Alla “Controbolognina” del 25 aprile sono intervenuti (in fondo gli interventi pervenuti in forma scritta):
Qui sotto i documenti degli interventi pervenuti in forma scritta( e che, in alcuni casi, a causa del prolugarsi dei lavori dell’Assemblea-Manifestazione
DEMOCRAZIA E JOBS ACT
Carla Filosa
Parlare oggi della deriva della democrazia significa anche continuare con altre forze l’enorme lavoro analitico effettuato da Salvatore D’Albergo, di cui siamo stati compagni e amici, e di cui ora sentiamo di essere responsabilmente tra gli eredi. La nostra rivista [la Contraddizione] ha ospitato negli anni vari suoi interventi di cui, nel penultimo numero 149 [in “”Tombeau”di d’Albergo”] uscito nel dicembre 2014, abbiamo ripubblicato, come ci ripromettemmo, scrivendolo sul no 148 [“No al buffone: Renzichi?”], di ripubblicare un’ampia sintesi di “Democrazia alla sbarra” scritto nel no.113 marzo 2006, e “Ipocrisia istituzionale” scritto nel no.115 del luglio dello stesso anno, prima e dopo il referendum costituzionale del 2006. Le argomentazioni e le “previsioni” interne a quell’analisi di 9 anni fa, sono oggi più reali che mai, e i pericoli involutivi denunciati allora si sono concretizzati nell’impianto generalmente “riformatore” oltre che in particolari forme di legge.
La centralità del lavoro, che il sistema di capitale cerca sempre di esorcizzare in vario modo, è stata per l’appunto immobilizzata nella prima legge messa a punto dal governo Renzi, con il doppio intendimento di rendere a) il lavoro continuamente ricattabile nella realtà, e b) questa priorità fondamento della governance sul piano ideologico e propagandistico. L’attacco alla democrazia, continuamente perpetrato dal cuore costituzionale fino alle istituzioni e alle leggi deneganti ogni partecipazione politica alle masse lavoratrici – di cui ampiamente d’Albergo ha sempre dato conto – ha individuato il suo obiettivo fondamentale proprio nell’incardinazione legalizzata alla subalternità senz’appello della forza-lavoro presente e futura, come crisi richiede.
Il “ritorno al 1924” – che D’Albergo ultimamente ha voluto richiamare – era riferito all’analogo attacco alle masse lavoratrici e ai sindacati, anche sul piano istituzionale, mediante lo scioglimento del parlamento e l’uso della legge-truffa, sulla falsariga di quella di G. Acerbo nel ‘23, vanamente ritentata poi nel ‘53. La situazione attuale, sull’ipotesi o minaccia di porre la fiducia sulla legge elettorale che legittimi una maggioranza parlamentare favorevole al “premierato”, fa riemergere stessi obiettivi e stessi arbitrî, anche se con mezzi e apparenze propagandistiche diverse. Il “primato del mercato sulla democrazia”, ripetutamente denunciato da d’Albergo sul piano della delegittimazione costituzionale, nelle forme del “doppio stato”(poteri occulti, servizi segreti, terrorismo, stragi, ecc…), come pure dei gruppi politici omologati agli interessi imprenditoriali e finanziari nazionali e transnazionali, è ultimamente approdato alla formulazione di legge denominata Jobs Act.
Il cosiddetto “cambiamento” riformista del governo Renzi, è l’ultimo risultato in ordine di tempo di controriforme antisociali per la centralizzazione del potere, e l’annullamento dell’autonomia di eventuali forme rappresentative delle masse lavoratrici anche in futuro. La svolta autoritaria, avallata dall’inconsistenza di una qualunque opposizione alla deriva mafiosa e liberista di governi succedutisi all’indomani dell’operazione mani pulite, approda oggi in un governo incaricato di concludere la piena attuazione del Piano P2, sul definitivo sostanziale esautoramento di Parlamento e magistratura nella loro dipendenza dall’esecutivo. Premierato, presidenziale o neo-presidenziale, cancellierato o altro modello ancora in modo indifferente nell’eufemismo da trovare, le deviazioni attuate dal governo parlamentare per cancellare il principio di sovranità popolare – di costituzionale memoria – possono essere emblematicamente riassunte nella legge che stabilizza l’irretimento della forza-lavoro. Sinistramente sintomatico, poi, che a rivendicare un’astratta “sovranità” patriottica, svuotata di ogni contenuto sociale, sia invece la recentissima filiazione fascista di Casa Pound, nemmeno preoccupata con i saluti romani di mascherarsi alla stregua degli scalatori più scaltri del potere istituzionale, o di coloro che mai l’hanno abbandonato.
La predisposizione attuale della revisione della seconda parte della Costituzione è la diretta eredità del governo berlusconiano nella piena sottovalutazione dell’art. 138, che stabilisce la possibilità di revisione di leggi costituzionali soltanto ristretta a singole norme o singoli istituti, che non coinvolgano però l’intero quadro democratico espresso nel ‘48. Significativa l’analogia, poi, tra i ripetuti tentativi sui piani politici e istituzionali, di vanificazione della sovranità popolare (sin dal governo Prodi) mediante la sua sostituzione con i diritti fondamentali, civili, e quella riaffermata all’interno della legge di riforma del lavoro dove si è sanzionata la subalternità lavorativa, ammantata però di formali riguardi alla privacy, tutele, astratte e inoperanti provvidenze atte a “conciliare” vita e lavoro. Inutile dire che il Jobs Act è la ratifica legalizzata di una realtà lavorativa di partenza, pretesa da un contesto sovranazionale e confindustriale nostrano, di cui il governo “sinistro” si è fatto carico, sollevando così la destra da un possibile o probabile distruttivo dissenso elettorale e sociale, quale termine dell’“armonia prestabilita”, pace sociale, collaborazione o neocorporativismo da mantenere, di cui la personificazione Marchionne da tempo è paladina.
Questa la cornice di un Jobs Act, che perfino nella denominazione rivela la provenienza della velina internazionale da cui ha supinamente preso corpo. Non si ripeteranno in questa sede tutti i punti analizzati negli ultimi due numeri della nostra rivista (149, 150), cui eventualmente si rinvia, ma si preferisce evidenziare quanto finora risulta uno sviluppo emerso. Innanzitutto, la trovata anti-disoccupazione del contratto a tempo indeterminato sta mostrando il suo decorso parallelo a tutta la tipologia contrattuale precedente e rinnovata – come già previsto – a ulteriore frantumazione giuridica dei lavoratori, contrapposti ora anche tra nuove e vecchie assunzioni. Se le vecchie, infatti, godono di una residua monetizzazione al posto del reintegro previsto dall’articolo 18, sono però più esposte al rischio di licenziamento a causa di un appetibile ribasso salariale, da parte aziendale, possibile o proprio auspicabile con quelle nuove.
Il 23 aprile scorso quasi tutti i quotidiani hanno inneggiato all’efficace funzionamento della legge sul lavoro, sbandierando i 92.000 contratti in più rispetto a quelli cessati. A frenare gli entusiasmi però sono arrivati i moniti di Nomisma, secondo cui è prematuro parlare di spinta occupazionale, ma soprattutto i dati del Ministero del Lavoro e del Sole 24–ore, dai quali risulta che il saldo tra attivazione e cessazione dei contratti a gennaio era di 334.000 unità, a febbraio di 123.000, e a marzo di 92.000. Invece di una magica ripresa occupazionale, si deve perciò parlare della festa decontributiva regalata alle aziende da parte della legge. È stato calcolato che per ogni nuovo assunto a tempo indeterminato, entro il 2015, gli incentivi fiscali (eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap) e l’azzeramento dei contributi previdenziali per tre anni ammontano a un risparmio/guadagno di 8.060 euro l’anno per le aziende. Ulteriore chicca è stata offerta poi dalla Novartis, contraddistinta da un personale qualificatissimo e di esperienza, in grado di offrire ai propri dipendenti un articolo 18 riesumato, come benefit elargito al “valore” lavorativo degli individui. Non il valore e plusvalore materiale prodotto cioè, ma quello coesivo o “collaborativo”, di obbedienza alle esigenze dell’azienda, dimenticando ogni concetto “nostalgico”di unità di classe, di cui non s’ha più da parlare. Non a caso le attuali retribuzioni restano ferme nonostante aumenti il costo della vita, e si stipulino meno contratti alle donne, meno retribuite e sempre in attesa delle annunciate normative sulla maternità. Ma questa è una legge a tappe: la genericità iniziale funziona da ballon d’essai, poi arrivano decreti attuativi sedimentabili un po’ alla volta (per non far esplodere una conflittualità sociale corposa?), gli ultimi sono previsti solo per le vacanze di agosto prossimo.
Il rapporto Eurostat in merito alla disoccupazione europea mostra in prima fila questo paese per l’alto tasso di disoccupazione: 254 disoccupati in media per ogni operativo, 54 in Francia, 28 in Germania, 19 in Gran Bretagna. Coerenti con questi dati sono quindi gli investimenti relativi del Pil: 0,03% in Italia, 0,21% in Gran Bretagna, 0,25% in Francia, 0,35% in Germania. La deindustrializzazione in atto, ma da dissimulare, è visibile in questi dati ma non decifrata per i lavoratori fluttuanti, latenti, occasionali, disperati, ecc. in mancanza di criteri di lettura di questa fase critica dell’imperialismo. La inoccupazione necessaria a un mutamento della divisione del lavoro internazionale, deve essere gestita con giochi di prestigio governativi per il contenimento di immediate reazioni di massa, ma non può rispondere alle attese delle società espropriate e impoverite, governabili quindi con forme coercitive sempre più mimetizzate.
La centralizzazione del potere politico ha richiesto anche l’avocazione delle competenze (sottratte alle Regioni) per l’attuazione delle politiche attive, che avrebbero dovuto essere gestite dall’Agenzia Nazionale per l’occupazione, per un pacchetto di 5 miliardi – di cui molti saranno spesi per incentivi aziendali. Gli Enti locali sono stati esclusi dal ddl Boschi per essere accentrati a Roma, e per i 550 centri per l’impiego con 8.000 addetti – non in mobilità – non risultano stanziati che 60 milioni dalla Legge di Stabilità, mentre i costi del personale ammonterebbero a 250 milioni annui. Ancora non c’è traccia dei cosiddetti ammortizzatori sociali, non essendo rintracciabili le risorse finanziarie previste sulla carta. In compenso sembra in preparazione un’epurazione lavorativa per 20.000 esuberi nelle banche popolari, senza ipotesi di politiche attive per il loro ricollocamento, mentre la licenziabilità per i dirigenti pubblici dovrebbe sortire l’effetto di legarli in modo definitivo alle aleatorietà della politica.
Le “tutele crescenti” rammentano disposizioni della Carta del Lavoro fascista del 1927, gli strumenti per l’alternanza scuola-lavoro lasciano intravvedere l’istituzionalizzazione del lavoro gratuito per i giovani, la revisione delle mansioni è abbandonata all’incertezza dell’aumento di difficoltà e delle decurtazioni salariali per chi lavora. Sui controlli a distanza, poi, sembra che la dichiarata “tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore” sia svuotata di senso dall’uso possibile di tecnologie innovative già approntate o proprio in uso. Sulla base ipocrita dell’aumento di sicurezza, verrebbe a modificarsi l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori mediante: microchip negli scarponi da lavoro o negli elmetti, il gps integrato nelle cinture, braccialetti vibranti ai polsi, videocamere. Una generica legge europea vieta il controllo negli spogliatoi, mense e aree ricreative, mentre consente un monitoraggio del dipendente per indiretta conseguenza, per proteggere la produzione, la salute e la sicurezza del lavoratore. Intanto, nella realtà italiana Fincantieri avrebbe richiesto dei microchip, mentre il gruppo Elior delle cinture per il bar autogrill MyChef di Bologna, l’Inps delle telecamere nelle agenzie di Romano di Lombardia e Treviglio. Negli Usa, riportato dal The Wall Street Journal “The boss is watching”, dalla ricerca di Aberdeen Group, risulta che nel 2013 almeno 1/3 delle imprese ha monitorato i propri dipendenti. Epicenter, (Svedese) ha utilizzato microchip sottopelle a sostituzione del badge per l’apertura di porte o accesso ad ascensori.
Nel pianeta in crisi del capitale globalizzato i diritti lavorativi sono stati abbattuti, per ora a macchia di leopardo. Da noi, eliminato l’ultimo baluardo rimasto dell’articolo 18, sono stati anche compensati con qualche concessione sui diritti civili (divorzio breve), in modo da risultare un paese moderno a cancellazione di una conflittualità di classe, non monopolizzata dall’alto, ma che fosse dispersa nei bisogni diffusi di una popolazione alla mercé di normative geneticamente non più rintracciabili. I politici, non già i capitali appaiono come i padroni delle nostre vite: quelli non possiamo neppure più eleggerli, questi non li riconosciamo più come i nostri sfruttatori. Gli elenchi dei detentori della ricchezza privatizzata sono solo una curiosità statistica, non ci informano di quanto è stato sottratto alla società tutta, secondo il diritto arbitrario della sola abitudine ad accumulare.
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La distruzione del diritto di pace attraverso la distruzione della Costituzione
Angelo Ciampi
Intervento al convegno-assemblea del 25 aprile 2015 a Bologna in occasione della controbolognina e per la costituzione dell’associazione dedicata a Salvatore d’Albergo
Partiamo da lontano e da un altro contesto. Nel 1996 il Dipartimento delle finanze e dell’economia del canton Ticino (Svizzera) incaricò l’economista Carlo Pelanda di elaborare un libro bianco che tracciasse gli scenari futuri dell’economia ticinese nel quadro della crescente globalizzazione. L’arco temporale, fissato per il 2015, era sufficientemente lungo per individuare strategie di medio-lungo periodo per scongiurare il rischio di un declino economico e creare nuovi presupposti per mantenere il cantone ad elevati livelli di concorrenzialità. Il Libro Bianco, pubblicato nel 1998, è un testo essenzialmente economico e di politica economica ma vi è un capitolo che affronta gli aspetti politici correlati al raggiungimento degli obiettivi economici esposti. Tra essi il progressivo ampliamento dei poteri dell’ ”esecutivo” nei confronti del “legislativo”. Infatti – scrive Pelanda – “un governo (nazionale o locale) che deve compiere scelte ‘competitive’ veloci, sempre più tecnicamente determinate e politicamente flessibili, certamente soffre gli eccessi di parlamentarismo/partitismo (lentezza, conflitto, rielaborazione politica di requisiti tecnici, ecc.). E se le ‘cose della politica’ prevalgono sulla ‘politica delle cose’ è certo che le misure di governo a sostegno della competitività saranno meno efficaci, o per nulla.” 1 A tal proposito l’autore fa riferimento alla famosa espressione dell’ex presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, di “democrazia finanziaria” con la quale quest’ultimo intendeva sottolineare che oramai l’economia e la finanza contavano più della politica e dei rappresentanti del popolo, i parlamentari 2. È in pratica una chiara affermazione e una presa d’atto che esprime meglio di tanti concetti la limitazione di sovranità cui gli stati sono sottoposti.
Ho fatto riferimento al Libro Bianco poiché non è da oggi che si parla e si discute dello snellimento dei processi decisionali, della semplificazione delle procedure democratiche, della riduzione degli spazi di libertà, eguaglianza e giustizia sociale.
La Costituzione, unico baluardo rimasto contro l’autoritarismo politico e sociale
L’Italia non sfugge a questi processi e da almeno tre decenni sta approvando e mettendo in atto tutti quei provvedimenti finalizzati ad adeguare il funzionamento della macchina governativa e amministrativa proprio a quelle esigenze di “democrazia finanziaria” evocate da Tietmeyer. Il compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra non serve più. Le oligarchie della finanza e dell’economia hanno esteso un dominio di proporzioni mai raggiunte in passato, favorito anche, e soprattutto, dai processi di frantumazione, parcellizzazione e disaggregazione dei luoghi di lavoro e dei soggetti in essi operanti
In Italia l’unico limite, l’unico ostacolo rimasto, fino a qualche anno fa considerato invalicabile, è (era) rappresentato dalla Costituzione e dalla forma di democrazia sociale in essa sottesa, che aveva portato ad ottenere nei suoi primi trent’anni di vita un progresso sul piano sociale, politico e culturale oggi semplicemente inimmaginabile, al punto che si era giunti a parlare di “portare la Costituzione in fabbrica”, eliminando quel dualismo che vedeva la democrazia esclusivamente nel rapporto cittadino-stato (attraverso le forme di controllo dei governanti da parte dei governati e le procedure elettorali), mentre nell’ambito economico-sociale, che scandiva la vita di tutti i giorni e determinava l’esistenza di milioni di persone, vigeva un dispotismo esercitato da ristrette minoranze, privo di ogni possibilità di controllo.
Oggi i rapporti di forza si sono totalmente rovesciati al punto che si vuole portare il modello dispotico dell’impresa nella Costituzione, modello basato sulla concentrazione del potere, sul decisionismo, sulla eliminazione di tutte le forme di controllo effettivo realmente efficaci per arginarne la sua arroganza.
La prassi dominante è che le decisioni importanti, quelle veramente in grado di incidere sulla vita locale, nazionale e internazionale si prendono in luoghi sempre più ristretti e chiusi che sfuggono del tutto o in massima parte anche agli istituti formali della democrazia delegata, i parlamenti, e contribuiscono a produrre e a perpetuare, di conseguenza, un allontanamento delle masse dalla politica e dalla partecipazione democratica a solo vantaggio dell’esaltazione del particolare, dell’immediato, della ricerca della soluzione individuale.
Nella crisi complessiva dei soggetti della politica (partiti di massa, sindacati, movimenti, associazioni) trovano porte spalancate le misure che incidono nella carne viva dei diritti sociali elencati nella nostra Costituzione e che hanno effetti devastanti in molti ambiti della società. Dietro tali misure vi è un pensiero, una filosofia della politica, che afferma che i diritti sociali:
- sono meritevoli di essere tutelati solo al livello della mera sopravvivenza, quasi fossero un succedaneo della carità;
- possono avere attuazione solo se esistono le risorse necessarie a realizzare quelle strutture (scuole, ospedali, strade, case popolari ecc.) senza le quali i diritti sono solo una macchia di inchiostro (quante “carte” dei diritti sono state elaborate senza che producessero alcun effetto positivo concreto sul loro specifico ambito di riferimento).
Dei principi di uguaglianza e solidarietà nemmeno a parlarne e le motivazioni che vengono addotte per spiegare l’esistenza dei fenomeni di marginalità (povertà, disoccupazione, varie forme di disagio sociale) si fondano sui concetti di colpa e scarsa responsabilità. Altrimenti come spiegare che i giovani oggi vengono etichettati come sfigati, bamboccioni e choosy?
La riduzione della sovranità popolare a mera finzione
Sola e bistrattata, la Costituzione ha rappresentato in questi anni il grande baluardo contro un più rapido e massiccio affossamento dei diritti sociali e del principio cardine su cui essa si regge, quello della sovranità popolare, non a caso richiamata immediatamente nell’articolo 1, in quanto fonte della legittimità del potere nelle sue diverse articolazioni (legislativo, esecutivo e giudiziario). Da qui i numerosi tentativi di una sua radicale riforma, portati avanti da chi sta svendendo l’Italia ai nuovi centri, nazionali e internazionali, del potere politico, economico e finanziario con la conseguente rottura di quel patto, frutto del contributo di forze politiche, sociali e culturali diverse, che ha portato alla sua scrittura nel 1948.
Se “la sovranità appartiene al popolo” cui spetta il compito di controllo-indirizzo-intervento sulle decisioni politiche, sugli indirizzi di governo e sulle multiformi manifestazioni del potere, il proposito di instaurare una “democrazia governante”, che non può che assumere connotati di tipo centralistico e verticistico, è quanto di più lontano potesse esserci nella visione dei padri costituenti.
Con la riforma costituzionale si vuole ridurre la sovranità popolare a mera espressione di adesione e consenso periodico a esigenze di governabilità, distruggendo in tal modo quelle spinte ideali e culturali, presenti all’interno dell’Assemblea costituente, che miravano a fare della sovranità del popolo – grazie al concorso dei partiti politici e di altre forme associative – la fonte primaria del consenso e della decisione, ai fini di una effettiva democratizzazione della società, da intendersi come partecipazione attiva nei processi decisionali in ogni ambito della vita sociale e politica, attraverso un percorso che va dal basso verso l’alto, dalla periferia al centro.
Le riforme costituzionali rompono, distruggono questo impianto e creano le premesse per una nuova forma di dispotismo che elimina definitivamente quella forma di stato, unica al mondo, di democrazia economico-sociale, grazie alla quale si ponevano le premesse per intervenire in maniera efficace, condizionandone gli indirizzi, sugli istituti storicamente determinati del capitalismo, vale a dire la proprietà privata e l’impresa. Un drammatico ritorno al passato in cui viene ad annullarsi l’integrazione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale.
La sovranità popolare, che avrebbe dovuto essere, secondo l’intenzione dei padri costituenti, il luogo di aggregazione delle istanze di democrazia diffusa, di un’articolazione e decentramento del potere, di nuove e più avanzate forme di autogoverno, viene di fatto svuotata a causa della distanza surrettiziamente creata da parte di chi si è appropriato del potere di decisione politica. Il parlamento, privato dei valori e delle regole democratiche, è divenuto uno sfogatoio di frustrazioni, trasformandosi nella brutta copia delle assemblee degli azionisti aziendali che non contano nulla dal momento che i luoghi dove si prendono le decisioni che contano sono altrove, nei ristretti consessi dei consigli di amministrazione.
La cosa, a mio avviso, più insensata che si può cogliere in questi decennali tentativi, più o meno riusciti, di riforme costituzionali ed elettorali, è quella di adattare a tutti i costi gli assetti istituzionali ai mutamenti intervenuti nell’economia, nell’uso delle nuove tecnologie, nelle dinamiche sociali nel loro complesso, invece di dare una nuova valenza, al passo con i tempi, alla sovranità popolare (anche nella sua espressione più significativa, la democrazia diretta), come fattore primario cui subordinare a fini di utilità sociale i multiformi centri del potere politico, economico e finanziario e gli apparati burocratico-amministrativi, questi ultimi sempre più autonomi e autoreferenziali.
La sovranità popolare, dunque, come base di una nuova organizzazione della società e dello stato e premessa per una fuoriuscita dei ceti e classi più deboli da una condizione di subalternità a chi il potere, politico ed economico, lo ha sempre detenuto .
La politica viene così ad essere un’espressione dell’agire collettivo che fa sì che la funzione di governo venga “attratta verso un’orbita diversa da quella del vertice dello stato-apparato, ciò che spiega il ruolo decisivo di centralità e di cerniera del parlamento, che nelle forme storiche dell’organizzazione dello stato non aveva ancora conseguito un ruolo egemone proprio perché le forze sociali e politiche non avevano ricevuto una piena legittimazione democratica.”3
Il grande insegnamento, che non si è mai riusciti a recepire del tutto, proveniente dalla Costituzione del 1948 è quello di tracciare una traiettoria che sappia andare oltre il semplice calcolo ragionieristico maggioranza-opposizione; la partecipazione alla vita politica e sociale non è sollecitata solo da parte delle istituzioni, tramite i partiti, bensì implica la possibilità che nuove forme di aggregazione, portatrici di interessi e bisogni nuovi, producano mutamenti sostanziali negli stessi apparati dello stato, anche in quelli tradizionalmente poco sensibili alla dialettica democratica (si pensi alla magistratura e alle forze dell’ordine).
Questa grande spinta si interrompe tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta. La politica reagisce iniettando dosi sempre più massicce di “governabilità”, nella falsa giustificazione che sia il miglior antidoto alla gestione di società sempre più complesse. Il processo di centralizzazione del potere investe a cascata anche i partiti e i sindacati e al contempo si esaurisce la tensione dal basso alla partecipazione attiva. I movimenti che si sviluppano in questi anni (antinucleare, pacifista, ambientalista) rifiutano il legame con il soggetto storico della trasformazione sociale, la classe operaia (anche per responsabilità dello stesso Partito comunista poco incline a comprendere le domande che provenivano da questi nuovi soggetti sociali) e si arroccano in un insulso quanto inconcludente “monotematismo”.
Quindi, riepilogando, l’attentato alla Costituzione si sta concretizzando (e i suoi effetti sono oramai largamente visibili, non solo da oggi) su più fronti:
- abbattimento dei diritti sociali
- riduzione, mi viene da dire annullamento, delle prerogative del Parlamento
- svuotamento della sovranità popolare (anche con l’eliminazione del proporzionale integrale)
- dominio della finanza e dell’economia sulla politica
L’affossamento del diritto di pace
Se la Costituzione va letta e interpretata come un unico articolo, stravolgerla in alcuni dei suoi assi portanti è il frutto di un disegno politico che punta a mutare la natura dello stato, estromettere soggetti e movimenti organizzati dalla partecipazione attiva alla vita politica e sociale, accelerare il processo di centralizzazione e burocratizzazione dei poteri, equiparare il conflitto sociale a manifestazione di violenza al fine di estrometterlo dalla dialettica democratica.
Questa fase di degrado della democrazia è il frutto un vero colpo di stato che distrugge il “valore della ‘pace’, come criterio-guida di una dialettica sociale volta a perseguire la ‘giustizia’ in ogni tipo di rapporto, per aprire un’era nuova nella quale le forme del potere di governo della società siano funzionali ai bisogni delle masse e non siano piegate a un uso della forza al servizio di ceti ristretti, permanentemente interessati a coniugare il potere coercitivo delle istituzioni con il potere di una grande industria, già organicamente legata a sua volta alle istituzioni con il protezionismo parassitario.” 4
È proprio grazie al diritto della pace che viene data piena garanzia e rappresentatività all’opposizione sociale, quindi non solo parlamentare e partitica, al fine di ampliare le forme di partecipazione politica e dare così significato e autorevolezza agli istituti della democrazia progressiva. Si pensi alla forza che aveva assunto la classe operaia italiana tra gli anni Cinquanta e Settanta, al punto da riuscire a governare stando all’opposizione grazie, appunto, a una partecipazione di massa a funzioni di indirizzo politico per uno sviluppo della democrazia finalizzato a un rovesciamento dei rapporti tra governanti e governati, per una organizzazione del potere che desse ai soggetti reali della società la titolarità di individuare e definire gli indirizzi politici a tutti i livelli, locale, regionale e nazionale. Quanta distanza, non solo cronologica ma soprattutto culturale, ci separa da quegli anni: oggi l’egemonia del neo-liberismo diffonde su scala planetaria i valori dell’individualismo, del consumismo di massa, della meritocrazia, della scomparsa della solidarietà nei rapporti tra le persone.
Pace non sta a significare semplicemente assenza di guerra o violenza direttamente esercitata da individui; esiste una nozione di pace più forte, intesa come condizione sociale in cui è assente anche la violenza (perché di violenza si tratta) esercitata indirettamente mediante la privazione di valori e diritti inseparabili tra loro, come la libertà, l’eguaglianza, la giustizia.
Il diritto della pace insito nella Costituzione ci trasmette un messaggio rivoluzionario, e cioè che guerra (violenza diretta) e ingiustizie sociali (violenza indiretta o strutturale) sono in rapporto reciproco che può essere spezzato solo se vi sia eguaglianza sostanziale, e non solo formale, dei diritti e se la sovranità popolare sia l’inveramento del potere decisionale dal basso. Al fine di rendere effettiva questa forma di partecipazione popolare Salvatore D’Albergo e diversi movimenti nazionali, in occasione nell’installazione dei missili a Comiso promossero ed elaborarono una legge di iniziativa popolare per l’introduzione con legge ordinaria di un referendum politico deliberativo sugli atti esecutivi del governo nel campo della politica militare (un ambito che ha grandi riflessi sulle limitazioni alla sovranità popolare) e l’istituzione in parlamento di corsie preferenziali per le leggi di iniziativa popolare, al fine di contrastare le politiche governative che prendendo a pretesto logiche emergenziali declinano le scelte politiche in senso autoritario.
Vi sono diverse manifestazioni della violenza indiretta: alienazione nel mondo del lavoro (e di riflesso nella società), riproduzione e rafforzamento delle gerarchie sociali, assenza di partecipazione attiva, disoccupazione, precarietà sociale e lavorativa ecc.
La distruzione della Costituzione prosciuga il terreno su cui è possibile impostare una dialettica sociale basata sul principio che ogni componente della società e ogni soggetto della politica partecipi in maniera egualitaria ai poteri decisionali che regolano la società stessa e alla gestione delle risorse materiali e immateriali. Non a caso, negli anni passati lo smantellamento della Costituzione ha proceduto di pari passo con l’abolizione sostanziale del più importante diritto costituzionale, il diritto di sciopero.
La perdita di una visione globale dell’impegno politico, il riflusso nella sfera individuale e nel privato, la scomparsa dei partiti massa, fanno della Costituzione, come accennato, l’unico fortino a difesa dei principi e valori della democrazia sociale. Quante volte nel corso degli anni abbiamo letto e sentito che oramai era vecchia, che aveva fatto il suo tempo, che aveva bisogno di una sistematina, al punto che non è rimasto più nessuno che venisse a precisare le ragioni per le quali la Costituzione non potesse più “essere considerato il terreno privilegiato su cui innestare una difesa tenace dei suoi irrinunciabili principi, e un rilancio che ne veda dislocare i valori più avanzati per soddisfare e bisogni insoddisfatti e bisogni nuovi.” 5
Contro le riforme costituzionali sin qui tentate e/o attuate, contro le modifiche della legge elettorale che calpesta il proporzionale è legittimo invocare il diritto-dovere di resistenza poiché tutte le misure adottate da governo e parlamento sono incostituzionali 6. Il problema che si pone sono le modalità di riaffermazione della legalità costituzionale mediante la ripresa di un conflitto sociale (del resto il sistema capitalistico d’impresa non ha mai cessato la ”sua” lotta di classe) “armato dei principi costituzionali e non lasciato ai meri rapporti di forza” 7. È qui, attraverso il diritto, che si esprime pienamente il valore della pace.
Tonino Bello, vescovo di Molfetta, sosteneva che la pace più che un vocabolo è un vocabolario: significa che le sue articolazioni sono molteplici e una di queste sta a fondamento di una società democratica e di una politica che operino realmente a fini sociali, in direzione, è un mio auspicio, di una trasformazione in senso socialista dei rapporti di produzione e delle forme statuali e istituzionali ad essi corrispondenti
1 Carlo Pelanda, Ticino 2015. Libro Bianco sullo sviluppo economico cantonale nello scenario della globalizzazione, Locarno, Rezzonico, 1998
2 Cfr. Corriere della Sera, 02.09.1995, Tietmeyer: i mercati contano più dei politici. Pochi anni dopo, nel 1998, sempre Tietmeyer ribadisce il concetto spiegando che le democrazie poggiano su due plebisciti: quello, periodico, delle urne e quello “permanente dei mercati”.
3 Salvatore d’Albergo, La Costituzione tra democratizzazione e modernizzazione, Pisa, Edizioni ETS, 1996, pp. 76-77
4 Salvatore d’Albergo, Diritto e stato tra scienza giuridica e marxismo, Roma, Sandro Teti, 2004
5 (Salvatore d’Albergo, Strategie istituzionali della sinistra. Forme di governo – forme di stato, Atti dell’Assemblea Crs 1990, Supplemento al numero 3-4 1990 di democrazia e diritto, Editori riuniti riviste)
6 Il grande giurista Costantino Mortati, che certamente comunista non era, ebbe a dichiarare in sede di Costituente che “la resistenza trae titolo di legittimazione dal principio della sovranità popolare perché questa, basata com’è sull’adesione attiva dei cittadini ai valori consacrati nella Costituzione, non può non abilitare quanti siano più sensibili a essi ad assumere la funzione di una loro difesa e reintegrazione quando ciò si palesi necessario per l’inefficienza e la carenza degli organi ad essa preposti.”
7 Salvatore d’Albergo, Costituzione e organizzazione del potere nell’ordinamento italiano, Torino, Giappichelli, 1991, p. 182
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Buongiorno a tutti i convenuti.
Sono Walter Montella della sezione comunista Gramsci-Berlinguer di Milano.
Diventa difficile riuscire a parlare di Costituzione dopo aver ascoltato coloro che mi hanno preceduto e che, sicuramente, hanno avuto modo di resistere alle tentazioni involutive imposte da una parte della società, in questa fase delicata, il nostro Paese ha bisogno di tutti per poterle respingere.
Oggi più che mai, c’è bisogno degli umili, quelli che, di solito, non hanno sponsor mediatici (in mano al grande capitale finanziario) che li assecondi per farli conoscere.
Oggigiorno, per salvaguardare e rilanciare i valori insiti della nostra Costituzione – come solidarietà, tutela della dignità umana, partecipazione attiva alla cosa pubblica, insomma la democrazia – c’è bisogno di ritrovare, quella compattezza trasversale che nel passato, era possibile grazie a formazioni partitiche (PCI in testa) che spendevano energie, onde evitare il declino del nostro paese verso sponde autoritarie; sponde autoritarie che, negli ultimi anni, si sono manifestate anche, attraverso le modifiche del Titolo V mettendo in condizioni svantaggiate milioni di cittadini con trattamenti diversificati da Regione a Regione.
Un esempio tangibile di siffatta autoritaria violenza sono i trattamenti sanitari dove sia le cure mediche che alcuni farmaci sono a carico del malato mentre in altre a carico della struttura pubblica.
Non si possono, infatti, dimenticare quante volte la borghesia, attraverso le forze più reazionarie, abbia tentato di distruggere l’impianto equilibrato e democratico della nostra Costituzione partendo dalla c.d “legge truffa” del 1953 sino all’attuale gestione governativa di Renzi, passando dai vari tentativi di colpi di Stato, come quello di Junio Valerio Borghese o quello del monarco-liberal-massone Edgardo Sogno.
Infatti, la borghesia – che oggi le persone si vergognano, persino, di citare come ceto sociale, dandoci, però, in questo la misura del lavoro sotterraneo di rimozione che questa ha saputo compiere – ha voluto investire sulle nuove generazioni frapponendole alle precedenti. Ha lavorato, apparentemente da lontano, per colpire i basamenti che sorreggono la Costituzione, come la solidarietà e su un terreno che si è dimostrato vincente per poter, così, modificare pezzi rilevanti degli articoli arrivando ad escludere parti salienti della società dall’interessamento alla cosa pubblica.
La dimostrazione pratica del lavoro di contrapposizione generazionale fatto di buona lena dalla borghesia – e con la complicità dei soli noti – è sotto gli occhi di tutti e si chiama: “rottamazione” degli anziani – che ha interessato schiere di aderenti, dai partiti istituzionali sino ai centri sociali – oppure con le parole d’ordine, “i padri, in quanto garantiti, rubano il futuro ai figli” – e in questo caso abbiamo assistito alla più bieca partecipazione delle sigle sindacali. E così via.
Su questo punto vorrei ricordare un passaggio del “lavoro e Costituzione” di Salvatore d’Albergo nel quale si preannuncia come, anche, le parti più sensibili del paese molte volte siano offuscate dagli eventi:
“…l’art. 18 interferisce, in una prospettiva democratica oggi arrestatasi, sia con il diritto dell’impresa sia con il diritto del lavoro e sia con il diritto sindacale: cosa che sfugge anche alla stessa FIOM impegnata in una difesa dei “diritti” dei lavoratori che è resa vana nel (e dal) misconoscere che l’articolo 18 coinvolge i poteri dello stato, del sindacato e dell’impresa, per piegare il mercato – a favore dei lavoratori come corpo sociale e nei diritti che ne derivano – mediante il riconoscimento istituzionale della forza di pressione dei poteri democratici sia dello Stato sia del sindacato.
Occorre quindi che non solo i partiti ma anche il sindacato – e qui il pensiero va a quella parte di sindacato che mostrano una maggiore criticità e volontà di lotta – ponga la massima attenzione ai problemi della revisione della forma di governo e delle legge elettorale a favore del proporzionale integrale, se si vuole che la rappresentanza sindacale possa ancora e come all’epoca dell’emanazione dello Statuto dei lavoratori, svolgere il ruolo assegnatogli dall’articolo 39 della Costituzione.”
Rileverei, anche, le perplessità del docente dell’Università di Bari, Gaetano Bucci quando sulle modifiche proposte dai vari governi dichiara che:
“La discussione su un disegno di legge costituzionale che mira a modificare radicalmente il ruolo e la struttura del Parlamento, non può pertanto essere affrontata soltanto confrontando la validità dei modelli istituzionali considerati più idonei a potenziare l’efficienza dei processi decisionali, ma richiede una riflessione sul ruolo che nella fase attuale si vuole attribuire al Parlamento della Repubblica democratica fondata sul lavoro, ossia a quell’organo costituzionale che «dopo il disastro dittatura fascista» è riuscito a conferire una nuova legittimazione allo Stato garantendo l’espressione del «confronto» e del «conflitto», considerato come il «sale della democrazia»” .
Infatti, ricorderei, a tutti, quali e quanti siano gli interessi in ballo – sia internazionalmente che nazionalmente – che hanno indotto molte parti del nostro paese – e altri lacchè europei – a fare pressione per farci cambiare-modificare la nostra Carta Costituzionale.
Questo processo culturale degenerativo italiano nel quale le potenze economiche internazionali hanno usato tutti i mezzi leciti e illeciti pur di arrivare al loro scopo e costruire instabilità politica nel nostro paese risale a molto tempo fa, forse sarebbe più corretto sostenere che non ha mai cessato di esistere perché è dentro quello che K. Marx chiamava “lotta di classe”.
Schematicamente potremmo dire che, le lobbies economiche stanno insistendo nei loro tentativi per ottenere tutto ciò, ribadisco: tentativi, perché se, oggi, siamo qui è perché gli anticorpi che reagiscono all’involuzione ci sono ancora. Costoro hanno dovuto partire “inquinando” la cultura dei comunisti con principi socialdemocratici o liberal-libertari. Infatti, hanno iniziato dal PCI con i miglioristi per finire il lavoro d’inquinamento culturale nelle formazioni minori. Non sono casuali i disinteressi nel campo della difesa e rilancio della Costituzione antifascista, della c.d. sinistra, perché refrattari (ahimè!) dal comprendere che se questi principi fossero applicati sarebbero il trampolino verso una società più socialista.
Non sorprendono, quindi, le dichiarazioni del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel suo discorso dei “70 anni dalla Liberazione dal nazi-fascismo” parla di un partigiano cattolico liberale Sergio Cotta, ex allievo dell’azionista Norberto Bobbio, invece, dei tanti comunisti che furono i promotori e iniziarono la Resistenza.
Di fronte all’inquinamento culturale diventa indispensabile, per poter proseguire nella difesa della Costituzione, l’essere capaci di distinguere tra gli affabulatori prezzolati e/o, gli eventuali, “cattivi maestri” al servizio del capitale che ci porterebbero a compiere azioni errate.
Oggi, infatti, ci sono centinaia di servitori del capitale che si pronunciano falsamente a garanzia della Costituzione venendo sostenuti dagli specialisti dell’esortazione della claque, meglio conosciuti come “yes set” (costruzione di un campo affermativo), ma che sono solo imbonitori della popolazione.
A noi, ma prima ancora per rispetto ai Padri Costituenti, non serve nulla di tutto ciò ma, solo, chiarezza per conservare la democrazia… E qualcuno, anche sui media, sta accorgendosi delle nostre proposte.
Buon lavoro e non cediamo di un millimetro perché saremo ripagati delle nostre fatiche.
Grazie a tutti.
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(Intevento letto da Paola Baiocchi)
PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
FEDERAZIONE DI LIVORNO
RECUPERO FRONTALE DEL TEATRO SAN MARCO DI LIVORNO
L’anno in corso è il 70°della cacciata dei nazifascisti dall’Italia e il trionfo della Resistenza armata delle Brigate Garibaldine guidate dall’intelligenza politica e militare dei comunisti.
L’intelligenza politica che guidò i comunisti ad essere la forza principale nello scontro con il nazifascismo fu il compagno Palmiro Togliatti che riuscì a fare accettare alle Brigate Garibaldine comuniste la svolta di Salerno e dare alla loro lotta la dimensione nazionale del popolo italiano.
Il braccio armato che sconfisse sul campo il nazifascismo fu il compagno Luigi Longo.
Le sue grandi doti politiche e militari si erano già concretizzate nella guerra di Spagna quando ebbe l’incarico di ispettore generale e in pratica operò come commissario politico delle Brigate Internazionali.
Nella lotta armata contro il nazifascismo Luigi Longo divenne il massimo dirigente militare del Partito Comunista nell’Italia settentrionale. Per le sue doti militari e politiche venne scelto dall’C.L.N. come vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà.
Il C.L.N.A.I.(Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) gli affidò il compito di giustiziare Benito Mussolini in nome del Popolo Italiano.
Il compito dei comunisti del XXI secolo è quello di ridare la dignità e il prestigio ai comunisti, quali li ebbero nel XX secolo quando erano guidati dai segretari Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer!
I comunisti del XXI secolo hanno il grande compito di riaffermare che la Costituzione dell’Italia è il frutto della Resistenza e del grande sacrificio in vite umane dei giovani che militarono nelle Brigate Garibaldine.
Devono rivendicare che il presidente dell’Assemblea Costituente fu un grande intellettuale comunista, Umberto Terracini!
La prima firma su quella carta fu del presidente della Repubblica e la seconda quella del comunista Umberto Terracini.
Quindi chi si assume oggi il compito di ricostruire il Partito Comunista ha la grande responsabilità politica, morale e sociale verso i comunisti del XX secolo guidati dai segretari Gramsci, Togliatti, Longo e Berlingeur.
Il Dipartimento Cultura della Rifondazione Comunista della provincia di Livorno ha proposto alla Direzione del Partito stesso il recupero urbanistico del frontale del teatro San Marco situato nella via Borra. Il teatro andò distrutto dalla guerra per l’80 per cento. In quel teatro il 21 Gennaio del 1921 nacque il Partito Comunista d’Italia dopo la scissione dal Partito Socialista Italiano che in quei giorni vi svolgeva il suo congresso.
Di quel teatro è rimasto un frontale che dà sulla via Borra. L’edificio è, come già detto, in stato di abbandono e pertanto bisognoso di un intervento di restauro urgente.
Il compito dei comunisti del XXI secolo è quello di recuperarlo e farlo diventare un monumento nazionale perché sia l’emblema, anche per loro, del contribuito determinante che quegli uomini seppero dare alla fondazione di uno Stato democratico e a quella di un grande partito di massa, all’indomani della guerra mondiale.
Il 21 Gennaio deve diventare una giornata storica per tutti i comunisti italiani!
Tutti i comunisti italiani devono partire dal teatro Goldoni dove si svolgeva il Congresso del Partito Socialista e ripercorrere la strada che percorsero i fondatori del Partito Comunista d’Italia fino al teatro San Marco!
Il comunismo è una fede laica e il 21 gennaio deve essere una giornata sacra per i tutti i comunisti e Livorno un luogo per ritrovarsi tutti e riconoscersi in questa vestigia.
Il responsabile del Dipartimento Cultura della Rifondazione Comunista di Livorno.
Antonio Parenti.
Per informazioni mail: parenti.antonio@virgilio.it