RELAZIONE di MARCO RIZZO, Segretario nazionale di Csp-PARTITO COMUNISTA.
Consideriamo (fortunatamente) terminata la stagione dell’eclettismo dubbioso, dell’esaltazione dei particolarismi che, in questi ultimi anni, ha contribuito a distruggere identità e prospettiva per chi voleva richiamarsi con coerenza al comunismo, per poi ridursi infine al nulla teorico ed organizzativo. In questo percorso, appunto da comunisti, prendiamo “in carico” la storia del movimento comunista internazionale e rivendichiamo la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre, la costruzione del Socialismo in URSS e la figura di Stalin, continuatore dell’opera di Lenin, indicando nei processi di revisionismo di quella esperienza una delle cause del fallimento che, appunto, si ascrive esclusivamente alla sua degenerazione e non certo alla sua essenza. Il fallimento dell’Urss e’ il fallimento del revisionismo, da Khruschev a Gorbaciov. NON E’ FALLITO IL SOCIALISMO, E’ FALLITA LA REVISIONE DEL SOCIALISMO!!! Sarebbe un po’ come dire, guardando oggi alla miseria della politica e della società italiana, che la colpa è dei partigiani che hanno fatto la Resistenza. In tal senso, la figura di Stalin non va presa come “feticcio”, ma servirà, assieme a Marx, Engels, Lenin, Gramsci e agli altri grandi della”nostra” storia, da una parte come punto teorico di attualizzazione della teoria marxista-leninista e , dall’altra, come “spartiacque” per la costruzione pratica del partito. In Italia la dittatura della borghesia ti “consente” addirittura (sino ad oggi) di esser “comunista” ma non sopporta, non ammette lo ” stalinismo”.
Sono molti (troppi) quelli che si sono piegati a questo diktat in Italia, (peraltro neanche Stalin si definiva stalinista, il marxismo-leninismo è termine di riferimento politico e ideologico): chi non se la sente di rispondere adeguatamente al pensiero unico della borghesia non potrà mai contribuire realmente alla costruzione del Partito Comunista. Di fronte alla palese dittatura della borghesia globalizzata serve sviluppare il concetto della dittatura proletaria, di cui nessuna parte del popolo ha nulla da temere, in quanto vera “democrazia di tutti”.
Il 7 novembre di 95 anni or sono, milioni di operai, contadini e soldati, guidati da Lenin, capo del Partito Bolscevico, compirono, per la prima volta nella storia dell’umanità, la più grande rivoluzione popolare in grado di scalzare dal potere la borghesia, instaurando un nuovo potere operaio e popolare fondato sui Soviet come base del nuovo Stato Socialista.
Ciò avvenne per il concentrarsi, in quel paese, di alcune contraddizioni del capitalismo che lo portarono ad essere l’anello debole della catena imperialista, ma anche per la costruzione, nel corso di lunghi anni, di una forte direzione politica rivoluzionaria che seppe coniugare, in ogni fase di sviluppo degli avvenimenti, una giusta analisi di classe dell’imperialismo e del capitalismo ad una audace e tempestiva determinazione dei compiti dell’avanguardia organizzata della classe operaia e del popolo: il Partito Comunista.
Solo così si poté, nel breve volgere di pochi giorni, spostare i rapporti di forza a favore delle forze proletarie ed instaurare il potere dei soviet, sconfiggere la reazione interna dei capitalisti e dei proprietari terrieri e successivamente, nel corso di una lunga guerra civile, respingere l’attacco di 15 eserciti stranieri, che si scatenarono nel primo feroce attacco contro la Russia Sovietica al fine di uccidere nella culla la giovane rivoluzione, nell’interesse del capitale finanziario internazionale.
La storia dello stato, che , dopo la vittoria contro l’invasione straniera, si chiamerà Unione Sovietica è la storia della costruzione del primo stato socialista del mondo che dal 1937 diventerà la seconda potenza industriale del mondo. E che, con la forza economica e politica accumulata, seppe respingere il secondo proditorio attacco delle forze imperialiste europee e mondiali nel 1941, questa volta nella forma delle armate nazi-fasciste, inseguendo il nemico fino alla sua capitale, Berlino, issando sulla sede del Reichstag la bandiera rossa dell’Unione Sovietica e della rivoluzione proletaria.
La storia del primo stato socialista terminerà nel 1991 con la restaurazione del capitalismo e la vanificazione delle grandi conquiste sociali che in quell’esperimento si realizzarono, a causa delle pressioni internazionali, ma soprattutto, dell’avvento nella sua direzione politica di forze che, sulla base di una profonda revisione dei principi e dei valori del marxismo-leninismo, a partire dal 1953 e nel corso dei decenni successivi, cominciarono ad inseguire la chimera della coniugazione della pianificazione con il mercato, di fatto inseguendo il modello del capitalismo nella competizione internazionale, subendone la profonda influenza fino a diventarne subalterni ed infine sconfitti.
Questo triste epilogo della storia del socialismo realizzato nel corso del XX secolo, ben lungi dal far venir meno le ragioni dell’emancipazione proletaria, è, per tutti i comunisti fonte di grandi insegnamenti.
Innanzitutto, è la conferma della tesi leninista che, anche dopo una o più sconfitte, la borghesia non rinuncia ai tentativi di restaurazione del proprio potere, a cui si può resistere vittoriosamente soltanto consolidando il potere popolare e non scimmiottando le leggi del suo ordinamento sociale.
Inoltre, si conferma valida la tesi che soltanto con una forte politica di competizione, a livello internazionale, il socialismo può contrastare l’egemonia del capitalismo e limitarne sempre più il campo d’azione, e non con la cosidetta politica di “ pacifica coesistenza “ perseguita dal XX congresso del PCUS in poi.
Infine, apprendiamo, da tutta la storia del ‘900 che la lotta al revisionismo politico ed ideologico in seno al movimento operaio e comunista deve, sempre, essere condotta apertamente e senza omissioni, coinvolgendo in essa non solo i militanti di partito ma le più vaste masse popolari che, solo se informate e coscienti del proprio ruolo storico, possono essere permanentemente protagoniste della costruzione della nuova società.
Sulla base di questi principi e dagli insegnamenti tragici che ci vengono dalla storia, noi confermiamo l’attualità di una identità comunista , della necessità di ricostruire il Partito Comunista in Italia ed il movimento comunista internazionale, traendo forte ispirazione dalla nostra storia, dalla costruzione del socialismo come dalla restaurazione del capitalismo, dall’esempio grande ed universale della Rivoluzione Proletaria e Socialista d’Ottobre che ha aperto una nuova fase della storia dell’umanità e che continua ad essere quella dell’imperialismo come fase finale del capitalismo e delle nuove rivoluzioni proletarie che i comunisti ed i popoli sapranno realizzare per costruire col potere operaio e popolare il socialismo ed il comunismo.
Il pensiero e l’opera di Stalin come guida, fondamento e discrimine per la costruzione di un vero e moderno Partito Comunista.
Non ci prefiggiamo il compito, in questa sede, di ristabilire la verità su una delle personalità più imponenti della storia umana e sul suo operato. Questo è già stato efficacemente fatto da eminenti storici, studiosi e dirigenti del movimento comunista internazionale.
Per quanto ci riguarda, abbiamo da tempo respinto e condannato la demonizzazione della figura di Stalin come una delle forme più insidiose di anticomunismo, molto diffusa nelle fila della cosiddetta “sinistra”, anche di quella che si definisce “antagonista” o “radicale”, recuperando in toto il contributo teorico e gli insegnamenti che si possono trarre dallo studio della prassi politica staliniana, che rivendichiamo e assumiamo come patrimonio del movimento operaio e comunista internazionale e del nostro Partito.
Non meno pericolosa e, quindi, da combattere con forza, è la tendenza, purtroppo affermatasi in alcune componenti del Movimento Comunista Internazionale, a fare di Stalin un’icona, uno specchietto per le allodole, nascondendo sotto una pretesa radicalità da “duri e puri” i peggiori scivolamenti opportunistici e i più vergognosi cedimenti al nemico di classe.
Mentre gli anticomunisti, di destra e di sinistra, vedono in Stalin il demonio personificato, i moderni opportunisti ne celebrano ancorché il ruolo di grande statista e abile stratega militare, ma volutamente offuscano o tacciono su ciò che Stalin, in primo luogo, è: un grande dirigente rivoluzionario comunista.
Questo è l’aspetto di Stalin che più temono e, quindi, cercano di nascondere e far dimenticare. Questo è, invece, proprio ciò che noi assumiamo in modo assolutamente non testimoniale, esaltandone il ruolo di guida della prima rivoluzione proletaria e del primo stato socialista al mondo, traendone tutto l’insegnamento possibile, sul piano della teoria e della prassi rivoluzionaria.
E’ difficile trovare nella storia una figura altrettanto amata o odiata al pari di Stalin.
Amata dalle masse profonde del popolo, con cui era riuscito a stabilire un grado di intesa e comunicazione tuttora ineguagliato, grazie all’acuta sensibilità politica, in grado di cogliere e portare a sintesi le aspirazioni e i bisogni delle masse, alla perfetta conoscenza della realtà russa e sovietica (Stalin è l’unico tra i massimi dirigenti bolscevichi a non avere imboccato la via dell’emigrazione politica all’estero nel periodo pre-rivoluzionario) e alla capacità di comunicare concetti politici, economici, filosofici complessi in modo semplice e accessibile, educando così il proletariato alla direzione effettiva del proprio stato e all’esercizio del proprio potere.
Odiata e temuta dal nemico di classe del proletariato, dai reazionari, dai socialdemocratici, dai revisionisti, dai trotzkisti e dagli opportunisti di ogni risma per l’estrema coerenza tra pensiero e azione, tra teoria e prassi, per il rigore dell’analisi, per l’implacabilità nella difesa del marxismo-leninismo contro ogni forma di snaturamento o deviazione, sia estremistica che socialdemocratica, per la limpida chiarezza della prospettiva e dell’obiettivo finale.
Stabilito questo contesto, poiché sarebbe comunque impossibile affrontare seriamente tutta l’ampiezza e la complessità del pensiero e dell’opera di Stalin in un intervento di pochi minuti, ci limiteremo pertanto ad esaminare il suo insegnamento per quanto riguarda la teoria della rivoluzione proletaria e la dittatura del proletariato.
E’ necessario, a questo punto, fare una breve riflessione preliminare sul termine “stalinismo”.
Il termine venne originariamente coniato con una connotazione fortemente negativa e spregiativa dall’opposizione trotzkista alla fine degli anni ’20. Come noto, la concezione della “rivoluzione permanente e planetaria” che i trotzkisti, dogmaticamente e opportunisticamente, coltivavano in contrapposizione alla realistica concezione leniniana della “costruzione del socialismo in un paese singolarmente dato” (1), li portava a negare il carattere socialista dell’Unione Sovietica in quanto, per loro, a priori impossibile, a stravolgerne la realtà, diffondendone un’immagine distorta e falsa e identificando il potere sovietico con la “dittatura personale di Stalin”. Da qui, il termine improprio di “stalinismo”, usato per presentare in modo falsante la dittatura proletaria in Unione Sovietica, quale concretamente si sviluppava nelle date condizioni storiche degli anni ’20 e ’30.
Da allora e fino ad oggi, il termine è stato usato quasi esclusivamente in senso dispregiativo – sempre in modo improprio e mistificatorio – come sinonimo di totalitarismo, autoritarismo, intolleranza, repressione e chi più ne ha, più ne metta. Neppure quei partiti comunisti che rifiutarono la cosiddetta “destalinizzazione”, iniziata con le falsità denigratorie di Khruschev al XX Congresso del PCUS nel 1956, quali il Partito del Lavoro d’Albania, il Partito Comunista Cinese e il Partito del Lavoro della Corea, si dichiararono mai “stalinisti”.
In realtà, finché Stalin rimase in vita, il termine non fu mai usato. Stalin non si definiva certo uno “stalinista”. Tra tutti i dirigenti bolscevichi di primo piano, fu l’unico che non formalizzò il proprio contributo teorico, per altro molto ricco e creativo, come una componente autonoma, a sé stante, del marxismo-leninismo. Mentre, in forte contrapposizione alla teoria leninista, troviamo, per esempio, il trotzkismo e il bukharinismo, Stalin non contrappone un proprio sistema di pensiero al marxismo-leninismo, ma agisce come continuatore dell’opera e del pensiero di Lenin, sviluppandoli e applicandoli creativamente nelle condizioni storicamente date.
Stalin definisce il leninismo come “il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria. Più precisamente, è la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria in generale, la teoria e la tattica della dittatura proletaria in particolare”. (3)
Possiamo azzardare un’analoga definizione dello “stalinismo”?
Stalin prosegue l’opera di Lenin in condizioni particolari, che possiamo così sintetizzare:
ulteriore sviluppo dell’imperialismo e inasprimento delle sue contraddizioni;
sviluppo della costruzione socialista in un singolo paese;
avvio del processo di industrializzazione e di collettivizzazione nelle campagne;
inasprimento del confronto tra sistemi;
situazione di conflitto continuata (postumi della guerra civile, resistenza armata dei kulaki, aggressione tedesca e guerra mondiale, guerra fredda).
Potremmo quindi definire lo “stalinismo” come il marxismo-leninismo dell’epoca della costruzione vittoriosa del socialismo e del confronto intersistemico con l’imperialismo, come teoria e tattica del consolidamento della dittatura proletaria in generale e della costruzione del socialismo in particolare.
In questo senso, ebbene sì, siamo “stalinisti”. Altrimenti, stalinianamente, preferiamo definirci marxisti-leninisti.
Da quanto fin qui detto, traiamo due considerazioni preliminari:
il pensiero e l’opera di Stalin si inscrivono a pieno titolo nel solco del marxismo-leninismo, sviluppandolo creativamente nelle condizioni storicamente date;
Stalin è in primo luogo un teorico e un pratico della rivoluzione proletaria, il cui contributo all’emancipazione dell’umanità oppressa è estremamente attuale.
Stalin e la teoria della rivoluzione proletaria
Nella sua analisi del processo che condusse alla Rivoluzione d’Ottobre, nel corso “Fondamenti del Leninismo”, Stalin parte dalle tre fondamentali contraddizioni che caratterizzano quel periodo:
la contraddizione tra capitale e lavoro che, in condizioni di imperialismo e onnipotenza dei monopoli, del capitale finanziario e delle banche, rivela l’inadeguatezza dei metodi tradizionali di lotta del proletariato (lotta sindacale, mutuo soccorso e cooperativizzazione, lotta parlamentare), ponendolo di fronte all’alternativa secca di piegarsi e soccombere oppure di imboccare la strada della rivoluzione;
la contraddizione tra le diverse borghesie imperialiste e i diversi raggruppamenti del capitale finanziario, in lotta tra loro per la spartizione delle risorse e dei mercati di sbocco, che conduce ad un’asperrima competizione ed anche alla guerra, indebolendo, però, in questo modo il fronte imperialista e creando contemporaneamente condizioni favorevoli alla rivoluzione proletaria;
la contraddizione tra un pugno di paesi avanzati e le centinaia di milioni delle popolazioni coloniali e dipendenti, trasformate in una potenziale riserva della rivoluzione proletaria dall’imposizione imperialista di elementi di capitalismo.
Queste condizioni, che resero ineluttabile la Rivoluzione in Russia, come punto di congiunzione delle contraddizioni oggettive dell’imperialismo e di situazioni soggettive e peculiari del proletariato russo, si ritrovano, se si vogliono riconoscere, si possono cogliere ancora oggi nella realtà del mondo attuale, identiche nella sostanza anche se parzialmente mutate nelle forme. Se negli anni ’40 del XIX secolo il baricentro della tensione rivoluzionaria si colloca in Germania, negli anni ’70 dello stesso secolo si sposta in Francia e all’inizio del XX secolo si colloca in Russia, si tratta oggi di individuare in quale parte del mondo, addirittura in quale paese concretamente, sussistano le condizioni, oggettive e soggettive, più favorevoli e vicine alla rivoluzione proletaria. Certamente, viviamo oggi in un mondo policentrico, dove i centri imperialistici in competizione tra loro sono indubbiamente più numerosi e articolati che in passato. Pensiamo al fatto che, oltre alle tradizionali metropoli imperialiste, gli USA, l’Europa, il Giappone, si sono affacciate alla ribalta della concorrenza globale interimperialista nuove realtà, quelle che usiamo sintetizzare nell’acronimo BRICS. Alla luce di queste novità, ci sembra di poter affermare che oggi sia senza dubbio in atto un processo rivoluzionario, sia pure non ancora compiutamente socialista al di là delle dichiarazioni d’intenti, nel continente latinoamericano, con intensità e compiutezza diverse da paese a paese, mentre nel nostro continente troviamo la situazione più avanzata sul piano rivoluzionario nell’Europa del Sud e, particolarmente, in Grecia. In sintesi, ci troviamo in presenza di più baricentri rivoluzionari rispetto al passato, a causa della maggiore articolazione policentrica dell’imperialismo, senza che siano sostanzialmente mutate le contraddizioni di fondo, ben individuate da Stalin, che determinano l’insorgenza dei processi rivoluzionari.
Tra Marx e Lenin giace tutto il periodo “paludoso” di una II Internazionale dominata dall’opportunismo dei partiti e dei dirigenti “…non si parla qui del dominio formale dell’opportunismo, ma del suo dominio di fatto. Formalmente, alla testa della II Internazionale erano collocati marxisti “fedeli”, “ortodossi”, come Kautsky e gli altri.”. E ancora: “Gli opportunisti si adeguavano alla borghesia in forza della loro natura compromissoria e piccolo-borghese, mentre gli “ortodossi”, a loro volta , si adeguavano agli opportunisti in nome del “mantenimento dell’unità”, …. “della pace nel partito”.” (J.V. Stalin, Fondamenti del Leninismo). Oggi ci separano da Stalin 60 anni di storia, caratterizzati dal processo di degenerazione revisionista di molti partiti comunisti e operai, avviato nel 1956 da Khruschev con il XX Congresso del PCUS e culminato con la dissoluzione di molti di essi o, perlomeno, con il loro definitivo snaturamento genetico.
Stalin, efficacemente, stigmatizza così quella condotta politica: “In luogo di una teoria rivoluzionaria compiuta, posizioni teoriche contraddittorie e mozziconi di teoria, staccate dalla viva lotta rivoluzionaria delle masse e trasformate in dogmi decrepiti. Esteriormente, certo, ricordavano la teoria di Marx, ma solo per espurgarne la viva anima rivoluzionaria. In luogo di una politica rivoluzionaria, un fiacco filisteismo e un lucido politicantismo, diplomazia parlamentare e imbrogli parlamentari. Esteriormente, certo, si adottavano risoluzioni e slogan “rivoluzionari”, ma solo per metterle nell’armadio. In luogo di educare e istruire il partito ad una giusta tattica rivoluzionaria partendo dai propri errori, un attento aggiramento delle questioni più stringenti, offuscandole e addolcendole. Esteriormente, certo, non rifiutavano di parlare delle note dolenti, ma solo per chiudere la questione con una qualche risoluzione di “caucciù”.” (J.V. Stalin, Fondamenti del Leninismo). Il parallelismo con il processo degenerativo di quei partiti comunisti che, nel solco del revisionismo khruscheviano, avrebbero poi fondato la teoria dell’eurocomunismo è evidente, ma è altrettanto palese l’analogia con il ventennale tentativo di “rifondare” una presenza comunista organizzata in Italia. Non sono forse riferibili, con la stessa tagliente efficacia, le parole di Stalin sulla II Internazionale al bertinottismo e alla rapidissima degenerazione di Prc e Pdci, alla continua rincorsa di alleanze elettorali con i partiti borghesi del centrosinistra in nome di un’assolutizzazione e sopravvalutazione della presenza parlamentare a tutti i costi, perdendo a poco a poco sia il contatto con le masse, che l’obbiettivo della rivoluzione, che, alla fine, anche il senso della realtà?
Di fronte a questa constatazione, Stalin ci richiama, in modo vivo e fecondo, all’applicazione del metodo leninista, a riconsiderare in modo critico la nostra storia, a “gettare via tutto ciò che è arrugginito e decrepito e forgiare nuovi tipi di armi”, senza le quali il proletariato rischierebbe di affrontare la guerra contro il capitalismo in modo inadeguato o addirittura disarmato.
In cosa consiste, secondo Stalin, il metodo leninista di affrontare la questione dell’adeguamento dell’arsenale proletario?
In primo luogo, nella verifica, sotto la lente della lotta rivoluzionaria, di categorie, analisi, concetti assunti come scontati e largamente affermatisi nel pensiero politico corrente dell’opportunismo di sinistra, ossificati in veri e propri intoccabili dogmi teorici (pensiamo, ad esempio, ad affermazioni, quali “la progressiva scomparsa della classe operaia”, il riferimento rituale ad una Costituzione disattesa che non opera più, la limitazione delle forme di lotta proletaria al solo campo istituzionale con la presunta e non dimostrata “impossibilità nelle condizioni attuali” di praticare altre forme di lotta non parlamentare, la distorsione opportunistica del concetto di maggioranza e a tutti gli altri veri e propri luoghi comuni in voga nella cosiddetta “sinistra”), restituendo al Partito Comunista un’autentica teoria rivoluzionaria e ristabilendo l’unità tra teoria e prassi.
In secondo luogo, nella valutazione della politica dei partiti non sulla base di slogan e proclami, ma sulla base della loro azione reale.
In terzo luogo, nel reindirizzamento di tutto il lavoro di partito verso l’attività di educazione delle masse alla vera lotta rivoluzionaria.
In quarto luogo, nell’esercizio dell’autocritica, per trarre il massimo insegnamento possibile dagli errori commessi ed educare così in modo efficace i quadri e i dirigenti del Partito proletario.
In sostanza, Stalin ci ricorda che la teoria rivoluzionaria non è un dogma, ma si sviluppa solo in stretto contatto con la reale prassi rivoluzionaria, al servizio della quale si deve porre.
Cosa intende Stalin con il termine “teoria”? Per Stalin, la teoria è “l’esperienza del movimento operaio di tutti i paesi, presa nel suo aspetto generale”. Da autentico leninista, Stalin sottolinea come la teoria slegata dalla lotta rivoluzionaria concreta diventi “priva d’oggetto”, così come la prassi “diventa cieca, se la sua strada non è illuminata dalla teoria rivoluzionaria”. La teoria ci aiuta a capire non solo ciò che avviene in un dato momento, ma anche ciò che avverrà successivamente, date certe condizioni. Per questa ragione il nostro Partito, nella modestia della sua influenza attuale, insiste con forza sul rigore e la saldezza della teoria e sul suo legame inscindibile con la pratica della rivoluzione.
Per questa stessa ragione, Stalin – e noi con lui – è un irriducibile avversario della “teoria della spontaneità”, oggi riproposta dal bertinottismo e dai suoi epigoni nella cosiddetta “sinistra radicale” sotto forma di “teoria dei movimenti”. Teorizzare lo spontaneismo, il movimentismo, significa negare il ruolo d’avanguardia e di guida del Partito alla testa delle masse, permettendo che queste si indirizzino verso rivendicazioni compatibili con il capitalismo, realizzabili al suo interno, lungo una “linea di minor resistenza” anziché verso la rottura rivoluzionaria scientificamente pianificata. Secondo costoro, il Partito dovrebbe semplicemente accodarsi al movimento anziché svilupparne la coscienza. Questa “ideologia del “codismo” è la base logica di qualsiasi opportunismo”.
Di estrema attualità, quasi profetica, è la considerazione “staliniana” della teoria della rivoluzione proletaria in Lenin.
Stalin individua nelle già citate contraddizioni dell’imperialismo che portano alla prima rivoluzione proletaria della storia, tre aspetti che possono essere generalizzati:
il dominio del capitale finanziario, l’esportazione del capitale verso le sorgenti delle materie prime e l’acuirsi del carattere parassitario del capitalismo monopolistico spingono il proletariato alla rivoluzione come unica forma di salvezza; da qui una prima constatazione: si acutizza obbiettivamente la crisi rivoluzionaria sul fronte interno della metropoli imperialista;
l’esportazione del capitale verso i paesi coloniali e in via di sviluppo, la “trasformazione del capitalismo in un sistema planetario di schiavizzazione finanziaria” della stragrande maggioranza della popolazione della Terra da parte di un pugno di Paesi avanzati “trasformano le singole economie nazionali e i territori nazionali in anelli di un unica catena, chiamata economia mondiale”, accentuando la divisione del mondo in due campi: una minoranza di oppressori e sfruttatori e una enorme maggioranza di oppressi e sfruttati; da qui, una seconda considerazione: cresce l’insofferenza verso l’imperialismo e si acutizza la crisi rivoluzionaria anche sul fronte esterno alla metropoli imperialista;
la creazione di “sfere d’influenza” monopolistiche e lo sviluppo diseguale tra gli stessi paesi imperialisti conducono ad una lotta furiosa per la spartizione del mondo, delle risorse, dei mercati che porta alla guerra imperialista come unico modo per ristabilire gli equilibri; da qui, una terza conclusione: la lotta interimperialista apre un terzo fronte che, alla lunga, indebolisce l’imperialismo, rende inevitabile il ricorso alla guerra, così come diventa inevitabile la fusione della rivoluzione proletaria con la rivoluzione anticoloniale in un unico fronte antimperialista.
Di fronte a queste considerazioni, tutt’oggi ancora attuali, il vecchio approccio alla questione della rivoluzione proletaria, basato sulla valutazione delle condizioni economiche e politiche di ciascun paese singolarmente preso, non è più sufficiente, ma deve essere sostituito da un approccio che tenga in considerazione le condizioni economiche e politiche del mondo nel suo complesso, cioè “globali”, come si usa dire oggi, proprio perché i singoli paesi hanno cessato di essere entità a sé stanti, ma sono diventati anelli di un’unica catena imperialista. “Adesso si deve parlare dell’esistenza delle condizioni obiettive per la rivoluzione in tutto il sistema dell’economia mondiale imperialista, come un tutto unico, inoltre la presenza nel corpo di questo sistema di alcuni paesi insufficientemente sviluppati sul piano industriale non può servire da impedimento insormontabile alla rivoluzione, se – o, per meglio dire -, poiché il sistema nel suo complesso è già maturo per la rivoluzione.”. Se prima si parlava di rivoluzione proletaria come fenomeno a sé stante, contrapposto al capitale nazionale e come risultato del solo sviluppo interno di un dato paese, oggi si deve parlare di rivoluzione proletaria mondiale in contrapposizione al fronte mondiale dell’imperialismo e come risultato della maturazione delle contraddizioni del sistema mondiale dell’imperialismo.
Questa convinzione staliniana non concede nulla all’opportunismo trotzkista e nulla ha in comune con esso. Per Trotzki la rivoluzione mondiale si deve sviluppare simultaneamente in tutti i paesi, altrimenti non può avere un carattere socialista, ma parziale, nell’ambito del quale prevarrebbe comunque il capitalismo. Secondo Lenin e Stalin, invece, considerando il diverso grado di sviluppo dei diversi paesi, quindi il grado non uniforme della maturazione delle contraddizioni, la rivoluzione mondiale può realizzarsi e crescere anche solo in un paese singolarmente dato e questo, spezzando comunque il fronte imperialista, lo indebolisce, favorendo così i processi rivoluzionari nel resto del mondo. Mentre per i trotzkisti la rivoluzione mondiale, l’attesa messianica di un evento che dovrebbe presupporre il pieno e uniforme sviluppo del capitalismo in tutti i paesi, è in realtà il pretesto opportunistico per non fare nulla, per i marxisti-leninisti la rivoluzione mondiale è lo sbocco pratico e concreto dell’analisi scientifica del capitalismo in fase imperialista, a cui ogni partito effettivamente comunista lavora attivamente nelle differenti condizioni storiche, politiche, economiche e culturali date in ciascun paese.
Poiché, quindi, la rivoluzione proletaria non avviene simultaneamente per uguale grado di maturazione delle contraddizioni interne all’imperialismo, potrà avere luogo e affermarsi vittoriosamente non tanto dove il “capitalismo è più sviluppato”, oppure dove “il proletariato rappresenta la maggioranza della popolazione”, ma piuttosto là, dove l’imperialismo è oggettivamente più debole.
L’opportunismo, volutamente, non coglie questo aspetto “globale” dell’imperialismo, nel quale i dati statistici della composizione di classe in un singolo paese cessano di avere un significato assoluto ai fini della rivoluzione, così come non comprende l’assoluta infondatezza della “teoria della gradualità”. In una concezione meccanicista e non dialettica, l’opportunismo si inventa una linearità di passaggi e di fasi storiche che in realtà non è mai esistita. La rivoluzione socialista, di conseguenza, non sarebbe possibile prima che il capitalismo si sia completamente sviluppato, abbia superato definitivamente tutti i residui di rapporti sociali preesistenti e che il proletariato abbia raggiunto le caratteristiche soggettive, qualitative e quantitative e accumulato gli strumenti, materiali e culturali, per affrontare un’ipotetica battaglia finale.
D’altro canto, vediamo che oggi il capitalismo in fase imperialista tende invece a riesumare elementi propri di formazioni economico-sociali precedenti e a fondersi con esse. Pensiamo alle diffuse situazioni di moderno schiavismo, ad esempio; mentre il capitalismo “fiorente” vende la forza-lavoro degli individui, il capitalismo “morente” vende anche la persona umana tout court, facendo coesistere lavoro salariato e lavoro dei nuovi schiavi. In forza di ciò, la lotta ai residui di feudalesimo e ai rigurgiti di schiavitù non può che tradursi in una lotta contro l’imperialismo.
Infatti, Lenin prima e Stalin dopo, sulla base della concreta esperienza rivoluzionaria, ci insegnano in modo quanto mai attuale che la rivoluzione democratico-borghese può e deve saldarsi con la rivoluzione proletaria, trasformandosi in quest’ultima.
Non vi è quindi gradualità nella rivoluzione proletaria: il carattere della rivoluzione proletaria è comunque socialista, al di là del grado di sviluppo economico e politico del paese in cui avviene, senza tappe intermedie democratico-borghesi. O il proletariato assume nelle proprie mani la totalità del potere, spazzando via la vecchia classe dominante, oppure questa conserverà il suo potere e costringerà il proletariato ad arretrare: storicamente, non esistono vie di mezzo! Prendendo il potere, il proletariato porta a compimento la rivoluzione democratico-borghese, trasformandola nel suo superamento, la rivoluzione proletaria e socialista. Questa è la corretta concezione della “rivoluzione permanente” che da Marx, attraverso Lenin e Stalin, giunge, viva e vitale, fino a noi.
Stalin, interpretando e sviluppando correttamente la teoria leninista della rivoluzione proletaria, ci insegna che, se la rivoluzione in un singolo paese è possibile e addirittura necessaria, se la trasformazione della rivoluzione democratico-borghese in rivoluzione proletaria è doverosa, devono però sussistere alcune condizioni oggettive imprescindibili perché la rivoluzione possa affermarsi con successo.
In primo luogo, non è sufficiente che le masse prendano coscienza dell’impossibilità di continuare a vivere come prima ed esigano il cambiamento; occorre anche che la vecchia classe dominante non possa più vivere e governare come prima. In altre parole, “la rivoluzione è impossibile in mancanza di una crisi generale che riguardi sia gli sfruttati che gli sfruttatori.”.
In secondo luogo, è necessario che la rivoluzione si affermi con successo in almeno alcuni paesi, come Lenin sintetizzava con queste poche parole: il compito della rivoluzione vittoriosa consiste nella realizzazione del “massimo possibile in un singolo paese per lo sviluppo, il sostegno, il risveglio della rivoluzione in tutti i paesi” (V.I. Lenin, Polnoie Sobranie Sochinenii, vol. XXIII, pag. 385).
Stalin e lo stato.
“La questione del potere è la questione fondamentale di ogni rivoluzione”, insegnava Lenin. La presa del potere è, per Stalin, solo l’inizio, dopo il quale occorre mantenere, rafforzare e rendere irreversibile il potere conquistato. Poiché la borghesia, rovesciata in un singolo paese, resta ancora per lungo tempo, a causa di svariati fattori, più forte del proletariato che ne ha abbattuto il dominio, la rivoluzione deve dotarsi dello strumento della dittatura proletaria come sua base fondamentale per perseguire fin dall’inizio tre obiettivi principali:
schiacciare la resistenza della borghesia e qualsiasi suo tentativo di riprendere il potere;
organizzare la costruzione del socialismo, riunendo intorno al proletariato le masse lavoratrici per guidarle verso la liquidazione di tutte le classi;
armare la rivoluzione, per prepararla alla lotta e alla difesa contro l’imperialismo.
Nel lungo periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, la borghesia immancabilmente continua a coltivare la speranza di restaurare il proprio potere, speranza che quasi sempre si trasforma in tentativo di restaurazione. Inoltre, tra il proletariato e la borghesia, si colloca una larghissima e articolata massa di piccola borghesia, oscillante e indecisa, che oggi può appoggiare il proletariato, ma domani, alle prime difficoltà, può gettarsi nuovamente nelle braccia dell’avversario di classe.
La borghesia, dopo il suo rovesciamento in un singolo paese, resta comunque e a lungo più forte del proletariato. La sua perdurante forza si basa sulla potenza del capitale internazionale e sulla solidità dei legami con esso; sul perdurare di una serie di vantaggi di fatto, dalla disponibilità di denaro, che la rivoluzione non può immediatamente abolire, alla maggiore esperienza in politica, nell’organizzazione della produzione e, soprattutto, nell’ambito militare; infine, sulla diffusione della piccola produzione, che genera il capitalismo in modo selvaggio e in una dimensione di massa; se è abbastanza facile per il proletariato eliminare i capitalisti, non è così semplice annientare i piccoli produttori, con i quali, invece, occorrerà convivere per un lungo periodo, trasformandoli e rieducandoli a poco a poco con un lento e attento lavoro organizzativo.
La dittatura proletaria è quindi “la più impietosa guerra della nuova classe contro un nemico più potente, contro la borghesia, la cui resistenza è decuplicata dal suo rovesciamento”, “la lotta ferma, sanguinosa e incruenta, violenta e pacifica, militare e economica, educativa e amministrativa contro le forze e le tradizioni della vecchia società” (V.I. Lenin, Polnoie Sobranie Sochinenii, vol. XXV, pagg. 173 e 190).
La dittatura proletaria, così concepita, non è per Stalin un periodo di breve durata, ma un’intera epoca, quella della transizione dal capitalismo al comunismo, durante il quale non solo si devono creare le condizioni economiche e culturali per la piena affermazione del socialismo, ma si deve anche educare il proletariato ad essere in grado di dirigere il paese e rieducare la massa piccolo-borghese, orientandola a favore del proletariato e in funzione dello sviluppo della produzione socialista. La dittatura proletaria è quindi anche lo strumento con cui vengono rieducati milioni di contadini, di piccoli proprietari, di impiegati, di funzionari, di intellettuali; è lo strumento con cui si rieducano anche i proletari, liberandoli dai pregiudizi e dalle incrostazioni piccolo-borghesi.
La dittatura proletaria è il dominio del proletariato sulla borghesia. Gli opportunisti confondono artatamente la “presa del potere” con la “formazione del governo”, ma quest’ultima rappresenta soltanto un cambio di gabinetto che lascia immutato il vecchio ordinamento economico e politico, servendo piuttosto da “maschera di bellezza” della borghesia, che rimane padrona della situazione. Lo abbiamo visto in Italia, con i governi di centro-sinistra, in Spagna e in Francia con i governi Zapatero e Hollande, in Grecia con i governi guidati dal PASOK, in Germania con quelli socialdemocratici, in Gran Bretagna con i laburisti: in nessun caso vi è stato un avanzamento verso il potere proletario, anzi la borghesia si è abilmente servita di questi governi per colpire sempre più duramente il proletariato e i lavoratori.
Stalin ci insegna che “la dittatura proletaria non è un cambio di governo, ma è un nuovo stato, con nuovi organi di potere, nel centro e nelle periferie, è lo stato del proletariato che è sorto dalle rovine del vecchio stato borghese”. Essa non nasce nell’ordinamento borghese, ma nel corso della sua rottura dopo il rovesciamento della borghesia, nel corso delle espropriazioni dei capitalisti, nel corso della socializzazione dei mezzi di produzione, nel corso, insomma, della rivoluzione proletaria violenta.
Lo stato è sempre e ovunque lo strumento con cui una classe domina sulle altre. In questo senso, lo stato proletario non fa eccezione. Stalin sottolinea, però, una differenza sostanziale tra lo stato proletario e gli altri stati. Tutti gli stati storicamente esistiti si sono caratterizzati come dittature di una minoranza di sfruttatori contro una larghissima maggioranza di sfruttati. La dittatura proletaria ribalta questo aspetto, in quanto dittatura della maggioranza di sfruttati su una minoranza di sfruttatori. Stalin definisce la dittatura proletaria come “il dominio, non limitato dalla legge e basato sulla violenza, del proletariato sulla borghesia, con la comprensione e il sostegno dei lavoratori e delle masse sfruttate”.
Da qui, Stalin trae due considerazioni:
non esiste la “democrazia pura”, buona per tutti, poveri e ricchi, in quanto qualsiasi democrazia ha sempre un connotato di classe; la dittatura proletaria è quindi uno stato democratico in modo nuovo, per il proletariato e i suoi alleati e dittatoriale in modo nuovo, contro la borghesia; nel capitalismo la democrazia è democrazia capitalistica, funzionale alla minoranza di sfruttatori e limitante i diritti della maggioranza di sfruttati, mentre nella dittatura proletaria la democrazia è democrazia proletaria, che è funzionale alla maggioranza di sfruttati, si basa sulla limitazione dei diritti della minoranza di sfruttatori ed è diretta contro di essa;
la dittatura proletaria non può affermarsi come risultato dello sviluppo pacifico della società borghese, ma solo come conseguenza della rottura della macchina statuale borghese, dell’esercito borghese, dell’apparato dei funzionari pubblici borghese, della polizia borghese; ciò significa che la rivoluzione proletaria non attua un semplice passaggio in altre mani della macchina burocratico-militare dello stato, ma ne attua la distruzione violenta come precondizione della rivoluzione stessa, sostituendola con una macchina statuale di tipo nuovo.
Il potere sovietico (cioè consigliare) è la forma statuale della dittatura del proletariato, l’assetto organizzativo in grado di distruggere la macchina statuale borghese, di sostituirla con una nuova, di schiacciare la resistenza della borghesia, di sostituire la democrazia borghese con la democrazia proletaria. I Consigli hanno la forza per realizzare questo enorme lavoro.
Questa forza, secondo Stalin, deriva dal fatto che:
i Consigli sono le organizzazioni proletarie di massa più onnicomprensive, in quanto abbracciano tutta la classe operaia nella sua interezza;
i Consigli sono le uniche organizzazioni di massa che riuniscono gli strati popolari alleati del proletariato e, pertanto, facilitano all’avanguardia il compito di direzione politica, rendendola più efficace;
i Consigli sono gli organi più potenti della lotta rivoluzionaria, in grado di spezzare l’onnipotenza del capitale finanziario;
i Consigli sono organizzazioni dirette delle masse stesse, quindi sono gli organi più democratici e più autorevoli nella costruzione e nella direzione del nuovo stato.
Il potere consigliare (sovietico) consiste nell’unificazione e formalizzazione dei Consigli locali in un’unica organizzazione statuale del proletariato come classe dominante e come avanguardia degli oppressi e degli sfruttati.
I Consigli, inoltre, assommano in sé sia il potere legislativo che quello esecutivo e sono eletti non su base territoriale, ma su base delle unità produttive. Questo fatto consente di attuare un legame diretto tra la classe operaia e i suoi alleati e l’apparato statuale di direzione del paese. Realizzando la continua, stabile e incondizionata partecipazione delle organizzazioni di massa dei lavoratori alla direzione dello stato, il potere consigliare prepara le condizioni per l’estinzione dello stato stesso nella società comunista.
Dopo la teoria della rivoluzione ed il concetto di stato vorremmo riportare la discussione sul terreno della costruzione del Partito Comunista in Italia ma esuleremmo dai confini di questo convegno unitario, di cui siamo fieri di esser tra gli organizzatori.
Su questo tema diamo appuntamento a tutti i compagni interessati all’Incontro Internazionalista che si terrà a Roma Sabato 6 Aprile alle ore 14.30 presso la Sala di Via Casilina 5 con la partecipazione dei Partiti Comunisti di Grecia, Spagna, Francia, Russia, Ucraina, e Jugoslavia