionistici, quindi sceglie di rientrare in fabbrica. La norma di riferimento è l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Domenico è un operaio della Fiat di Pomigliano d’Arco, vicino Napoli. La Fiat lo licenzia in seguito ad una manifestazione durante la quale Domenico, in qualità di RSU, aveva esposto striscioni contro la precarietà e per la sicurezza sul posto di lavoro, facendo anche un intervento al megafono. Il giudice ha stabilito che il licenziamento era sproporzionato, quindi illeggitimo, e ha condannato la FIAT alla riassunzione a alla corresponsione di tutte le mensilità e i contributi intercorsi dal licenziamento alla riassunzione. La norma di riferimento è l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Piero è un impiegato dell’Atla srl. Un giorno manda una mail a un collega con giudizi poco lusinghieri sul lavoro di un particolare settore (“Parlare di pianificazione nel gruppo Atti è come parlare di psicologia con un maiale”), la mail finisce sulla scrivania del titolare dell’azienda che lo licenzia in tronco, senza preavviso, per “giusta causa”. Il giudice ridimensiona il fatto a un comportamento non particolarmente offensivo, considera dunque spropositata la sanzione e condanna l’azienda alla reintegrazione, fatta salva la scelta di Piero di avere, in alternativa, 15 mensilità. La norma di riferimento è l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Mario, Domenico e Piero sono persone realmente esistenti (solo il primo nome è inventato). Le loro storie sono prese dalle cronache degli ultimi anni. Che cosa sarebbe successo alle loro vite se, al momento del licenziamento, fosse stato già in vigore il contratto a tutele crescenti di Renzi?
Mario: il licenziamento è stato riconosciuto illegittimo, ma non è annullabile (il fatto addotto dall’azienda, la prolungata assenza del lavoratore e l’impossibilità di rimpiegarlo con una nuova mansione, sussiste). Mario viene mandato a casa con circa 20000 euro, a 58 anni, con scarse o nulle possibilità di ricollocarsi (data l’età e la patologia)
Domenico: il licenziamento è stato riconosciuto illegittimo in quanto sproporzionato, ma non é annullabile (il fatto contestato dalla Fiat, cioè la manifestazione, sussiste). Domenico viene mandato a casa con un indennizzo massimo di poco meno di 30000 euro.
Piero: il licenziamento è stato riconosciuto illegittimo in quanto sproporzionato, ma non è annullabile (il fatto contestato dall’azienda, cioè la mail, sussiste). Piero, come Domenico, viene mandato a casa con un indennizzo massimo di poco meno di 30000 euro.
Questo è ciò che succederà a lavoratrici e lavoratori che, ad un certo punto della loro carriera, vengono licenziati e fanno ricorso davanti al giudice. Ma che dire di tutti gli altri?
Maria è un’addetta alle pulizie e lavora in un Ateneo. Assunta da un anno, un giorno lascia incustodite le attrezzature e i prodotti per la pulizia, che vengono rubati. Maria viene licenziata. Il giudice riconosce l’illegittimità del licenziamento – il contratto di categoria prevede una multa per questa dimenticanza, non il licenziamento – ma non può ordinare la reintegrazione: Maria viene mandata a casa con meno di 2000 euro di indennizzo.
Adriana è un’operatrice di call center. Lavora da due anni senza problemi, finché l’azienda non decide di ristrutturare, ridimensionando il personale, e la licenzia adducendo come motivo l’aver perso una commessa da un cliente di grandi dimensioni. Il giudice riconosce l’illegittimità del licenziamento, in quanto l’azienda avrebbe potuto ricollocare Adriana in un altro settore, ma il fatto – la perdita della commessa – sussiste, per cui non può ordinare la reintegrazione: Adriana va a casa con meno di 4000 euro di indennizzo.
4. Ce lo chiede l’Europa!!! (Vero!!!)
Questo è un altro argomento a favore del decreto Renzi: uniformarsi alla normativa vigente nel resto d’Europa, per non perdere competitività. E hanno ragione! Non sul piano della competitività, ma sul fatto che nella maggior parte dell’Europa è già previsto il risarcimento, in luogo del reintegro, in caso di licenziamento nullo o illegittimo. Nello specifico, in Belgio, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo e Spagna prevale senza dubbio il risarcimento sul reintegro. In Francia e Gran Bretagna la reintegrazione è prevista solo in caso di licenziamento nullo, come in Italia, o è rimessa alla discrezionalità del giudice. In altri paesi il sistema è misto, il reintegro prevale in Grecia, Portogallo, Olanda e…Germania! Sorpresi? La “locomotiva d’Europa”, il motore produttivo del continente, aveva, ha e continua ad avere una legislazione simile all’ormai defunto Statuto dei Lavoratori, eppure, a detta anche dei padroni, primeggia in produttività e competitività. Lungi dal dedurre che la Germania sia un paradiso per i lavoratori – tutt’altro! – questo fatto dimostra, contrariamente a quanto possano affermare Ichini vari, che non c’è alcun legame tra una presunta “difficoltà” a licenziare e una bassa produttività. Non a caso, infatti, l’applicazione effettiva dell’articolo in Italia e il ricorso ad esso per il reintegro, riguardava un numero ristretto di casi.
5. Perché, allora, quest’accanimento?
La questione, evidentemente, non è – solo – economica, ma molto politica: i lavoratori italiani, come altri lavoratori in Europa, avevano conquistato, nel corso di lunghe lotte, diritti importanti: tra questi, il diritto alla conservazione del posto di lavoro nei casi di licenziamenti illegittimi. I licenziamenti illegittimi intervengono, spesso e volentieri, quando un lavoratore, organizzato o meno, dà fastidio: ovviamente non lo si può condannare per l’esercizio dell’attività sindacale – tutelata, ancora, dall’articolo 28 dello Statuto – ma lo si può perseguire adducendo altre, pretestuose motivazioni. È il caso, letto prima, di Domenico, meglio conosciuto come Mimmo, che di cognome fa Mignano: lavoratore e sindacalista combattivo e poco propenso ad arrendersi, che ha lottato fino in fondo contro la ristrutturazione aziendale imposta da Marchionne, il reparto confino a Nola, la limitazione del diritto di sciopero insita nel contratto della NewCo di Pomigliano, mentre altri sindacati – e altri sindacalisti – a volte hanno preferito mediare, scendere a compromessi, arrendersi (se non peggio). Alla prima occasione utile, una manifestazione, l’hanno licenziato: quando il giudice ha sancito il reintegro, la FIAT ha deciso di licenziarlo un’altra volta, stavolta per un’azione davanti a una concessionaria (avrebbe “danneggiato l’immagine dell’azienda”). Qual è la colpa di Mimmo? Dolo? Truffa? Assenteismo? Danni aziendali? Niente di tutto questo (e per ognuno di questi casi il licenziamento, checché ne dica la propaganda borghese, è sempre stato possibile). La colpa di Mimmo è la lotta. La colpa di tanti licenziati illegittimamente è di dare fastidio: qualcuno magari pretende il rispetto delle regole, qualcun altro si lamenta un po’ troppo, qualcun altro vuole attenersi alle sue mansioni e non fare di più, qualcuno sciopera…L’articolo 18, nella sua formulazione, pensava a questo, non a caso era inserito nel Titolo relativo alla tutela dell’azione sindacale: ed è pensando a questo che l’hanno cancellato.
Statuto dei Lavoratori | Legge Fornero (92/2012) | Jobs Act |
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Licenziamento discriminatorio (nullo) | Reintegro | Reintegro | Reintegro |
Licenziamento inefficace (orale) | Reintegro | Reintegro | Reintegro |
Licenziamento illegittimo, annullato per insussistenza del fatto | Reintegro | Reintegro (l’insussistenza doveva essere manifesta, cioè non provata in dibattimento ma evidente in fase istruttoria; alcune sentenze hanno dato al termine “fatto” il significato di “fatto giuridico”, facendo pesare l’interpretazione del giudice, per cui i casi di reintegro sono aumentati rispetto alla volontà del legislatore) | Reintegro (per evitare il problema posto dalla Legge Fornero che aveva reso allargabile il numero dei reintegri, il legislatore ha aggiunto, alla parola “fatto” l’aggettivo “materiale”, escludendo l’interpretazione del giudice ed assegnando al lavoratore l’onere di provarne l’insussistenza) |
Licenziamento illegittimo, annullato per sproporzione tra fatto e sanzione (nei casi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, ciò significa la presenza, nei contratti collettivi o nei codici disciplinari, di sanzioni diverse dal licenziamento, e conservative del posto di lavoro, per il fatto contestato) | Reintegro | Reintegro | Indennizzo (da 2 a 24 mensilità, calcolate nella misura di 2 per ogni anno di lavoro) |
Licenziamento illegittimo per non ricorrenza degli estremi | Reintegro | Indennizzo (da 12 a 24 mensilità) | Indennizzo (da 2 a 24 mensilità, calcolate nella misura di 2 per ogni anno di lavoro) |
Licenziamento illegittimo per mancanza del requisito di motivazione (vizio formale) | Reintegro | Indennizzo (da 6 a 12 mensilità) | Indennizzo (da 1 a 12 mensilità, calcolate nella misura di 1 per ogni anno di lavoro) |
6. Postilla
Nei quasi due mesi trascorsi tra la preparazione dello schema di decreto e il varo del decreto definitivo le commissioni lavoro di Camera e Senato si sono riunite per emanare il loro parere, obbligatorio ma non vincolante, sul testo. Al termine dei lavori, nel testo sono rientrate poche, ma significative modifiche: è stato specificato che il contratto nuovo sarà applicabile anche alle conversioni di contratti vecchi – di apprendistato, di somministrazione, a termine – e, soprattutto, che la nuova disciplina varrà anche per i licenziamenti collettivi, che, rientrando a pieno titolo secondo quanto ha stabilito il governo, nella tipologia dei licenziamenti economici, andranno a sottostare alla nuova legge (indennizzo e non reintegro) e, di fatto, spariranno come concetto (non si parlerà più di licenziamenti collettivi perchè non ci sarà un trattamento differenziato, come è stato finora, rispetto ai licenziamenti individuali). Infine, non è stato ripristinato un comma che, nella prima versione del testo, escludeva esplicitamente i lavoratori pubblici: ciò significa che, con tutta probabilità, il contratto a tutele crescenti si applicherà anche a tutto il pubblico impiego.
Le modifiche rendono ancora più chiaro, se possibile, l’intento della legge: facilitare al massimo i licenziamenti, rendendoli il meno costosi possibile per i padroni, con regole uguali per tutti. L’estensione della disciplina al pubblico impiego e ai licenziamenti collettivi ha, tra gli altri, lo scopo di disinnescare la bomba di un referendum abrogativo, come minaccia la FIOM in maniera non troppo convinta: eliminando le disparità di trattamento tra le diverse tipologie di lavoratori il principale appiglio per chiedere l’abrogazione della legge viene meno.
II. Dall’ASPI alla NASPI
Il secondo schema di decreto, di 15 pagine, riguarda la riforma del sussidio individuale di disoccupazione introdotto dalla Fornero nel 2012 col nome di ASPI. Prima di affrontarlo nel merito facciamo un passo indietro: quali sono le forme tradizionali di assistenza economica alla disoccupazione, in Italia?
In tutta Europa, già dall’inizio del XX secolo, sono presenti leggi in materia di assistenza economica al lavoratore in disoccupazione, di “integrazione” del salario: la prima legge europea in tal senso è francese e risale al 1905. La particolarità italiana risiede(va) nel fatto che esisto(eva)no delle forme di sostegno e integrazione del reddito non disgiunte dall’obiettivo della conservazione del posto di lavoro: la Cassa Integrazione Guadagni, introdotta sotto il fascismo e finanziata dai contributi del lavoratori e degli imprenditori, interviene erogando salario in periodi di riduzione più o meno pesante dell’orario lavorativo, in seguito ad una crisi aziendale, senza che siano ancora state attivate le procedure di licenziamento. In pratica in Italia l’integrazione salariale in momenti di crisi occupazionale ha come ulteriore obiettivo quello di evitare i licenziamenti, mentre nel resto d’Europa l’indennità di disoccupazione si eroga soltanto a partire dal licenziamento.
Stiamo, in effetti, comparando due istituti radicalmente diversi nella forma e nella sostanza economica e politica: la peculiarità del sistema italiano risiede(va) proprio nell’obiettivo di evitare, o quantomeno ritardare il licenziamento, con la CIG che è, come si è compreso, un istituto essenzialmente collettivo; l’indennità di disoccupazione individuale, che pure in Italia esiste(va), non è comparabile dunque, per platea ed estensione temporale, né ai corrispettivi istituti europei né alla CIG stessa. Per fare un esempio, la vecchia indennità di disoccupazione – prima della riforma Fornero, poteva durare al massimo 10 mesi, con erogazione del 50% del salario lordo nei primi 6, 40% nei successivi 3 e 30% negli ultimi tre (dati al 2006); la CIG eroga l’80% del salario lordo fino a 12 mesi, successivamente può intervenire la CIGS (CIG Straordinaria) con l’80% del salario fino ad ulteriori 24 mesi, ancora la CIG in deroga per un ulteriore anno, fino all’indennità di mobilità che eroga lo stesso ammontare della CIGS (fino a 48 mesi!) e costituisce la vera e propria anticamera del licenziamento.
Un sistema indubbiamente più complesso (e parziale, ché non tutti i lavoratori ricevono un indennità) rispetto agli omologhi europei che hanno sempre preferito una forma universale di indennità, posteriore al licenziamento, che non mirava alla tutela del posto di lavoro perso; complesso, sì, ma, benché con limiti e storture enormi, utile ed efficace soprattutto per il dispiegarsi della lotta sindacale e politica, che ha(aveva) così il tempo (fino a 36 mesi e oltre!) e l’agibilità per mettere in piedi vertenze sulla tutela occupazionale con discrete possibilità di vittoria.
Ma, come scritto nella postilla immediatamente precedente, il governo Renzi ha fatto uno strappo enorme rispetto al passato, abolendo esplicitamente questa distinzione: i licenziamenti collettivi non esistono più come categoria, ogni licenziamento è individuale.
1. Vittoria dei lavoratori = Fumo negli occhi dei padroni
Ecco che, ricostruendo in mezza paginetta la principale differenza tra il nostro Paese e il resto d’Europa, viene fuori l’obiettivo politico del padronato e della borghesia: spuntare le armi al movimento sindacale che resta, per numero di iscritti e presenza sui luoghi di lavoro, uno dei più forti d’Europa (al netto di riformismi, corruzione e sbracamenti che ben conosciamo…).
Illustri economisti, dunque, politici, imprenditori incominciano a sciacallare sulla Cassa Integrazione, attribuendo all’effettiva varietà e complessità degli aiuti ogni male italiano, dal crollo della produttività alle sconfitte ai Mondiali: da più parti si levano voci a favore di una non meglio precisata semplificazione, che farebbe risparmiare, finalmente, i soldi agli italiani.
Scopriamo che cosa sia questa benedetta semplificazione quando, col governo Monti, la famigerata ministra del lavoro Elsa Fornero, dopo aver completato – peggiorandola – la lunga riforma delle pensioni iniziata nel 1995 col governo Dini, si muove letteralmente con le ruspe contro la Cassa Integrazione Guadagni e in generale contro il vecchio sistema: la cassa in deroga, la mobilità e la disoccupazione vengono abolite e sostituite dall’ASpI (Assicurazione sociale per l’impiego), mentre la straordinaria viene estesa ad altri settori non industriali ma ridotta nelle possibilità e nei campi di applicazione. All’ASpI si aggiunge la Mini-ASpI, un sussidio ridotto per chi non matura i requisiti per la prima (due anni di contributi per l’ASpi, almeno 13 settimane ma meno di 52 in due anni per la mini-ASpI).
Il raffronto tra AspI e vecchia disoccupazione gioca a favore dell’ultima arrivata: durata estesa fino a 18 mesi per gli over 55, ammontare dell’assegno al 75% del salario lordo, ridotto del 15% dopo sei mesi e di un ulteriore 15 dopo un anno. Se si considerano però insieme anche l’abolizione della mobilità e le limitazioni nel ricorso alla straordinaria si vede che il bilancio economico pende decisamente a favore dei padroni; quello politico, invece, si comincia appena a delineare.
2. Dall’ASpI alla NASpI
Il secondo decreto modifica sostanzialmente l’indennità marcata Fornero, andando però nella stessa direzione, cioè quella di individualizzare, a parità di spesa o con una spesa di poco superiore, il trattamento economico di indennità di disoccupazione.
Le differenze sono chiare e semplici: la NASpI estende la platea potenziale a tutto il lavoro dipendente, senza ulteriori distinzioni che persistevano nella vecchia AspI, vengono esclusi solo i lavoratori a tempo indeterminato della PA e gli operai agricoli (come nella precedente legge, con la significativa estensione agli extracomunitari con permesso di soggiorno e lavoro stagionale); i requisiti vengono ammorbiditi rispetto all’entità minima di contributi richiesti, che diventa di 13 settimane, come precedentemente per la mini-ASpI. Si deve inoltre aver lavorato almeno 18 giorni nell’anno precedente alla disoccupazione, e il rapporto deve essersi concluso senza contenzioso (dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale).
La durata dell’erogazione del contributo potrà essere al massimo pari alla metà delle settimane contributive dei 4 anni precedenti (quindi 2 anni), e a regime, dal 2017, non potrà superare le 78 settimane (un po’ più di 19 mesi); l’importo, parametrato sempre al 75% dell’ultimo salario lordo, non potrà essere superiore a 1300 euro e scalerà, a regime, del 3% al mese, a partire dal quarto mese.
Insieme alla NASpI, il governo ha predisposto due ulteriori indennità, finanziate al momento solo per il 2015 e con il rischio concreto di insufficiente finanziamento rispetto alla platea potenziale: si tratta dell’ASDI, sussidio di disoccupazione erogato al termine della NASpI soltanto a lavoratori ancora disoccupati, con famiglia e figli minori a carico o con altre condizioni svantaggiose, pari al 75% della NASpI ed erogato per sei mesi; infine il Dis-Coll, sussidio per i lavori precari, co.co.co., co.co.pro e gestione separata, attivato solo sperimentalmente per il 2015.
La differenza più significativa è certamente l’estensione della platea e l’introduzione della clausola della risoluzione senza contenzioso: sono questi due aspetti che vanno letti insieme a quanto detto per il primo decreto, alla possibilità cioè di licenziare con indennizzo e all’estensione di questa nuova disciplina anche ai licenziamenti collettivi. I due decreti insieme aprono autostrade ai licenziamenti facili e arbitrari, disincentivando ancor più di prima i lavoratori a ricorrere contro un licenziamento ritenuto ingiusto perché, a fronte di un indennizzo misero, perderebbero la disoccupazione; inoltre, politicamente, il sindacato quale che sia perde fortemente di peso e di importanza, dal momento che vengono di fatto meno i campi sui quali poteva esprimersi o avere un intervento; nella stragrande maggioranza dei casi, più di quanto non succeda già oggi, i lavoratori saranno costretti ad accettare risoluzioni “consensuali” del rapporto per accedere alla NASpI, non avendo i padroni alcun interesse a tenere in piedi la baracca, e la NASpI avrà il potere particolare, rispetto alla CIG, di isolare il lavoratore, che si troverà da solo in fila agli uffici dell’INPS invece che in piazza, con le compagne e i compagni, a difendere il posto di lavoro.
Una vera e propria rivoluzione copernicana del diritto del lavoro, che per abbassare il costo di riproduzione della manodopera punta non solo all’abbassamento dei salari, ma soprattutto alla devastazione delle forme organizzate di resistenza possibile della classe, a partire dai sindacati e dalle vertenze.
24 Gennaio 2015