Poniamoci il problema su quali siano i motivi per il quale nessun economista (“asservito” al capitalismo) voglia prendere in considerazione, tra i primi obiettivi da realizzare, l’ipotesi di fare dell’€uro una moneta che, in ogni Stato componente l’Europa, valga effettivamente ed in modo identico.
Infatti, se 1 € avesse l’identico valore e lo stesso potere d’acquisto in ogni Stato europeo e, nel contempo, ci fossero gli stessi accordi sindacali (contratti nazionali, ovviamente, a parità di trattamento economico su scala europea) non ci sarebbero le banche che lucrano con la tecnica dello spread che consiste nel guadagnare sulle differenze fra i tassi d’interesse acquistati e venduti.
Le banche private, infatti, lavorano, soprattutto, sul debito, finanziandolo e raccogliendone gli interessi; inoltre, la scelta di non concedere crediti a imprese o alle stesse banche commerciali se non con lo scopo di obbligarle a mettere a disposizioni quantità economiche a loro favore non è casuale.
D’altronde, come si concilia un’Europa che ha al proprio interno “paradisi fiscali“(come il Lussemburgo, il Belgio o altri Stati che, formalmente, sono della Corona britannica) e segreto bancario con “un’unione” che dice, sulla carta (Trattato di Maastricht), di essere solidaristica tra popoli?
E come si concilia, anche, un’Europa che favorisce il sistema d’evasione fiscale, con la tecnica delle polizze vita (non quelle vendute ai comuni mortali ma quelle dove le banche sottoscrivono un contratto assicurativo sulla vita del cliente conferendo soldi, società, beni, ecc. come premio unico iniziale, dove il capitale, così, viene investito in un fondo di cui il cliente ne ha la totale disponibilità potendo continuare ad investire) con chi, invece, paga tasse maggiorate e ha meno servizi a causa di questo?
Unica chance per le popolazioni dell’Europa è rimettere in discussione la gestione finanziaria fatta con leggi che favoriscono le banche (=capitalisti) e non i veri produttori di ricchezza (= oppressi), questi ultimi, avrebbero tutto il vantaggio ad eliminare questi orpelli in quanto “produttori” di sola povertà…
Come prima barriera alla deriva liberista le soluzioni potrebbero essere:
a) fare un genuino Partito comunista come quello che storicamente ha saputo dimostrare, là dove è stato possibile e prima che arrivassero i “guastatori“, di saper diffondere ricchezza pro-capite;
b) scrivere ed approvare una Costituzione sociale europea come quella italiana.
Walter Montella
Sezione comunista Gramsci-Berlinguer di Milano
di Joseph Stiglitz
Chi pensava che l’euro non avrebbe potuto sopravvivere si è sbagliato. Ma i critici hanno ragione su una cosa: o ci sarà l’Europa politica – gli Stati uniti d’Europa – o non ci sarà l’euro. Un articolo del premio Nobel per l’economia, in collaborazione con Mauro Gallegati
Secondo i dati economici più recenti, sia gli Stati Uniti che l’Europa stanno mostrando segnali di ripresa, anche se è presto per dichiarare la fine dalla crisi. Tuttavia, nella maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, il Pil pro capite è ancora inferiore al periodo precedente la crisi: un intero decennio perduto. Dietro alle fredde statistiche, ci sono vite rovinate, sogni svaniti e famiglie andate a pezzi (o mai formatesi), un futuro quanto mai precario per le generazioni più giovani, mentre la stagnazione – in Grecia la depressione – avanza anno dopo anno.
L’Ue vanta persone di talento e con un alto grado di istruzione. I suoi Paesi membri contano su forti quadri giuridici e società ben funzionanti. Prima della crisi, la maggior parte aveva persino economie ben funzionanti. In alcuni Paesi, la produttività oraria – o il suo tasso di crescita – era tra le più alte del mondo.
Ma l’Europa non è una vittima di errori altrui, come spesso si legge. Certo, l’America ha mal gestito la propria economia, ma il malessere dell’Ue è in massima parte auto-inflitto, a causa di una lunga serie di pessime decisioni di politica economica, a partire dalla creazione dell’euro. Sebbene l’intento sia stato quello di unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa: i Paesi più deboli (quelli che già nel 1980 in un lavoro per l’Ocse, Fuà individuava nei Paesi europei di più recente sviluppo – tutti con alta inflazione, dualismo territoriale, deficit della bilancia dei pagamenti e di bilancio pubblico, alta disoccupazione e notevole quota di economia sommersa – e che ora sono con malcelata arroganza indentificati come Piigs) sono riusciti, per ora, a rimanere nell’euro a prezzo di disoccupazione e deflazione salariale, crollo della domanda interna e aumento del “sommerso”. In assenza della volontà politica di creare istituzioni in grado di far funzionare una moneta unica – innanzi tutto una politica fiscale unica – nuovi danni si aggiungeranno ai danni già prodotti. Gli squilibri in Europa sono aggravati dalla divergenza nelle esportazioni nette, e solo una politica fiscale comune può far in modo che i flussi commerciali del Portogallo verso l’Olanda diventino simili a quelli dell’Oregon verso il Missouri o del Brandeburgo verso la Baviera.
La Grande Recessione deriva in parte dalla convinzione che il liberismo di mercato avrebbe riportato le economie su di un sentiero di crescita “adeguato”. Tali speranze si sono rivelate sbagliate non perché i Paesi dell’Ue non siano riusciti a realizzare le politiche prescritte, ma perché i modelli su cui hanno poggiato quelle politiche sono gravemente viziati. In Grecia, ad esempio, le misure intese a ridurre il peso debitorio hanno di fatto lasciato il Paese più indebitato di quanto non fosse nel 2010: il rapporto debito-Pil è aumentato a causa dello schiacciante impatto dell’austerità fiscale sulla produzione. Il Fondo monetario internazionale ha ammesso questi fallimenti politici e intellettuali. Verrà anche quel tempo per la Troika. Speriamo non, come si dice in Italia, “a babbo morto”.
I leader europei restano convinti che la priorità debba essere la riforma strutturale. Ma i problemi che menzionano erano evidenti negli anni precedenti la crisi, e non avevano fermato la crescita allora. All’Europa serve più che una riforma strutturale all’interno dei Paesi membri. All’Europa serve una riforma della struttura dell’eurozona stessa, e l’inversione delle politiche di austerity, che non sono riuscite a riaccendere la crescita economica.
Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento: i tassi di interesse e il cambio. Se si aderisce a una moneta unica, la rinuncia ad alcuni strumenti di politica economica può essere compensata sostituendoli però con qualcosa d’altro, come una politica fiscale comune e condivisione dei debiti, mentre ad oggi l’Europa non ha messo in campo altro che il fiscal compact. Serve un cambiamento strutturale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa sopravvivere: o ci sarà l’Europa politica (Stati Uniti d’Europa) o non ci sarà l’euro. Coloro che pensavano che l’euro non avrebbe potuto sopravvivere si sono ripetutamente sbagliati. Ma i critici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga riformata la struttura dell’Eurozona, e fermata l’austerity, l’Europa non si riprenderà.
Il dramma dell’Europa è ben lungi dall’essere concluso. Uno dei punti forza dell’Ue è la vitalità delle sue democrazie. Ma l’euro ha lasciato i cittadini – soprattutto nei Paesi in crisi – senza voce in capitolo sul destino delle loro economie. Gli elettori hanno ripetutamente mandato a casa i politici al potere, scontenti della direzione dell’economia – ma alla fine il nuovo governo continua sullo stesso percorso dettato da Bruxelles, Francoforte e Berlino.
Ma per quanto tempo può durare questa situazione? E come reagiranno gli elettori? In tutta Europa, abbiamo assistito a un’allarmante crescita di partiti nazionalistici estremi, mentre in alcuni Paesi sono in ascesa forti movimenti separatisti. E potranno le economie dei paesi periferici sopravvivere ad una unione monetaria incompleta e asimmetrica?
Ora la Grecia sta ponendo un altro test all’Europa. Il calo del Pil greco dal 2010 è un fattore ben più grave di quello registrato dall’America durante la Grande Depressione degli anni ‘30. La disoccupazione giovanile è oltre il 50%. Il governo del primo ministro Alexis Tsipras ha ottenuto che venga abbandonato l’insano obiettivo – assunto dal precedente governo Samaras – di triplicare l’avanzo primario, anche recuperando parte dell’evasione fiscale. Forse Syriza aveva acceso aspettative diverse sul piano interno. Ma l’Europa tutta deve ora cogliere l’occasione greca per completare il disegno dell’euro.
Il problema non è la Grecia. È l’Europa. Se l’Europa non cambia – se non riforma l’Eurozona e continua con l’austerity – una forte reazione sarà inevitabile. Forse la Grecia ce la farà questa volta. Ma questa follia economica non potrà continuare per sempre. La democrazia non lo permetterà. Ma quanta altra sofferenza dovrà sopportare l’Europa prima che torni a parlare la ragione?
(in collaborazione con Mauro Gallegati)
Parziale copyright Project Syndicate, traduzione di Simona Polverino
02/03/2015