Il Jobs Act è il progetto del governo Renzi di “riforma globale” del mercato del lavoro; si fonda sulla Legge 10/12/2014 n. 183, entrata in vigore il 16 dicembre successivo, che ha la seguente sottodicitura “recante deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e le politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”.
Il parlamento ha votato una legge cornice, in cui sono esposte solo le linee guida del progetto complessivo, delegando al governo il compito di riempirla di contenuti concreti.
Perciò entro 6 mesi dalla sua approvazione si devono varare 6 decreti attuativi delle deleghe in essa contenute; ogni decreto, prima di entrare in vigore, è discusso dalle commissioni lavoro di Camera e Senato, che hanno 30 giorni per presentare osservazioni non vincolanti per il governo.
La legge delega 10/12/2014 n. 183 consta di un unico articolo e 15 commi.
La delega consente al governo di varare già il 24/12/2014 i primi due decreti attuativi: sugli ammortizzatori sociali e sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che il 13 gennaio 2015 vengono trasmessi alle commissioni lavoro, che li reinviano al governo il 12 febbraio.
Il governo Renzi, il 20 febbraio 2015, ignorando sostanzialmente le osservazioni delle commissioni lavoro richiedenti soprattutto il ritiro della cancellazione della reintegra per i licenziamenti collettivi, vara definitivamente i decreti sui contratti a tutele crescenti e sui nuovi ammortizzatori sociali, in vigore dal 1° marzo 2015, e presenta il testo dello schema di altri due decreti: sulle tipologie contrattuali e sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Renzi, dopo aver cancellato l’Irap (5,7 miliardi fino al 2017) sul costo del lavoro e regalato agli imprenditori la decontribuzione previdenziale (5 miliardi fino al 2017) per i primi tre anni di contratto dei nuovi assunti, garantisce ai padroni mano libera sui licenziamenti.
Infatti con il contrattto a tutele crescenti non c’è nessuna tutela, in realtà si tratta di un contratto a tempo indeterminato in cui sei licenziabile sempre, pure dopo tre anni dall’assunzione.
Alla fine del triennio non c’è stabilizzazione, né giusta causa, ricattabile eri all’inizio, ricattabile continui ad essere ora.
Il governo è lo stesso che, appena insediato, con il decreto Poletti, DL 20/03/2014 n. 34 convertito nella Legge 16/05/2014 n. 78, ha consegnato alla discrezionalità padronale la gestione dei contratti a tempo determinato, che da allora non hanno più obbligo di motivazione e si reiterano fino a 5 volte nell’arco di tre anni senza trasformarsi a tempo indeterminato.
Quindi massima estensione dei contratti a tempo determinato sinonimo di precarietà eterna ed ora istituzione di contratti a tempo indeterminato con licenziamenti iper facilitati.
Da una lettura complessiva del decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tutele crescenti, in attuazione della Legge 10/12/ 2014 n. 183, che consta di 12 articoli, emerge netta la cancellazione definitiva dell’art. 18.
Né basta lo zuccherino dell’art. 2 che mantiene la reintegrazione nel posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori ed intimati in forma orale. Tali garanzie però, ancor prima del varo dell’art 18 Legge 20/05/1970 n. 300 (Statuto dei Lavoratori), sono state previste dalla Legge 15/07/1966 n. 604, nonché da codice civile, costituzione e varie convenzioni internazionali.
Ma nessun datore di lavoro licenzierà i propri dipendenti adducendo per iscritto motivazioni politiche, sindacali, sessuali, religiose, oppure solo con una comunicazione orale.
Già Fornero, ministra del Lavoro del governo Monti, con la Legge 92/2012 ha arrecato un duro colpo all’art.18, eliminando quasi del tutto la reintegra per i licenziamenti economici (tranne che per i casi di manifesta insussistenza); mentre per i licenziamenti disciplinari ha lasciato ancora al giudice, per pochi casi, una certa libertà di scelta tra reintegra e risarcimento.
Adesso la reintegra è consentita, per i licenziamenti disciplinari, esclusivamente quando “sia
direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (art. 3 Dlgs Jobs Act). Altrimenti c’è solo l’indennizzo monetario, crescente con l’anzianità lavorativa.
Si riconosce che il licenziamento è illegittimo, che non c’è assolutamente proporzione tra l’eventuale infrazione e il conseguente licenziamento, che si è compiuta una palese ingiustizia, ma che a questa ingiustizia non si può porre rimedio.
Resta lo scandalo dell’odiosa esclusione dalla possibilità della reintegrazione del licenziamento per il superamento del comporto (periodo massimo consentito di malattia).
Ricapitolando: niente reintegra per i licenziamenti disciplinari – se non quando è provata l’insussistenza del fatto materiale contestato (onere che tocca al lavoratore, mentre in precedenza spettava al datore di lavoro dimostrare il contrario) – niente reintegra per i licenziamenti economici sia individuali che collettivi.
Questa novità tirata fuori da Renzi all’ultimo minuto (cfr. le ultime due righe dell’art. 10) ha sollevato le obiezioni delle commissioni lavoro, rimaste però inascoltate.
I sindacati sono penalizzati dai licenziamenti collettivi (almeno 5 effettuati dall’azienda nell’arco di 120 giorni) equiparati a quelli individuali, ma ancor più lo sono i lavoratori, privati di garanzie e criteri obiettivi stabiliti dalla Legge 223/’91 (anzianità, carichi di famiglia, Legge 104,…) con cui limitare i danni nelle vertenze contro i processi di ristrutturazione.
Con il Jobs Act i padroni, violando la L. 223/’91, invece della reintegra, pagheranno un indennizzo da 2 a 12 mensilità.
La monetizzazione crescente caratterizza il Jobs Act; i padroni ci guadagnano doppiamente, con il controllo totale sulla forza lavoro e per i risarcimenti per i “neoassunti/futuri licenziati” inferiori ai finanziamenti erogati dal governo (taglio dell’Irap e decontribuzione triennale).
Per i licenziamenti economici (individuali e collettivi) e disciplinari (tranne che per insussistenza materiale del fatto) riconosciuti illegittimi, gli indennizzi sono pari a 2 mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità (nella Legge Fornero 92/2012 l’indennizzo era da 12 a 24 mensilità); per il licenziamento, dopo un anno dall’assunzione, di un lavoratore con uno stipendio lordo annuo di 25.000 euro, il datore di lavoro versa un indennizzo (4 mensilità) di 7.692 euro più un ticket licenziamento di 490 euro per un totale di 8.182 euro, ma intanto lo stato gli ha elargito 7.823 euro di sgravi contributivi e 1.278 euro di taglio Irap per complessivi 9.101 euro, con un risparmio totale di 919 euro.
Le piccole imprese (fino a 15 dipendenti) versano un indennizzo, a seconda dell’anzianità, da 2 a 6 mensilità (in precedenza era da 2 1/2 a 6 mensilità).
Per i licenziamenti viziati da errori formali l’indennizzo è pari ad una mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da 2 ad un massimo di 12 (in precedenza era da 6 a 12 mensilità).
Cambia anche la conciliazione, prima obbligatoria e precedente il licenziamento, si svolgeva soltanto presso la DPL (Direzione Provinciale del Lavoro) per cercare un accordo tra le parti e talora riusciva ad evitare il licenziamento; ora è facoltativa, si svolge in varie sedi (DPL, sedi sindacali, enti bilaterali,…), a licenziamento già partito, per trovare un accordo extragiudiziario sull’indennizzo nella misura di una mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da 2 a massimo 18 mensilità, le somme pagate dal datore di lavoro sono esenti da tasse e contributi.
I dipendenti di partiti e sindacati, che precedentemente non usufruivano dell’art. 18, ora invece godranno dei “benefici” del contratto a tutele crescenti.
E, paradosso dei paradossi, il contratto a tutele crescenti non si applica ai dirigenti, pur se assunti dopo il 1° marzo 2015, che continueranno a godere della tutela reale dell’art. 18 (commi 1-2-3).
E’ la terza “riforma” del mercato del lavoro in 4 anni, dopo il cosiddetto Collegato Lavoro (Legge 04/11/2010 n. 183) e la Legge 28/06/2012 n. 92; con il Jobs Act si chiude il percorso di azzeramento dell’art. 18, con la cancellazione giuridica, politica e fattuale del concetto di giusta causa necessaria per procedere ai licenziamenti.
Il contratto “a tutele crescenti” vale solo per gli/le assunti/e dopo il 1° marzo 2015.
Mentre gli/le assunti/e in precedenza restano tutelati/e dalla vecchia normativa con l’art. 18, già depotenziato dalla legge 92/2012.
Nessuno però vieta a Renzi e al suo Governo di presentare in futuro nuove modifiche legislative per estendere la nuova norma anche ai vecchi assunti.
In caso di passaggio d’appalto, trattandosi di nuove assunzioni, si applica il contratto a tutele crescenti e lo stesso vale per la cesssione di ramo d’azienda; la sua applicazione si estende anche alle aziende che ora non superano i 15 dipendenti: se procedono ad assunzioni con cui superano tale soglia, alla totalità dei dipendenti si applica la nuova norma; infine tutti i contratti a termine trasformati a tempo indeterminato ricadono sotto la nuova normativa.
Nel Pubblico impiego, invece, l’applicazione del Jobs Act verrà discussa nell’ambito delle Riforma Parlamentare della Pubblica Amministrazione (cfr. art. 13, che contempla il completo esercizio dei provvedimenti disciplinari).
Il decreto sugli ammortizzatori sociali consta di 19 articoli.
L’obiettivo dichiarato nella Legge delega è limitare l’accesso alla cassintegrazione ordinaria, consentito solo dopo aver esperito tutte le possibilità di riduzione di orario e di personale, e rendere impossibile la cassintegrazione straordinaria in caso di cessazione definitiva dell’attività aziendale o di un ramo di essa, mentre per la cassintegrazione in deroga, per il 2015 già ridotta nella sua durata da 11 a 5 mesi, è prevista la sua sparizione a fine 2016.
Il decreto vorrebbe, ma vanamente, tamponare situazioni di disperazione sociale, aggravate dalla abolizione, dal 2017, della mobilità (cfr. Legge 92/2012).
Nasce la NASpI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego): che sostituirà la precedente ASpI di Elsa Fornero.
La NASpI entrerà in vigore dal 1° maggio 2015, è un’indennità garantita, per un massimo di 2 anni, a chi rimane senza lavoro e ha accreditate nei 4 anni precedenti almeno 13 settimane di contribuzione e ha lavorato almeno 18 giorni nell’anno precedente la disoccupazione.
La NASpI è rapportata nella misura del 75% alla retribuzione media imponibile ai fini previdenziali degli ultimi 4 anni se l’importo mensile di questa non supera i 1.195 euro lordi; se l’importo è superiore, al 75% di 1.195 euro si aggiunge il 25% della differenza tra 1.195 e la retribuzione effettiva, ma non può superare i 1.300 euro lordi; dall’inizio del quarto mese di fruizione diminuisce del 3%; dallo 01/01/2017 la durata della prestazione si riduce ad un massimo di 18 mesi; la sua erogazione è subordinata alla regolare partecipazione dei beneficiari alle politiche attive proposte dai servizi per l’impiego (corsi di riqualificazione, etc…).
Va precisato che importo e durata reali della NASpI dipendono da quante settimane di lavoro siano state effettuate e quante di contribuzione siano accreditate al lavoratore nel quadriennio precedente la perdita dell’impiego.
Le promesse renziane ai giovani di reddito universale di cittadinanza, welfare inclusivo, si rivelano l’ennesimo bluff; in più la platea dei possibili “beneficiari“ è pari a circa 1.540.000 lavoratori”.
Esaurita la NASpI, per gli sfigati più poveri e irricollocabili, arriva l’AsDi (Assegno di Disoccupazione) per massimo 6 mesi e in misura pari al 75% dell’ultimo trattamento percepito con la NASpI, purchè non superi l’entità dell’assegno sociale; ma l’erogazione di tale elemosina è subordinata all’adesione del beneficiario alle iniziative predisposte dai servizi per l’impiego. L’AsDi è finanziata per 200 milioni nel 2015 e altri 200 per il 2016.
Per i Co.co.co. ed i Co.co.pro. è virtualmente già scattata dal 1° gennaio 2015 la Dis-Coll: sostituisce la vecchia una tantum per i Collaboratori con reddito annuo non superiore nel 2013 a 20.220 euro, con almeno 3 mesi di contributi accreditati nell’anno precedente; criteri ed importi sono uguali a quelli dell’indennità della NASpI, pur se la durata massima è di soli 6 mesi; la platea dei beneficiari è subordinata alle compatibilità finanziarie, non più di 75/80.000 rispetto ai 296.000 in possesso dei requisiti per usufruire del sussidio.
L’art. 11 istituisce il contratto di ricollocazione finanziato con 18 milioni di euro (+ altri 32) nel 2015 e 20 milioni per il 2016. Il lavoratore licenziato riceve dal Centro per l’impiego territoriale un voucher, che presenta ad un’agenzia per il lavoro pubblica o privata, con cui sottoscrive un contratto di ricollocazione consistente nell’aiuto alla ricerca di una nuova occupazione; il lavoratore non può rifiutare di frequentare corsi di riqualificazione e offerte di lavoro adeguate (non meglio specificate) pena perdita del voucher e rescissione del contratto di ricollocazione; si deve essere ipermobili e iperflessibili in completa balia dell’agenzia.
Per questi provvedimenti la copertura del 2015 è pari a 869 milioni (prelevati dai 2,2 miliardi
previsti dalla Legge di Stabilità che, per la restante parte, serviranno per cassintegrazione e mobilità in deroga), saliranno a 1,774 miliardi nel 2016, 1,902 nel 2017, 1,794 miliardi nel2018.
Lo schema di decreto attuativo sulle tipologie contrattuali consta di 55 articoli Renzi promette l’eliminazione della precarietà, in realtà il rischio è che siano eliminati i precari.
L’esordio del decreto è roboante: “Il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” (Art. 1).
Si ribadisce il contenuto della Legge Poletti, del 16/05/2014 n. 78, sul lavoro a termine. Anzi si offre la possibilità di deroghe non solo contrattate a livello nazionale e sopratttutto aziendale, ma anche, rispetto alla durata canonica di 36 mesi dei contratti a termine, un’ulteriore proroga di 12 mesi stipulata presso la Dtl e senza l’assistenza sindacale; cade poi l’obbligo d’impiego del lavoratore nella stessa mansione; ed il tetto del 20% di contratti a termine all’interno della singola azienda, anche se sforato, non comporterà obbligo di stabilizzazioni, ma soltanto una multa soft.
Il disboscamento delle tante forme di contratti precari è più annunciato che reale; scompaiono, con la possibilità di trasformarsi in contratti a tempo indeterminato, tipologie contrattuali scarsamente utilizzate come il lavoro a compartecipazione e, tra le collaborazioni, i contratti a progetto e con partita Iva dall’entrata in vigore del decreto (m quelli in corso arrivano a scadenza); mentre quelli coordinati e continuativi resi con modalità ripetitive, organizzati dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro spariscono dal 1° gennaio 2016; ma per i co.co.co. esistono numerose eccezioni: i rapporti di lavoro cui si applica l’aticolo 409 C.p,c., i contratti disciplinati da accordi collettivi, i contratti per cui è richiesta l’iscrizione ad albi professionali, quelli legati ad attività sportive, quelli inerenti ad amministratori, sindaci di società, partecipanti a collegi e commissioni, in tali casi restano nella situazione attuale.
Per il datore di lavoro che, nel lasso di tempo intercorrente tra l’approvazione del decreto ed il 31/12/2015, trasforma i rapporti di collaborazione in rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, c’è il guadagno che tutti i contenziosi pregressi, circa obblighi contributivi e assicurativi non ottemperati, vengono estinti, se s’impegna a non licenziare per un anno il lavoratore e questi rinuncia in sede di conciliazione a tutte le giuste precedenti pretese.
Permangono invece le tipologie di contratti precari e atipici più importanti: innanzitutto isopraddetti contratti a termine, rimangono il lavoro interinale, il lavoro intermittente, l’apprendistato, il lavoro accessorio a chiamata, il part-time (soprattutto quello involontario),.. che presentano numerosi cambiamenti spesso in peggio per i lavoratori.
Per il lavoro interinale viene cancellata la casistica di ammissibilità dello staff leasing e questo tipo di lavoratori non può superare il 10% dell’organico aziendale, viene eliminato per i lavoratori somministrati il diritto all’informazione sui posti vacanti in azienda, eliminato l’obbligo per l’utilizzatore di comunicare il trattamento economico da applicare al dipendente.
Per il part-time si introducono ulteriori liberalizzazioni circa il lavoro supplementare (consentito solo ai lavoratori in part-time orizzontale), viene eliminata nei contratti collettivi la previsione che si possano individuare le relative causali; il datore di lavoro potrà chiedere un incremento orario del 15%, mentre può richiedere prestazioni lavorative straordinarie ai lavoratori in regime part-time verticale o misto; nel caso in cui il lavoro part-time non sia regolato da contratti collettivi sono previste clausole elastiche contemplanti l’incremento dell’orario part-time annuo fino al 25%.
Per il lavoro accessorio il voucher annuo è elevato a 7.000 euro (attualmente 5.000), mentre resta il plafond di 2.000 euro per i singoli committenti.
C’è una riformulazione dell’apprendistato, sulle orme del modello tedesco.
L’apprendistato di primo livello si chiamerà per la qualifica, il diploma e la specializzazione; quello di secondo livello semplicemente professionalizzante, non avrà limiti di età e sarà accessibile solo a chi avrà un diploma di istruzione secondaria superiore.
A tutte le tipologie di apprendistato si applica la nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati, si specifica che il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi del contratto di apprendistato per qualifica, diploma e specializzazione costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Si conferma che l’inquadramento degli apprendisti può essere anche di due livelli inferiore rispetto alle mansioni svolte.
Per gli studemti del secondo anno degli istituti tecnici, professionali o cfp la formazione esterna all’azienda non deve superare il 60% dell’orario ordinamentale dell’istituzione scolastica e, componente formativa che cala al 50% per gli studenti frequentanti il terzo, quarto e quinto anno.
La novità è che il datore di lavoro è esonerato da ogni contribuzione per le ore di formazione svolte fuori dall’azienda, mentre al lavoratore viene corrisposta una retibuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta per le ore di formazione a carico del datore di lavoro.
Si introduce il demansionamento, vanificando l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori e riscrivendo interamente l’art. 2103 del Codice civile.
Con il decreto in vigore diverrà possibile unilateralmente da parte del datore di lavoro, in caso di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, inquadrare un lavoratore al livello inferiore rispetto alle mansioni per cui è stato assunto.
Finora non è possibile, se non contrattandolo con le organizzazioni sindacali e sostanzialmente in due casi: per garantire il posto di lavoro di fronte a una profonda crisi aziendale e per salvaguardare la salute del lavoratore.
Si vuole indorare la pillola, sostenendo che il salario rimane invariato, ma si è costretti ad ammettere che, nel nuovo inquadramento, il lavoratore non potrà mantenere le indennità afferenti al livello superiore, e, in una fase in cui le componenti variabili aumentano il loro peso rispetto alla paga base, la perdita salariale sarà visibile ed in diversi casi anche vistosa.
Nel contempo la mobilità verso l’alto viene procrastinata nel tempo. Finora se un lavoratore è impiegato in una mansione superiore, non solo percepisce la retribuzione corrispondente, ma automaticamente, dopo tre mesi continuativi, sale di livello e lo mantiene per il resto della sua vita lavorativa in azienda, mentre in futuro ci vorranno almeno sei mesi.
Siamo alla flessibilità totale e alla realizzazione del comando unilaterale d’azienda.
Per scrupolo ricordiamo che questo è uno schema di decreto, che ci saranno le osservazioni non vincolanti delle commissioni lavoro di Camera e Senato, ma ormai la rotta è tracciata.
Il Jobs Act viene presentato come l’ultima speranza per i giovani; si rischia invece una profonda fratttura intergenerazionale tra lavoratori, che può inibire percorsi e obiettivi di lotta comuni.
Eppure proviamoci ancora tutti/e insieme, donne-uomini, giovani-vecchi, stabili-precari-disoccupati; e coloro, che oggi godono delle residue garanzie delle vecchie norme, devono comprendere che :
-con la divisione sociale introdotta forzosamente nel mondo del lavoro, sarà più difficile costruire grandi mobilitazioni a difesa dei diritti necessitanti di grandi numeri e grande unità;
-non devono ritenersi garantiti dalla difesa legale, perchè le nuove norme peseranno sfavorevolmente sui vecchi diritti anche nelle aule giudiziarie;
-devono temere che il Jobs Act si possa estendere anche ai vecchi “garantiti”;
-possono, infine, perdere il lavoro ed allora, con un’eventuale nuova assunzione, ricadranno inevitabilmente sotto la nuova normativa.
CONFEDERAZIONE COBAS