Economia pubblica, 9, Roma 1991
Gianfranco Pala
I. ELOGIO DELLA MERCE
II. TRIONFO DEL MERCATO
III. MERCE, SIMULACRO DI PAZZIA
Indice
I. ELOGIO DELLA MERCE
1. L’immane raccolta di merci, moderna pazzia
1.1 L’impero della merce e del denaro
2. La merce, pazzia e contraddizione
2.1 La contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio
2.2 La contraddizione della merce forza-lavoro
2.3 La contraddizione della trasformazione del denaro in capitale
2.4 Le contraddizioni immanenti al sistema della merce
3. Il fraintendimento delle contraddizioni della merce
3.1 I tempi e i termini medi della trasformazione sociale
3.2 La merce, socializzazione storica reale
3.2.1 La storia della merce e della divisione del lavoro
3.3 La forma teorica della merce e i modi di produzione
3.3.1 Il rapporto di dominanza tra valore d’uso e valore
3.4 L’eredità del capitalismo per la politica del socialismo
3.4.1 L’incomprensione politica dell’antiteticità della merce
4. La merce nelle forme economiche di transizione
4.1 La merce, pazzia nella dominanza del valore di scambio
4.2 La forma-valore, base delle altre forme di relazione
4.3 La funzione della merce nelle transizioni storiche
4.4 Il contrasto tra la divisione sociale e la merce
5. Lo svolgimento della merce e i rapporti di proprietà
5.1 Lo sviluppo storico dei modi di produzione e la merce
5.2 Le forme orientali e la conservazione dei rapporti di dominio
5.3 Le forme occidentali e la contraddizione della merce
6. Il cambiamento delle forme di proprietà e la merce
6.1 Lo sviluppo della proprietà privata individuale
6.2 La proprietà di classe, negazione di quella individuale
6.3 Il passaggio dal lavoro singolo al lavoro collettivo
7. La differenza nella dinamica delle classi sociali
7.1 La riproduzione del processo vitale e la socializzazione
7.2 La forma del lavoro e la merce su scala mondiale
7.3 La mediazione dei caratteri antitetici della merce
7.4 La socializzazione nei modi capitalistico e asiatico
8. L’autodeperimento della forma-merce e il mercato mondiale
8.1 L’abituale horror della contraddizione
II. TRIONFO DEL MERCATO
1. La produzione posta come totalità nel mercato mondiale
1.1 Le caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica
1.2 L’adeguatezza del modo di esistenza del capitale
1.3 Il sistema del valore di scambio, sistema della libertà
2. Il sistema monetario internazionale contemporaneo
2.1 La distinzione del denaro sul mercato mondiale
2.2 Il sistema creditizio e la formazione del mercato mondiale
3. L’espansione irregolare del capitalismo industriale
3.1 Il carattere onnilaterale delle merci sul mercato mondiale
4. La concorrenza, relazione del capitale con se stesso
4.1 I nuovi mercati e la rovina dei modi di produzione dominanti
4.2 La concorrenza internazionale del capitalismo industriale
5. La proprietà e la produttività del lavoro
5.1 Lo sviluppo della produttività e dell’intensità del lavoro
5.2 L’aumento della produttività e del plusvalore
5.3 Il tempo di produzione e il tempo di lavoro
5.4 Il lavoro necessario e la creazione di pluslavoro
6. Il tempo di circolazione, ostacolo alla valorizzazione
6.1 La circolazione senza tempo di circolazione
7. La concorrenza e i lavoratori non in quanto lavoratori
7.1 La concorrenza, autorepulsione della pluralità di capitali
7.2 Il godimento della ricchezza e i lavoratori salariati
7.3 La ricchezza reale, produttività sociale in forma antitetica
8. La tendenza universale del capitale
8.1 Lo sviluppo della ricchezza e il crollo delle società
III. MERCE, SIMULACRO DI PAZZIA
1. La merce libera dagli affanni
1.1 Meglio improvvisare che ponzare
1.2 La merce si vede sùbito
1.3 Pedanterie di accademici
2. Genesi della merce
2.1 I beni della vita son dono della merce
2.1.1 La merce dà sapore alla vita
2.2 Amalgama la società umana
2.3 La merce è causa della guerra
3. Inconvenienti della coscienza
3.1 La vera coscienza è merce
3.2 Merce guida a coscienza
4. La merce rende la vita tollerabile
4.1 La merce è il criterio per giudicare le invenzioni umane
4.2 Felicità dei bottegai
4.2.1 Felicità dei bottegai (continua)
5. Desideri di merce
5.1 Venditori di miracoli
5.2 Notabili
5.3 La merce si contenta … di avere tutti gli uomini dalla sua
6. Forme di merce e di mercanti
6.1 Accademici e professori
6.2 Scrittori e poeti
6.3 Gli ideologi, mercanti più di tutti
6.3.1 I democratici e i loro giornalisti
6.4 Contro i governanti e i politicanti
6.5 Preti, vescovi e papi
7. La fortuna aiuta i bottegai
8. Elogio della merce presso i classici
*. Conclusione: ho scherzato
I. ELOGIO DELLA MERCE
contraddizione tra l’universalizzazione della produzione e la forma del suo sviluppo
OMAGGIO A GEER GEERTSZ – DA ERASMO
Tutto ciò che gli uomini fanno,
non forma che un ammasso di sciocchezze.
[Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia]
La ricchezza delle società
in cui predomina il modo di produzione capitalistico
si presenta come una “immane raccolta di merci”,
… l’enigma del feticcio denaro che abbaglia l’occhio,
… il dominio del metallo maledetto che appare come pura pazzia.
[Karl Marx, Il capitale]
Questa forma di follia genera gli stati,
con questa si reggono i poteri militari e civili,
le religioni, i consigli, i tribunali;
insomma, la vita umana, nel suo insieme,
non è che un gioco, il gioco della pazzia.
[Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia]1. L’immane raccolta di merci prodotta dal capitale è la forma moderna dell’ammasso di sciocchezze fatte dalla pazzia umana.
Il XVI è il secolo nel quale l’Olanda si afferma come potenza commerciale di primaria importanza. Il traffico di merci olandese prepara lo sviluppo del capitale industriale inglese nel secolo successivo. Questa è la realtà e la connessione materiale da non dimenticare nel momento in cui si rende omaggio – parafrasandone i detti, anche con una buona dose di autoironia – al cittadino di Rotterdam Geer Geertsz, detto Desiderio Erasmo.
Fu certo il cosmopolitismo raggiunto dal commercio e dalla cultura dei Paesi Bassi che gli consentì di attribuire alla pazzia la capacità di tirare tutti i fili della società. Pazzia sociale, dunque, di cui si tesse l’elogio per essere la radice di ogni movimento e vitalità, in quanto ha in se stessa una contraddizione – per dirla con la logica di Hegel.
Materialmente, oggi come una volta e sempre di più, simile forma di follia è rappresentata dalla merce. “I compratori – scrisse Brecht il 27.12.1941 nel suo Diario di lavoro – non riescono più neanche a vedere in faccia i venditori. Si mette in mostra soltanto la merce, storpiata e sfigurata guardata con sospetto e magnificata, tagliata su misura per un corpo che non si è fatto mai vedere. Ogni atto di compravendita si risolve così in una sconfitta o del venditore o del compratore, a seconda che non si riesca a vendere o comprare qualcosa”. Non è follia, questa?
1.1 Nulla si muove se non sotto l’impero della merce, la cui forma sviluppata, la più astratta e imperitura, è il denaro.
La merce – afferma Marx nel Capitale, quando ne individua il carattere di feticcio, e poi a proposito della misura dei valori – è una cosa imbrogliatissima, piena di capricci teologici, una cosa sensibilmente sovrasensibile, dalla forma fantasmagorica. Tutto è ridotto a merce, dalla prostituta al re: anche cose che, in sé e per sé, non sono merci, come coscienza, onore, ecc., dai loro possessori possono essere considerate in vendita per denaro.
Il denaro è merce allo stato puro, quintessenza della scambiabilità: il suo valore d’uso consiste solo nella propria capacità di scambiarsi con qualunque altra merce. Sul mercato mondiale esso è giunto a rappresentare il lavoro sociale. La merce-denaro appare così come il massimo livello raggiunto dall’astrazione della relazionalità sociale tra gli uomini. Ogni individuo “porta con sé nella tasca” – dice Marx con un asciutto aforisma sul denaro come rapporto sociale – il suo potere sociale, così come il suo nesso con la società. Questo è quel dominio del metallo maledetto che appare come pura pazzia, una pazzia che cresce dal processo economico stesso.
Sono queste, forse, le medesime ragioni per cui la “merce imperitura”, il denaro incontra spesso sulla propria strada la merda. Una merce, nella sua forma di moneta, ha l’identico aspetto dell’altra. Quindi il denaro può essere sterco, benché lo sterco non sia denaro. Non di rado, nelle interpretazioni della patologia della psiche, il maneggio del denaro è simbolicamente espressione di coprofilia.
2. La merce è pazzia, dunque, e della pazzia ha in se stessa la medesima contraddizione.
È sul lato positivo di questa contraddizione, sulla sua vitalità, che è opportuno fermare l’attenzione, per una riflessione più accurata. L’analisi da compiere parte da questa elementare osservazione. L’elogio della merce rivendica a essa il profondo senso storico di processo teso all’accelerazione della trasformazione sociale. Proprio in quanto processo, esso è dunque molteplicemente contraddittorio.
2.1 Una prima contraddizione è tra la forma naturale della merce – il valore d’uso – e la sua forma sociale – il valore di scambio.
La contraddizione è tra l’essere prodotto materiale e l’essere valore. L’una forma non si separa dall’altra. Tuttavia la prima bensì sussiste, sia nel concetto sia all’inizio (e alla fine) della storia senza l’altra. Ma essa, nel corso del tempo segnato dal processo reale pratico della storia, non avrebbe potuto rafforzarsi e svilupparsi, se non fosse stato per la mediazione della seconda. Il valore d’uso è debitore del valore di scambio. Per ripetere un noto detto marxiano, solo la “merce fa epoca”.
Tentare di separare, oggi, questi due aspetti della merce è pura fantasia, frutto di un’operazione mentale. Riproporre l’auspicio di uno sviluppo immediato del valore d’uso senza il valore di scambio significa volere far girare all’indietro la ruota della storia – giacché è tuttora improponibile accelerarne per questa via l’avanzamento. Il falso naturalismo ambientalistico del socialismo reazionario e riformistico di tutti i tempi si salda con la fuga in avanti, banalmente utopica, di una soppressione volontaristicamente anticipata delle leggi dello scambio. Una mancata analisi scientifica delle specifiche contraddizioni di classe del capitalismo, nella sua epoca imperialistica multinazionale, è alla base di tali fraintendimenti.
2.2 Una seconda contraddizione riguarda quella particolare forma di merce – la più pazza di tutte – che è la forza-lavoro.
Anche questa discende dalla precedente. Qui pure la duplicità di essa è talmente fondata nella base materiale delle attuali condizioni di esistenza da non poter essere sradicata, nella pratica, dall’oggi al domani; né tantomeno a parole, nelle quali si beano le anime-belle-della-rivoluzione. La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano, richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni materiali di esistenza che a loro volta sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento lungo e tormentoso.
2.3 Una terza contraddizione trae origine dal compimento della trasformazione della merce-denaro in capitale.
Codesto processo storico di svolgimento della produzione – non solo definito lungo, ma anche tormentoso – è necessario per dare fondamento materiale alla comunità degli uomini liberamente associati. Esso non può avvenire che attraverso l’intero sviluppo della forma di merce del prodotto, del denaro, e del lavoro che gli corrisponde, nella forma di capitale, e nel rapporto che lo contraddistingue.
Qui si evidenzia appieno la contraddizione animatrice di quella pazzia sociale che pone il modo di produzione capitalistico come necessità storica. Marx, ripetutamente, non esita a assegnare al capitalismo il compito storico di imprimere un insostituibile impulso al processo di socializzazione delle relazioni tra gli uomini. E se la prende con quei “socialisti” che non capiscono a fondo tale constatazione, e non ne traggono le dovute conseguenze.
2.4 Le contraddizioni che appaiono a uno sviluppo più profondo sono contraddizioni immanenti, implicazioni del sistema della merce.
Il sistema del valore di scambio e più ancora il sistema monetario sono di fatto il sistema della libertà e dell’uguaglianza, le quali – quanto più diviene universale la forma-merce – si rovesciano all’occasione nel loro opposto. E’ un’illusione, che unisce utopisti e benpensanti, quella per cui il valore di scambio non debba continuare a svilupparsi dalla forma di merce e di denaro fino alla forma di capitale, oppure che il lavoro che produce valore di scambio non debba continuare a svilupparsi fino a diventare lavoro salariato. Ciò che distingue i socialisti riformisti piccolo borghesi dagli apologeti borghesi è, per un verso, la sensazione delle contraddizioni del sistema, per l’altro, l’utopismo, il non afferrare la differenza necessaria tra la forma reale e quella ideale della società borghese.
L’elogio della merce ha la medesima valenza della corretta comprensione e collocazione dei compiti storici del modo di produzione capitalistico. Con questa precisazione: che la forma di merce, in quanto forma più generale e meno sviluppata della produzione borghese, è quella che si presenta così presto, nella storia dell’umanità, da coprire un arco di tempo tale che abbraccia epoche molto diverse, non solo quella capitalistica. Le sue trasformazioni storiche, come processo, consentono di delineare scientificamente la possibile prosecuzione del processo storico stesso di tale forma. Ciò si inscrive completamente nella individuazione delle determinazioni (economiche) di transizione. Senza il pieno sviluppo del mercato mondiale, non si dà neppure la possibilità del capovolgimento dell’ordinamento sociale che lo ha generato e che lo sostiene.
3. Le contraddizioni proprie della merce e del capitale sono da sempre e sovente fraintese.
La più estrosa conferma di ciò – si sarebbe tentati di dire: controesempio, visto lo sbalordimento e il generale senso di incomprensione, in cui è gettata una gran parte della “sinistra”, i rivoluzionari irriflessivi, dagli apparenti paradossi di Marx (stile che poi anche Lenin fece proprio) – è racchiusa nel Discorso sulla questione del libero scambio, pronunciato agli inizî del famoso 1848.
Marx, da par suo, spende una dozzina di pagine per inveire in ogni maniera contro l’ipocrisia dei liberali; per asserire che il benessere della classe borghese ha per condizione la miseria della classe lavoratrice; per ricordare che i sermoni liberoscambisti invitano migliaia di operai a morire in tutta tranquillità, senza che gli operai stessi debbano dolersene: la classe operaia non perirà, per lasciare al capitale la libertà di schiacciare i lavoratori! Ebbene, a conclusione di cotal discorso Marx – contro ogni aspettativa ingenua dei socialdemocratici riformisti dell’epoca, i cartisti – annuncia: “Io voto in favore del libero scambio”, perché esso è distruttivo e affretta la rivoluzione sociale. Non potrebbe esserci miglior elogio della contraddizione – più di tre secoli dopo quello erasmiano sulla pazzia. Ancora oggi, par di vedere le facce allocchite delle solite anime-belle-della-rivoluzione sconvolte all’ascolto di siffatta dichiarazione di voto!
3.1 Il nodo da sciogliere per le incomprensioni sull’andamento del processo di trasformazione sociale, sui suoi tempi, sui suoi termini medi, sui suoi apparenti paradossi – in una parola, sulle sue contraddizioni – è difficile.
Sono incomprensioni di ordine storico, teorico e politico. Da questa triplice mancanza di presupposti si arriva, per vie diverse, a un medesimo approdo: l’incapacità di definire una strategia consapevole per la transizione, che sia materialisticamente fondata, per evitare sia il facile ricorso all’uso di frasi rivoluzionarie, velleitarie quanto impraticabili, sia il succubo intrappolamento nel lato negativo della contraddizione, in cui si trovano a loro agio i riformisti, facili prede del punto di vista borghese.
Votare per il libero scambio non voleva certo dire essere liberoscambisti. Elogiare la merce – e il suo processo di trasformazione storica – non implica subordinazione al mercato (come sembra invece fare, ancora oggi, la via del socialimperialismo classico, a Mosca come a Pechino, oppure a Roma come a Berlino).
3.2 Nella storia del mondo, la merce appare come maturità, sviluppo, socializzazione reale.
Nei modi di produzione della vecchia Asia e dell’antichità classica, la trasformazione del prodotto in merce rappresentava una parte subordinata, che pure diventa tanto piú importante, quanto più le comunità si addentrano nello stadio del loro tramonto. Finché la forma di merce non si impone, tali società sono il portato di un basso grado di sviluppo delle forze produttive del lavoro, in quanto poggiano sull’immaturità dell’uomo individuale, che ancora non si è distaccato dal cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini. L’essere sociale – per dirla con Lukács – si sviluppa con il dissolvimento delle forme naturali del lavoro e della produzione originaria.
Dove la merce stenta ad affermarsi, la società si arresta, per cedere poi al suo sopravvenire, interno o esterno. Il modo di produzione antico e il modo di produzione asiatico, prima o dopo, erano inesorabilmente segnati dal destino di dover soccombere all’impero della merce – a dispetto della loro possibile superiorità sotto altri riguardi. L’ateniese si sentiva superiore allo spartano, come produttore di merci, perché lo spartano in guerra poteva disporre di uomini, ma non di denaro.
3.2.1 La storia del mondo è andata avanti per secoli sulla strada della divisione del lavoro, della merce, del commercio.
A turno è venuta la capitolazione del modo di produzione mesoamericano e di quello asiatico. Sono crollate le società feudali. E ogni volta è stata la produzione di merce, immancabilmente, a uscirne vittoriosa. I modi di produzione non mercantili hanno lasciato, tutti, il loro posto a quelli mercantili. Laddove la merce costituiva un germe di contraddizione interna, il processo è stato precoce e portatore di maggiore sviluppo e prospettive di dominio, proprio nei confronti delle società in cui la forma-merce era più estranea.
L’accerchiamento, da parte del mercato mondiale, dei diversi modi di produzione socialisti, tentati parzialmente prima in Urss e poi in Cina, è la conferma più moderna di tutta questa storia. Il successivo cedimento di codesti sistemi al lato prevalentemente negativo della contraddizione della merce serve da insegnamento. Insegnamento in questo senso: una volta fatta la frittata, non si tratta di rivendicare una (mancata e manchevole) opposizione, infantile e da “gladiatori eternamente in lotta” – per dirla con Benjamin – all’inevitabile affermazione del dominio della merce. Il problema sta nel riuscire a capovolgere la contraddizione della merce nelle sue determinazioni positive (rivoluzionarie, come rivoluzionario era il libero scambio), solo che si cominci a capire il senso dell’intero processo storico di massa che la riguarda.
3.3 Nella teoria economica, la merce è una forma che assume connotazioni profondamente diverse secondo il modo di produzione in cui è immersa.
Per non rimanere impigliati nel mondo delle apparenze, occorre scoprire la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la materializzazione dei rapporti sociali, la diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con la loro forma storico-sociale. Solo coloro che sono a tal punto prigionieri degli schemi di un determinato livello di sviluppo storico della società non vedono la necessità della oggettivazione delle forze sociali del lavoro, e la intendono come inscindibile dalla necessità della alienazione di queste stesse forze in opposizione al lavoro vivo.
La merce, il lavoro, il valore, il denaro – e la continuazione del loro sviluppo – trapassano da un modo di produzione all’altro, trasformandosi profondamente, loro stesse. Assumevano forme diverse prima del capitalismo, ne potranno assumere altre dopo. Comunque, interessano soprattutto le loro determinazioni di transizione.
3.3.1 Nell’inseparabilità teorica di valore d’uso e valore di scambio della merce il percorso storico pratico è capace di capovolgerne il rapporto di dominanza.
Solo così il valore d’uso, la forma materiale, può iniziare a superare la sua forma sociale di scambiabilità – negandola e conservandola a un tempo, in quanto riesca a sottometterla alle proprie esigenze. L’inversione di tale rapporto pone la possibilità di ulteriore sviluppo della merce in forma non-capitalistica. (Com’è il caso teorico delle cooperative di produzione e delle opere pubbliche). Anche questa forma superiore di merce conserva i caratteri di larga scala di produzione e di universalizzazione del processo conferitile dal mercato mondiale.
Ciò comporta due conseguenze principali. L’una presuppone la non trasformazione generale del denaro in capitale (almeno nella sua forma privata), con il superamento della determinazione di plusvalore del pluslavoro sociale. L’altra implica la trasformazione del lavoro sociale stesso, conservandone però (almeno in una prima fase) la forma salariata di merce semplice – di nuovo, anche qui, con il superamento della vecchia forma sociale che porta alla creazione di plusvalore. Tutto ciò si sintetizza dicendo ai teorici puri e astratti che – posta, com’è, la produzione socializzata sulla base del capitale – senza merce, e senza una teoria a essa adeguata, non c’è transizione: non si riesce neppure a parlarne.
3.4 In chiave politica, emerge la difficoltà di costruire il socialismo con gli elementi lasciati in eredità dal capitalismo.
Epperò, il socialismo non può che basarsi su elementi interamente corrotti del capitalismo. Discutendo dell’atteggiamento del proletariato sulla democrazia piccolo-borghese, già un anno dopo la rivoluzione d’ottobre e non per mere speculazioni mentali, Lenin concepì chiaramente, e ripetutamente, questa difficoltà – riferendosi sia alla struttura che alla sovrastruttura.
In riferimento alla base materiale, ciò significa bandire ogni illusione e fare i conti con lo sviluppo del mercato mondiale. Il lavoro consapevole, e condotto secondo un piano dai produttori di valori d’uso liberamente associati, è di là da venire: richiede tempi lunghi e tortuosi. Parlarne oggi, senza essere coscienti di tali limiti, è un pericoloso indice di presuntuoso avventurismo intellettualistico. Ciò denota mancanza di qualsivoglia riferimento alla prassi e di ogni elementare conoscenza delle condizioni materiali della riproduzione sociale.
All’esterno, il mercato mondiale costringe il socialismo al confronto quotidiano con il capitale internazionale, alla sua concorrenza, alla sua aggressione, alla sua guerra (non solo commerciale). All’interno, le condizioni sociali, economiche e tecniche, trovate bell’e pronte, si traducono nella necessità di conservare e superare la base di partenza costituita dal “comunismo” del capitale, dal livello storico di socializzazione da esso raggiunto. Lo sviluppo del capitalismo di stato e la Nep, come primissime tappe della transizione, però già entro la formazione economica socialista, sono i due più alti esempi – mostrati da Lenin – di esaltazione del lato positivo della contraddizione della forma-merce. (La sola pronuncia delle parole Nep e capitalismo di stato fa di certo storcere la bocca ai puristi-del-comunismo. Non c’è da stupirsi).
3.4.1 La contraddizione della merce, con i suoi lati antitetici, evidenzia, in termini marxisti, una diffusa incomprensione politica.
Sia la cosiddetta “critica di sinistra” al leninismo, per un verso, sia l’”ideologia curiale” che proclamò anzitempo, in passato, un preteso già avvenuto raggiungimento di obiettivi comunisti, per un altro verso, hanno sempre respinto quella antitesi. L’una e l’altra posizione sono incapaci di individuare ogni determinazione dialettica, e non solo quelle della merce.
Questo terreno, lasciato così disarmato, è stato facilissimamente occupato dalle truppe del liberalismo democratico borghese in seno agli ex-partiti-operai. Per esse la subordinazione alla logica del mercato (e del profitto) e, con ciò, al solo lato negativo della contraddizione, è istintiva. Le esperienze, più o meno recenti, ancora in corso e disastrose, delle “riforme” russe, esteuropee e cinesi lo stanno a dimostrare. Le condizioni reali pratiche per intraprendere una progettualità di transizione si basano materialisticamente sul modo di produzione capitalistico, inteso proprio come punto di transizione epocale in quanto tale, nella fase storica in cui comincia il processo della sua negazione dialettica sulla sua base stessa.
4. La genesi e gli sviluppi funzionali della forma-merce occupano una posizione di rilievo storico tra le forme economiche di transizione.
È bene precisare il posto che la produzione di merce ha avuto nelle contraddizioni proprie dei diversi modi di produzione precapitalistici. Se si è presentata come contraddizione interna, la figura di merce del prodotto ha inciso diversamente nella storia delle formazioni economico-sociali, a seconda del grado di importanza, fino all’essenzialità, che la forma dello scambio rivestiva per la riproduzione sociale. Ciò può aver determinato nelle antiche formazioni economico-sociali in trasformazione un diverso grado di dominanza del valore d’uso sul valore di scambio. Codesta misura stessa ha potuto allora prefigurare, prima o dopo, l’eventuale affermazione di quest’ultimo, in senso propriamente mercantile o capitalistico, entro quel rapporto antitetico in cui andava decisa la posizione di dominanza.
4.1 La merce mostra la sua pazzia nel decidere il rapporto di dominanza tra valore d’uso e valore di scambio.
In alcune società antiche, nel rapporto di produzione ha continuato a prevalere per lungo tempo il valore d’uso sul valore di scambio. In esse si è andata delineando nei secoli una tendenza all’autosufficienza, fino all’autogestione, all’autarchia che Marx, a proposito di Atene, definì contrapposta alla divisione del lavoro. Ma ciò ha potuto durare solo finché tali società non hanno subìto l’impatto esterno con il mondo della merce, con il mercato mondiale. Viceversa, altrove il valore di scambio ha cominciato presto a porsi in posizione antagonistica vincente e dominante nei confronti del valore d’uso, seppure sporadicamente. In quelle società le condizioni di riproduzione del processo vitale venivano a dipendere in misura crescente dallo scambio con l’esterno. Il loro sviluppo storico – e con esso la divisione del lavoro e la tendenza al mercato mondiale – hanno ricevuto un impulso inaudito.
Nella misura in cui il mercato si espande e la produzione per lo scambio si generalizza, si instaura progressivamente il dominio della forma-valore. La storia insegna inequivocabilmente che gli organismi sociali mutano sotto l’urto della merce. Il carattere di valore d’uso in sé e per sé è decisamente recessivo: e resta subordinato al valore di scambio, almeno finché si rimane nel regno della necessità. Le condizioni materiali di esistenza per uscirne richiedono, quanto meno, un elevatissimo sviluppo delle forze produttive sull’intera scala planetaria – conseguentemente, una produzione di massa diffusa ovunque e una forte riduzione del rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto. In una frase, condizione necessaria ma non sufficiente è lo sviluppo capillare del mercato mondiale.
4.2 Laddove la forma-valore si pone come dominante, l’intera società tende ad assumere codesta figura storica astratta come base di tutte le sue altre forme di relazione.
La distribuzione del prodotto netto e l’appropriazione del plusprodotto sociale vengono mediate dalla forma-valore della merce. La determinazione di plusvalore che ne emerge è l’ultimo stadio di subordinazione del valore d’uso. È noto che la forma dell’appropriazione del plusprodotto sociale basata sulla merce capitalistica non inventa lo sfruttamento. Semmai, rendendolo più razionale, lo occulta. Nelle società in cui la contraddizione della merce è poco sviluppata – e perlopiù limitata agli scambi esterni alla comunità – le relazioni si formano sulla base prevalente del valore d’uso. Lo sfruttamento conserva più marcatamente la forma immediata dell’appropriazione di valori d’uso che costituiscono il plusprodotto sociale.
Ma dove la merce ha agito da germe di pazzia, le forme arcaiche di dipendenza personale diretta, schiavistica, servile, ecc., sono state spazzate via. Non c’è posto al mondo dove questo processo sia stato fermato, poiché non poteva esserlo. Tutt’al più è stato rallentato e ritardato, con non lieve nocumento per le società che hanno osato farlo, costrette poi a recuperi forzosi o a sottomissioni tardive e più onerose. L’azione “civilizzatrice” della merce è fuori discussione. Per questa ragione – non è un paradosso, o lo è solo in apparenza – la merce va soppressa, ora! Ma per spazzare via la merce dalla faccia della terra, non basta certo eliminarla per decreto – né con qualche elucubrazione filosofica o prestidigitazione economica. Occorre impossessarsi praticamente del lato attivo della contraddizione che la merce ha in sé. Ciò è possibile solo sviluppando al massimo il suo processo di svolgimento. Ché, al tempo stesso, è il processo del suo deperimento.
4.3 Il ruolo e la funzione della merce nel corso delle transizioni da un modo di produzione all’altro indicano il senso della storia.
Nel trapasso da una formazione economico-sociale all’altra – ove coesistono diversi modi di produzione uno a fianco dell’altro, in diverse posizioni gerarchiche – la merce racchiude le determinazioni teoriche per disvelare l’evoluzione di tali formazioni. Queste, per loro stessa costituzione, essendo caratterizzate dalla compresenza di più modi di produzione di cui occorre individuare rango e gerarchia, trovano proprio nelle alterne vicende della forma-merce il filo che ne imbastisce la storia.
Si sono conosciute società in cui l’ordinamento interno delle forme di relazione è riuscito a conservare a lungo la prevalenza dei caratteri naturali-materiali, ossia del valore d’uso. In esse, evidentemente, la forma di merce del prodotto ha costituito una contraddizione debole. Altrimenti stanno le cose per quelle società in cui il germe della forma-merce, attraverso il dominio del valore di scambio, ha rappresentato qualcosa di più di un accidente sporadico. L’organizzazione della produzione in prototipi mercantili, la divisione manifatturiera del lavoro e l’incessante apertura di mercati, hanno rappresentato una contraddizione forte.
Qui le condizioni materiali di esistenza erano tali da non consentire altrimenti la riproduzione sociale. Là l’autarchia garantiva condizioni vitali sufficienti. I diversi gradi di contraddizione della forma-merce hanno alcune implicazioni dirette. All’esito del rapporto di dominanza tra valore d’uso e valore di scambio si connettono, rispettivamente, sia una divaricazione nello sviluppo storico tra l’autosufficienza della riproduzione e l’espansione dei mercati, sia una diversa funzione del rapporto tra divisione sociale di classe e divisione manifatturiera del lavoro.
4.4 La cristallizzazione della divisione sociale è intrinsecamente in contrasto con la produzione generalizzata di merci.
Laddove predominano le forme naturali del processo di riproduzione vitale si riscontra una maggiore permanenza della divisione della società in caste. La funzionalità dell’organizzazione sociale del lavoro, al contrario, conferisce all’ordinamento della società un più ampio potenziale di trasformazione – e per ciò stesso la potenzialità si capovolge in repressione nel rapporto di capitale – sotto l’egida della cooperazione e del lavoro combinato dell’operaio collettivo.
L’una o l’altra caratteristica in tanto sono presenti in quanto vi siano o meno condizioni di continuità nel dominio di classe ereditato dalle formazioni economiche precedenti. La presenza dominante della contraddizione forte della merce rende più drastico e rapido l’avvicendamento delle classi al potere. Viceversa, la sua forma debole è sufficiente affinché vi sia una continuità intrinseca del potere, anche in corrispondenza dell’estrinseca rottura epocale.
In altri termini, la diversa denominazione delle classi dominanti tra un’epoca e l’altra può essere relativamente irrilevante. Il controllo sulla società non è principio metaeconomico – carismatico, religioso, filosofico, giuridico o culturale – di egemonia e integrazione sociale (come preferisce credere un certo pensiero strutturalista antropologico), ma è controllo della produzione, monopolio delle conoscenze scientifiche e del lavoro intellettuale, e così via. Se le condizioni di trasmissione del dominio sono tali da consentire una certa continuità in tale controllo, il nome che si dà la classe dominante conta poco.
La trasformazione economico-sociale copre con un velo il trasformismo gattopardesco delle classi dominanti di epoche contigue. Siffatta continuità è senz’altro favorita laddove il valore di scambio più stenta a prevalere sul valore d’uso. La storia mostra forme millenarie di trasmissione del potere proprio in corrispondenza di una scarsa rilevanza della contraddizione della merce. La conservazione del potere e del sapere delle classi dominanti è inversamente proporzionale allo sviluppo della forma di merce e di denaro.
5. Il livello di contraddizione del processo di svolgimento della merce determina storicamente il mutamento delle forme economico-sociali e dei rapporti di proprietà.
Il sorgere delle società di classe – come formazioni economico-sociali che collegano, dopo la preistoria dell’umanità, modi di produzione antichi con modi di produzione moderni, attraverso epoche di transizione – rappresenta una casistica particolarmente significativa per lo sviluppo storico delle società umane, in relazione allo svolgimento della forma-merce. Lo stesso concetto di società di classe, pur rappresentando la forma storica universalmente dominante, in quanto contrapposta ai precedenti modi di produzione comunitari primitivi, richiede precise definizioni proprio rispetto al tipo di contraddizioni economiche che lo segnano.
In relazione al processo di svolgimento della merce, si possono distinguere due modi attraverso i quali si sono sviluppate le società di classe. Non solo codeste società hanno forme diverse, ma differiscono anche le loro origini. Diverse sono la base e le condizioni dei modi di produzione primitivi che le hanno precedute e, talvolta, anche l’ordine di successione delle formazioni sociali che si sono avvicendate. Necessariamente, neppure le storie delle diverse transizioni a modi di produzione successivi possono essere uguali. Al di là degli indubbi punti di confronto, interessano maggiormente le differenze specifiche.
Gli storici hanno l’arduo compito di indagare dettagliatamente fatti e avvenimenti che hanno caratterizzato la storia mondiale, in un ambito ben più vasto dell’eurocentrismo. Ma non è necessario scrivere la storia reale dei rapporti di produzione per analizzare le leggi dell’economia borghese e la trasformazione storica che le ha prodotte.
5.1 Lo sviluppo storico delle società e dei modi di produzione ha seguìto due vie diverse rispetto alla contraddizione della merce.
Le due serie considerate di termini contrapposti discendono dalla forma duplice della merce. Il prevalere dei termini della prima serie – valore d’uso, autarchia, divisione di classe sotto forma di caste, continuità relativa del dominio sociale, ecc. – caratterizza la via che qui è stata chiamata contraddizione debole. I secondi termini – valore di scambio, mercato mondiale, divisione manifatturiera del lavoro, maggiore discontinuità delle forme di potere, ecc. – indicano viceversa la via della contraddizione forte.
La prima via è stata presumibilmente seguìta da quelli che comunemente sono riuniti nella definizione di modi di produzione orientali. La seconda via dal percorso forma germanica → feudalesimo → società borghese in occidente. La distinzione qui operata è funzionale allo studio delle determinazioni economiche di transizione, delle indicazioni che il passato fornisce per la transizione socialista. Si riconosce, peraltro, la validità di tutte le buone ragioni avanzate dagli storici per non proporre affatto una trasposizione meccanica dei moduli delle precedenti transizioni alla transizione socialista. Ma, appunto, la storia è ben altra cosa che semplice meccanicismo diacronico. Non a caso – proprio per le differenze economiche specifiche sottolineate – vi è la constatazione preliminare che le antiche società orientali e quelle occidentali hanno posto in essere tipi molo diversi di transizione. Così, a es., mentre in occidente il feudalesimo è sinonimo, per antonomasia, dell’ultima forma economica preborghese, altrettanto non può dirsi, almeno per il diverso significato di categorie omologhe, in oriente dove tale passaggio non è posto come necessario.î
5.2 Le formazioni economico-sociali orientali, riposando sulla contraddizione debole della merce, insistono sulla conservazione di rapporti di dominanza personali-naturali.
Esse si chiudono entro vincoli localistici e limitano il mercato agli scambi delle eccedenze, esterni alla comunità (i grandi emporî). La merce non è immanente. Tutti questi caratteri di fondo – agendo sulla specifica forma di proprietà – hanno consentito il consolidamento moderno e ad alto livello, in una contaminazione con le peculiarità orientali del feudalesimo, del cosiddetto modo di produzione asiatico (o modi similari). Proprio questi medesimi tratti di continuità, e il mancato salto storico nell’astrazione della forma-valore della merce, denotano un’irrisolta insistenza e alternanza di elementi feudali sul modo di produzione asiatico stesso.
Ciò ha reso meno difficili episodi e fasi di reversibilità a carattere più spiccatamente feudale. Codesti episodi, tuttavia, ogni volta che venivano ricacciati entro l’alveo del potere centrale, non facevano che rafforzare le determinazioni economiche specifiche di tale potere. Tali fasi sembravano quasi costituire frammenti di transizione interna a forme superiori del medesimo modo di produzione asiatico. (Non a caso, a proposito della Cina moderna, vi è un’estrema incertezza e variabilità di giudizio sul carattere di produzione feudale oppure di produzione asiatica attribuito alle forme reali pratiche contro cui si è battuta, e che a loro volta hanno poi battuto, la rivoluzione maoista. Analoga esperienza era toccata anche al dibattito sulle comuni rurali russe di contro alla rivoluzione sovietica. Il grado di contraddizione raggiunto dalla forma merce aiuta a capire meglio tali problemi).
5.3 Il percorso seguito dalle formazioni economico-sociali occidentali fa leva sulla contraddizione forte della forma-merce.
Su quest’altra faccia della terra, la merce è immanente, e il salto nell’astrazione del valore è completo. La pazzia della merce cresce dalla stesso processo economico: le forme astratte dominano su tutte le altre forme di relazione sociale. Il processo storico mostra rapporti di potere che si rivoluzionano più profondamente in forme di dominio impersonali, prospettive che si aprono verso valenze universali, mercati che coinvolgono dapprima tutti i rapporti interni alla comunità, per tendere verso la dimensione mondiale. Anche se tutto ciò abortisce nel grembo del capitale, il mutamento potenziale è posto.
Questi caratteri fanno la differenza rispetto alle società orientali. Grazie anche alla differenza specifica della forma di proprietà, la produzione mercantile semplice si presenta come una figura di transizione storicamente necessaria per spianare la via al modo di produzione capitalistico. Qui, a differenza del caso storico precedente, è proprio il compimento del salto storico nella forma-valore, racchiuso nella merce, che spiega le ragioni della pratica irreversibilità storica della società borghese verso elementi di tipo feudale, o comunque ormai dell’impossibile alternanza verso forme pregresse.
In ciò risiede una motivazione teorica più che convincente circa l’universalità con cui – grazie alla merce – il capitalismo supera tutti gli altri modi di produzione che lo hanno preceduto o accompagnato. Il capitale non può che conquistare le altre formazioni sociali bloccate o cristallizzate nel loro particolarismo. Dal capitalismo non si torna più indietro: si può solo avanzare – contraddittoriamente, e perciò non necessariamente progredendo verso la libertà e non sempre felicemente – nello svolgimento del processo della merce. Il socialismo ne rappresenta solo una forma e una tappa possibile, dai tempi quanto mai incerti. Il riscontro storico pratico di questa argomentazione teorica non ha alcun bisogno di dimostrazione. È nei fatti.
6. Il cambiamento storico delle forme di proprietà (reale, prima che giuridica) segna i diversi modi di produzione col processo della merce.
È possibile un confronto tra le determinazioni generiche del modo di produzione asiatico e del modo di produzione capitalistico. Essi sono visti bensì come esiti diversi della storia delle società di classe. Ma alla luce di una loro puntuale analisi, essi sono capaci di esibire un numero di categorie di comparazione e di determinazioni comuni molto maggiore di quanto solitamente si ritenga. Cominciando dalle forme primitive della proprietà comune, si pone la ricordata questione della formazione, prima, e della continuità o meno, poi, delle classi dominanti di epoche contigue.
6.1 Il diverso sviluppo della proprietà privata individuale costituisce un elemento critico della storia sociale.
Per interpretare le condizioni di dominio reale sulla società, codesta è la forma da indagare, di contro alla proprietà comune nei modi di produzione antichi. Questo elemento rappresenta il carattere critico del dissolvimento delle società antiche – proprio in quanto si sia presentato nella storia come contraddizione immanente, interna al modo di produzione in quanto tale. Nella misura in cui lo è, la contraddizione stessa tende a svilupparsi, com’è nella sua propria dialettica.
In relazione alla diffusione della proprietà privata individuale, l’esperienza occidentale e quella orientale registrano storie diverse. Ed è proprio la merce a conferirne il segno. Senza dubbio le diverse condizioni geografiche, climatiche, ambientali, demografiche – in una parola, le condizioni naturali di partenza – hanno impresso alla produzione, e alla cultura corrispondente, tendenze divergenti. Ma è il germe della merce – ancorché costretto alla latenza dalla perdurante subordinazione del valore di scambio al valore d’uso – che si affaccia nella storia interna delle antiche civiltà occidentali con ben altra prepotenza che in oriente.
Se il modo di produzione asiatico, in cui teoricamente si inscrivono la civiltà egiziana e quella etrusca, si è arrestato nel Mediterraneo, non fu certo per una sua inferiorità sul piano sociale, culturale o tecnologico. Fu il germe dello scambio, e della corrispondente divisione del lavoro produttivo, a consentire l’affermazione di Atene e Roma nella civiltà mediterranea.
Ancor più il discorso vale per lo sviluppo del modo di produzione germanico, e centroeuropeo in genere. La tendenza alla produzione mercantile era una caratteristica già interna alla forma della proprietà privata individuale – e indipendente – del feudalesimo occidentale. Indipendenza e tendenza che mancavano, o erano troppo fragili, in quello che spesso viene chiamato pseudo-feudalesimo orientale, subordinato sempre a momenti di riferimento autoriproduttivo, più o meno centralizzato. La civiltà cinese, a differenza di quella egiziana o dell’Asia minore, ha potuto resistere nei secoli. Lo scambio non aveva raggiunto un peso tale da condizionare la conservazione del potere.
6.2 La proprietà privata di classe come classe è la principale forma di negazione, conservazione e superamento, fin qui manifestatasi nella storia, della proprietà privata individuale.
Le diverse vie di superamento della società di classe, nelle sue differenti forme storiche, passano necessariamente attraverso la negazione di quella forma negativa della proprietà originaria che è la proprietà privata, in generale. Ma prima ancora che le classi siano soppresse, e con esse le loro formazioni sociali finora conosciute, sono le stesse società di classe che si trasformano al loro interno, trasformando i rapporti di proprietà privata su cui si fondano. Innanzitutto, laddove la incontrano, si scontrano con la necessità di negazione della sua forma elementare – la proprietà privata individuale, più o meno indipendente. In questo ambito, la principale forma di negazione della proprietà individuale è la proprietà capitalistica – sempre proprietà privata, ma di livello superiore.
Anche la proprietà privata individuale è di per sé proprietà di classe, ma come proprietà di singoli individui che formano la classe. Diversamente stanno le cose per la proprietà della classe come classe, della classe in quanto tale. Non solo le basi della socializzazione sono molto più estese, ma essa è soprattutto qualitativamente diversa. Qui è la classe che subordina gli individui: i proprietari sono tali solo in quanto appartengono alla classe, e non sono loro a formarla.
Questa forma di proprietà sembra essere fin qui, nella storia mondiale, un punto d’approdo comune dei diversi percorsi seguìti dalle società di classe, in occidente come in oriente. Epperò ciò si manifesta con specificità storiche differenziate, quanto lo sono le diverse formazioni economico-sociali. Questo elemento comune, come gli altri, del resto, rimane perciò subordinato a quelle differenze specifiche.
6.3 La forma fondamentale comune può essere indicata nel passaggio storico epocale dal lavoro singolo al lavoro collettivo.
Anche se codesto passaggio, nei diversi modi di produzione, non è necessariamente coevo – attraverso la cooperazione semplice e poi il lavoro sociale combinato – questa forma fondamentale comporta la grande trasformazione della produzione su larga scala. Tale trasformazione egemonizza la perdurante produzione parcellizzata, attraverso grandi opere, lavori pubblici, impianti, macchine e coordinamento dei rapporti materiali di produzione a essa adeguati.
Elementi di questa forma fondamentale comune rimangono ancora la non-proprietà dei produttori (maggioranza) e l’estorsione di plusprodotto a costoro mediante la costrizione al pluslavoro da parte della classe proprietaria (minoranza). In questa forma comune predomina l’appropriazione di classe, per se stessa, del pluslavoro altrui, collettivo e combinato socialmente – quindi anch’esso non più individuale. Né la forma storica capitalistica, né quella asiatica – dal punto di vista delle modalità del rapporto di appropriazione della natura – sono portatrici di una rottura epocale effettiva. In entrambe permane l’espropriazione della maggioranza di produttori non-proprietari da parte di una minoranza di proprietari non-produttori.
Ma in questi modi di produzione per la prima volta riappare la generalizzazione di una forma socializzata di proprietà – dopo la lunga era seguìta al dissolvimento della proprietà comune primitiva. Quella si afferma ancora sotto la forma di dominio di classe come classe, e di coercizione nei confronti della classe maggioritaria dominata. Codesto dominio, da un lato, presenta tutte le contraddizioni interne che la contraddizione di classe comporta, ma, dall’altro, è capace di esprimersi in libertà formali tali da conquistare alti livelli di consenso. Fin qui la forma comune.
7. La differenza specifica della dinamica delle classi sociali nel modo di produzione capitalistico e nel modo di produzione asiatico ha differenti esiti sul processo di trasformazione sociale.
Le ragioni del dominio planetario – astratto, espansionistico, irreversibile – del modo di produzione capitalistico, in virtù della merce, dovrebbero essere chiare a chiunque. I fatti lo dimostrano quotidianamente. Qualunque tentativo di restaurazione di forme della produzione pregresse – in nome di fantomatici ritorni alla Natura, all’Uomo, alla Giustizia, allo Spirito, alla Fede, e quant’altro scrivibile con la maiuscola – si dimostra fallimentare e reazionario in senso etimologico. Ancorché illiberale e repressivo, il capitalismo è storicamente progressivo rispetto alle forme precedenti.
Su queste basi è lecita una comparazione delle differenze con il livello alto del modo di produzione asiatico – l’altra forma storica socializzata. Nella prosecuzione (e conclusione?) della sua storia, la forma-merce può oggi esperire praticamente la compensazione tra le determinazioni positive dei due modi di produzione socializzati.
7.1 La riproduzione del processo vitale partecipa delle diverse contraddizioni, complementari, poste dalla socializzazione reale.
Si è da più parti sostenuto, esagerandone le ragioni, che il modo di produzione asiatico presenta aspetti comunitari che ne esaltano gli elementi di autogestione e di autocontrollo. Certo, questa è solo l’apparenza – apparenza reale, però, tale cioè da non vanificarsi entro rigidi schemi dispotici – di una proprietà di classe per sé, altamente strutturata centralmente e mistificata in forme periferiche di indipendenza formale. Ma quegli aspetti che appaiono nelle relazioni sociali tengono realmente per la mancanza sistematica del dominio della forma astratta di valore. Talché la negazione pratica della proprietà privata individuale attuata nel modo di produzione asiatico, tramite il possesso comune, sperimenta positivamente quella mancanza sistematica.
La riproduzione vitale non dipende lì necessariamente dalle forme di merce e di denaro. Ciò consente lo sviluppo della produzione sociale già come produzione perlopiù immediata di valori d’uso. La delega formale del controllo del processo immediato di produzione alle comunità periferiche, da parte del potere centrale, costituisce di fatto un impedimento posto contro l’alienazione e l’espropriazione del processo materiale di lavoro. È vero che il sapere sociale è cristallizzato nel monopolio del lavoro intellettuale da parte della classe dominante. Ciò tuttavia è compensato da una più articolata ripartizione del lavoro sociale, capace di ostacolare la diffusione della crescente divisione e parcellizzazione del lavoro manuale.
Sull’altro versante, la socializzazione posta dal capitale, nel superamento della proprietà privata indipendente, si avvale pienamente dell’universalità del suo modo di produzione contro tutti i limiti localistici. Il simbolo più rappresentativo di ciò è dato dalla forma-denaro della merce, che si spoglia delle sue forme locali come moneta mondiale, dispiegando universalmente il proprio valore. Il modo di esistenza del capitale come denaro universale è adeguato al suo concetto ed è la realizzazione del lavoro umano in astratto, in forma immediatamente sociale.
7.2 L’adeguatezza universale della forma del lavoro può essere raggiunta solo col massimo sviluppo della merce su scala mondiale.
Essa rimane quindi proibita alla socializzazione di tipo asiatico. Non a caso è dal modo di produzione capitalistico che provengono quelle forme generali di controllo e progettazione della produzione immediata, sconosciute all’estensione troppo parziale dell’autosufficienza riproduttiva. Quest’ultima tuttavia è capace, al contrario, di sottrarsi all’anarchia dei mercati.
Così pure, mentre la divisione capitalistica del lavoro esaspera la riproduzione solo artificiosa di quella manifatturiera, nell’automa della grande industria, essa spezza però potenzialmente il monopolio del sapere di classe, quale invece si conserva agevolmente nelle caste cristallizzate. Lo spettro hegeliano del servo-padrone si materializza – con la merce come medium – nel crescente esautoramento del capitalista proprietario dal processo della produzione immediata.
Vengono così poste le condizioni – solo le condizioni, però – di superamento delle forme irrigidite di divisione sociale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra progettualità ed esecuzione. Non che abbia senso confondere questi due livelli di lavoro: ché anzi, proprio con il processo di sviluppo della merce, essi mostrano appieno tutta la ricchezza della loro specificità, in una prospettiva sempre crescente di socializzazione del lavoro collettivo e combinato, tendente verso una possibile ripartizione pianificata e cosciente di un tempo di lavoro ridotto. Gramsci osserva che quanto più il lavoro è ripetitivo, parcellizzato e diviso, tanto più il lavoratore comprende di essere unito, essenziale e appartenente alla classe. È in condizione di maturare compiutamente la propria coscienza di classe, pervenendo per tal via, come dice Hegel, all’unità spirituale dell’essere sociale.
7.3 Tutte le determinazioni positive della contraddizione possono essere afferrate solo dalle forme di socializzazione che attraversino la mediazione dei caratteri antitetici della merce.
Il lato positivo, dominante, del processo storico di trasformazione è situato nel solco del modo capitalistico. Ma il lato negativo, recessivo, indicato dalla forma asiatica, non è meno essenziale al movimento dialettico: ne costituisce appunto il polo opposto – lo yang e lo yin, per restare in atmosfera cinese. Come nella Cina di Brecht, la dolce Shen-te, l’anima buona del Se-zuan, deve sdoppiarsi nel bottegaio Shui-ta, suo cugino, imparando a essere inumana e spietata per creare migliori condizioni di vita intorno a sé: “per assicurarti un pranzo, devi avere la durezza di un fondatore di imperi”.
Senza merce, niente rivoluzione! – può essere un’autoironica parola d’ordine, in elogio della pazzia.
Le determinazioni di transizione generate dai due modi di produzione socializzati storicamente conosciuti e affermati – capitalistico e asiatico – sono suscettibili di complementarità, in favore del modo di produzione socialista. La forza o la debolezza della contraddizione della merce fa da spartiacque. La forma-merce trova conservate quelle sue determinazioni che traggono origine dal primo aspetto e negate quelle implicate dal secondo. Il superamento dialettico non può che avere caratteri di reciprocità, entro una gerarchia definita.
Marx ravvisò in tal senso nelle società per azioni, nel capitalismo di stato borghese e nelle cooperative, la negazione – negativa e positiva, rispettivamente – della proprietà privata capitalistica sulla base del capitale stesso. Non vi era alcuno scrupolo e alcuna concessione etica in quel giudizio – a differenza dei pruriti moralistici dei moderni puri-intellettuali-della-rivoluzione. Il medesimo distacco cinico serve nell’estensione del processo di appropriazione della classe per la classe nell’epoca dell’imperialismo, col grande capitale finanziario multinazionale, col capitalismo di stato o col cooperativismo capitalistico.
7.4 Molti caratteri delle moderne forme di socializzazione richiamano oggettivamente entrambi i modi di produzione, capitalistico e asiatico.
Il capitale di stato sperimentato per decenni nelle economie pianificate o di comando – dall’Urss alla Cina, ecc. – riveste queste caratteristiche. Così come, per altri versi, le riveste la partecipazione statale alla sfera produttiva nei paesi capitalistici, soprattutto laddove la sua curiosa peculiarità è una voluta e necessaria inefficienza. In ambedue i casi – a dispetto della forma e della parola capitale, che pure rimane la più appropriata sia per l’una che per l’altra – non si tratta certamente di capitalismo nel senso compiuto e puro del termine. Gli elementi di centralizzazione arbitraria, dispotica e burocratica, accompagnano quasi sempre la vanificazione del dominio astratto della legge del valore, e ancor più del plusvalore.
In ogni caso si assiste, è vero, a una perpetuazione o a una restaurazione del dominio di classe: che, laddove non è radicamento ereditario della borghesia, è trasformismo rampante di una nuova frazione della classe dominante, a est come a ovest. Tuttavia, fuori da ogni moralismo, quanto più questo processo ibrido è costretto ad abbandonare per trasformare, dopo quella individuale, anche la forma privata della proprietà di classe – travestendola da forma pubblica, al di là delle terminologie postmoderne sulla privatizzazione – tanto più esso è autocontraddittorio.
Analoghi processi di ibridazione possono sperimentarsi nella connessione tra divisione manifatturiera del lavoro e divisione sociale di classe del lavoro intellettuale e manuale. La trasmissione e il controllo delle conoscenze, consentiti dalla rivoluzione tecnologica dell’automazione microelettronica, offrono la prospettiva, ancorché remota, di spezzare in più punti la contraddizione forte della merce e di capovolgerne l’attuale rapporto di dominanza del valore capitalistico.
8. La forma-merce stessa autodeperisce di pari passo con la trasformazione del mercato mondiale, ormai endemicamente saturo.
La merce, con la sua pazzia, è stata la sola determinazione storico-economica capace di condurre agli attuali livelli la produzione sociale di ricchezza. Anche la scienza, come forma più pura e generale di ricchezza sociale, è il risultato di questa storia. Purtuttavia, la merce e la scienza che l’accompagna diventano forze autodistruttive. Come la merce sfugge dal mercato, in un complesso sistema di ordinativi e commesse statali, integrato da programmi di triangolazioni e baratti diretti di merci tra loro, come cose, così la scienza asservita al capitale, per riprodurlo, distrugge la sua base naturale. Si stanno così creando le condizioni materiali e formali per rendere estrinseco e palese il deperimento della forma-valore della merce e della sua scienza. Codeste condizioni puntano all’inversione del rapporto di dominanza tra valore di scambio e valore d’uso. Ciò non vuol dire fine immediata della storia della merce. Al contrario, si può presumere che essa sia ancora molto lunga. Ma può ben essere ridefinita, proprio in funzione di quella inversione, affrettando innanzitutto la spoliazione della sua forma capitalistica di plusvalore.
8.1 “L’abituale horror che dinnanzi alla contraddizione prova il pensiero rappresentativo, non speculativo, si ferma alla considerazione unilaterale della risoluzione della contraddizione nel nulla, e non conosce il lato positivo della contraddizione, secondo cui essa è attività assoluta e diventa assoluto fondamento o ragion d’essere”.
L’horror schernito da Hegel non è prerogativa del pensiero dominante. Questo risolve unilateralmente nel nulla la contraddizione della merce – come ogni altra contraddizione capitalistica. Per esso il denaro è la pazzia assolutamente non contraddittoria. Ma lo stesso horror contraddistingue anche il pensiero, a dire il vero poco “rappresentativo” e altrettanto unilaterale, della critica infelice. Molte anime-belle-della-rivoluzione provano codesto horror di fronte alle determinazioni formali della merce e in relazione alle sue conseguenze pratiche: l’imprescindibile definizione categoriale autonoma del socialismo in quanto modo di produzione, con il mercato, nelle sue forme specifiche per ogni merce incluse il denaro e la forza-lavoro, come determinazione intrinseca necessaria, e con il capitale di stato, sotto il controllo proletario consapevole e pianificato, come forma transitoria.
Lenin provò a insegnare questo primo passo, come termine medio iniziale di un più vasto processo che, attraverso forme pianificate di produzione non-capitalistica di merce su larga scala, conduca alla sua stessa autosoppressione e alla ripartizione cosciente del tempo di lavoro. Forse il tentativo fu prematuro. Ma la dominanza del valore d’uso sul valore di scambio, entro la forma-merce, può porsi per la prima volta come rottura storica del rapporto tra maggioranza dei produttori e minoranza da espropriare. Il lato positivo della contraddizione della merce diventa l’attività assoluta che si pone a fondamento del socialismo come modo di produzione capace di subordinare a sé gli altri modi compresenti nella società di transizione.
Grazie dello scherzo, Erasmo: applaudite, state sani, bevete, o rinomatissimi adepti della Merce.
II. TRIONFO DEL MERCATO
contraddizione tra l’unificazione della produzione mondiale e il suo sviluppo stesso
OMAGGIO A MARX – DA MARX
Io sono incomprensibile – e questo è il massimo
cui posso arrivare.
[Manoel De Oliveira, Ieri e oggi]
Il capitale è nello stesso momento un porre e non-porre il lavoro necessario;
esso è solo in quanto questo è e nello stesso tempo non è.
[Marx, Lineamenti]
I figli hanno rapporti di scambio con i loro genitori
e gli pagano vitto e alloggio.
[Karl Marx, Valore, Lineamenti]
Nessuno o tutti – o tutto o niente.
Non si può salvarsi da sé.
[Bertolt Brecht, Nessuno o tutti]1. “Nel mercato mondiale la produzione è posta come totalità così come ciascuno dei suoi momenti, in cui però nello stesso tempo tutte le contraddizioni si mettono in movimento…”
Così Marx inizia un’osservazione sintetica, tra le più significative sul ruolo storico dell’unificazione del mercato mondiale, nelle primissime pagine del Quaderno II dei Lineamenti fondamentali. La parte finale di codesta citazione è qui rimandata come conclusione di queste considerazioni, per potere così riempire lo spazio intermedio con una rielaborazione di tutte le più interessanti osservazioni marxiane sul mercato mondiale come totalità di riferimento per il moderno capitalismo monopolistico finanziario internazionale.
Il mercato mondiale apre, nel secolo XVI, la storia moderna della vita del capitale . Proprio in quel secolo, nel suo celebre apologo, Erasmo – dall’Olanda, allora prima potenza commerciale mondiale – considerò tutto ciò che gli uomini facevano come “un ammasso di sciocchezze”. Tre secoli dopo, Marx – dall’Inghilterra divenuta prima potenza industriale mondiale – definì tutta la produzione capitalistica come “un’immane raccolta di merci”. In codesto binomio è possibile ravvisare, a livello mondiale, la contraddizione della merce che concresce con la follia.
Si può supporre dunque, completando l’arco storico dopo cinque secoli, che l’unificazione del mercato mondiale apra, nel secolo XXI, la storia moderna della morte del capitale. La totalità del mercato mondiale consente di vedere le leggi di movimento del capitale, per così dire, solo ingrandite e estese alla loro dimensione più consona e alla loro forma ultima. Di qui l’importanza di comprendere appieno la straordinaria anticipazione e attualità della percezione delle sue contraddizioni e del loro stesso sviluppo.
Anche una categoria semplice come la merce – e con essa il mercato – che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per differentissime forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna, e definitivamente compiuta nel mercato mondiale. Anche le categorie più astratte che siano valide per tutte le epoche, sono tuttavia il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni.
1.1 Tre sono le caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica che denotano il suo sviluppo e le sue tendenze.
i. La concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione, che si trasformano in potenze sociali della produzione, solo in un primo tempo storico – per quanto lungo possa essere – nella forma di proprietà privata dei capitalisti, quali mandatari della società borghese.
ii. L’organizzazione sociale del lavoro, che – mediante la cooperazione, la divisione del lavoro e l’unione del lavoro con le scienze naturali, in seguito alla concentrazione dei mezzi di produzione – sopprime, sia pure in forme contrastanti, il lavoro e la proprietà individuale.
iii. La creazione del mercato mondiale, appunto, dove si evidenzia il contrasto tra l’enorme forza produttiva, che si accresce molto più rapidamente della popolazione, e la base – sempre più angusta e folle, per le condizioni di valorizzazione capitalistica cui è sottoposta – per cui essa lavora. Da questo contrasto hanno origine le crisi, prima, e le possibilità di trasformazione del modo di produzione, poi.
Si ricordi che, nel progetto marxiano di critica dell’economia politica, il mercato mondiale, e le crisi che l’accompagnano, costituiscono l’ultimo stadio dell’analisi del modo di produzione capitalistico. Infine – annota infatti Marx – occorre studiare il mercato mondiale, in connessione con l’egemonia della società borghese sullo stato e con le crisi, avendo come obiettivo il dissolvimento del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio, per il reale porsi del lavoro individuale come lavoro sociale e viceversa.
1.2 Il modo di esistenza del capitale diventa adeguato al suo concetto solo sul mercato mondiale.
Nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore, dove la loro forma autonoma di valore si presenta di fronte a esse come moneta mondiale. Qui soltanto il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in astratto.
È soltanto il commercio internazionale, lo sviluppo del mercato in mercato mondiale, che provoca lo sviluppo del denaro in denaro mondiale e del lavoro astratto in lavoro sociale. Ricchezza astratta, valore, denaro, quindi lavoro astratto, si sviluppano nella misura in cui il lavoro concreto diventa una totalità di differenti modi di lavoro che abbraccia il mercato mondiale.
L’adeguamento del capitale al suo concetto, nell’unificazione del mercato mondiale, ha inverato anche la dissoluzione del realsocialismo e del post-comunismo. I prossimi saranno tempi duri, nei quali c’è da aspettarsi ogni sorta di difficoltà. Il potere borghese sovranazionale frammetterà ostacoli e opporrà violenza ai superstiti comunisti non pentiti – in nome della libertà del mercato, dell’uguaglianza del valore.
1.3. Il sistema del valore di scambio, del denaro e del capitale è effettivamente il sistema della libertà e dell’uguaglianza.
Si tratta, ovviamente, della trasfigurazione di vere relazioni egualitarie, ma che è l’unica possibile e realmente adeguata entro il modo di produzione capitalistico. La produzione capitalistica si basa infatti sul valore, ovvero sulla trasformazione coatta del lavoro contenuto nel prodotto in lavoro sociale. E sul valore di scambio, sul denaro, sul capitale – appunto sulla proprietà, sul controllo e sulla disponibilità di essi – si basa anche lo sviluppo del sistema dell’uguaglianza e della libertà borghese: uno sviluppo libero su una base limitata, cioè adeguata al capitale, i cui disturbi, lungi dall’essere conseguenza dei tentativi falliti di realizzare libertà e uguaglianza nella loro vera natura, sono invece disturbi immanenti al sistema stesso del mercato, che proprio perciò si mostra come sistema della disuguaglianza e dell’illibertà.
Ma tali sviluppi contraddittori, e i loro esiti, sono possibili compiutamente solo sulla base del commercio internazionale e del mercato mondiale. Il valore di scambio non può esistere altro che come relazione astratta, unilaterale, di una totalità vivente e concreta già data. Come semplice categoria, invece, il valore di scambio ha un’esistenza antidiluviana. Ed è precisamente questa circostanza che fa della storia della merce, e del suo sviluppo contraddittorio, a un tempo la precondizione e il risultato della produzione capitalistica.
È un desiderio tanto pio quanto sciocco che il prodotto non si trasformi in merce e la merce in denaro, che il valore di scambio non si sviluppi in capitale, e il lavoro in lavoro salariato. Il mercato mondiale nella sua unificazione è la determinazione storica in grado di porre la merce in quanto forma universalmente necessaria del prodotto, in quanto peculiarità specifica del modo di produzione capitalistico. Ciò si esprime tangibilmente nello sviluppo della produzione su larga scala, nella unilateralità, e nel carattere di massa del prodotto. Ma sono proprio le espressioni tangibili di quella forma universale che – attraversando ugualmente le tre principali aree imperialistiche – impongono il ricordato sviluppo del denaro in denaro mondiale.
2. Il sistema monetario internazionale assume un rilievo sempre maggiore nel capitalismo contemporaneo.
La ragione di ciò va ricercata proprio nel fatto che premessa e condizione della produzione capitalistica è la produzione per il mercato mondiale e la trasformazione del prodotto in merce, quindi in denaro. D’altronde, l’accrescimento illimitato del valore del capitale si identifica assolutamente con la creazione di ostacoli nella sfera dello scambio, ossia nella possibilità di valorizzazione, di realizzazione del valore creato nel processo di produzione.
Così le crisi che ne conseguono, in cui si scatena il conflitto di tutti gli elementi della produzione borghese, fin dal secolo scorso non erano più fenomeni economici isolati, ma grandi tempeste del mercato mondiale. Raccogliendo allora i vari elementi qui considerati, si spiega subito perché la loro origine e i mezzi per fronteggiarle siano ricercati – da parte dei monetaristi di ogni tempo, “questi meteorologi economici”, come li chiamava Marx – nella sfera più superficiale e astratta di questo processo, la sfera della circolazione monetaria appunto.
Con buona pace del senso di superiorità ostentato dagli economisti moderni, in periodi di crisi generale è il denaro universale – la moneta mondiale in quanto rappresentante del valore nella sua forma più astratta e ancora ben raffigurata, seppure in veste simbolica, dall’oro – che si presenta esattamente nella determinazione di misura della potenza delle diverse nazioni.
2.1 Il denaro fa valere sul mercato mondiale la distinzione tra le sfere interne o nazionali della circolazione delle merci e la loro sfera generale.
La sua funzione di mezzo di acquisto internazionale si vede essenzialmente tutte le volte che viene perturbato all’improvviso l’equilibrio abituale dello scambio commerciale tra varie nazioni, e quando il trasferimento della ricchezza da un paese all’altro in forma di merci è escluso o dalla congiuntura del mercato o dallo scopo, speculativo, che si deve ottenere. L’inconvertibilità e la perdita di rappresentatività del dollaro, la fine degli accordi di Bretton Woods, e la conflittualità valutaria interimperialistica ne sono la conferma. D’altra parte, il fatto che i capitali nazionali siano liquidi in misura notevolmente superiore al loro livello medio, indica un ristagno della circolazione delle merci o una interruzione nel flusso della metamorfosi delle merci. L’ultima grande crisi da sovraproduzione degli anni settanta ha provocato, proprio a causa della pletora di capitale monetario, la crisi del credito (e non del debito!) internazionale.
Il mercato mondiale – in quanto punto d’approdo della produzione capitalistica transnazionale, e perciò indipendentemente dalle condizioni della produzione di ciascun singolo paese – ha dunque un’influenza sulla determinazione del tasso d’interesse molto più di quanto possa avere sul tasso di profitto. Questo spiega sia i motivi del concreto conflitto sulle politiche monetarie e sulle speculazioni borsistiche internazionali tra governi e banche centrali dei paesi imperialistici, sia anche le ragioni virtuali per cui gli economisti meteorologi sono andati di moda in questi ultimi anni.
2.2 Il sistema creditizio affretta lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale.
In questa funzione, il sistema capitalistico ha il compito storico di costruire così, fino a un certo grado, il fondamento materiale della nuova forma di produzione. In tal senso, l’attenzione con cui seguire le tendenze contraddittorie di sviluppo del mercato mondiale diventa una prospettiva strategica di lotta per la possibile trasformazione comunista della società.
Il credito, infatti, affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi, e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio modo di produzione. Esso costituisce così una forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione.
Gli elementi – amplificati dal credito e dal sistema monetario in generale – sono appunto quelli riguardanti lo sviluppo materiale delle forze produttive nel mercato mondiale, la trasformazione della produzione industriale, la combinazione del lavoro sociale, la rivoluzione tecnologica e l’intelligenza scientifica nel ricambio organico con la natura. In questi elementi è il nodo reale della transizione sociale.
3. L’enorme capacità del sistema capitalistico industriale di espandersi a balzi dipende dal mercato mondiale.
Le sorti delle principali aree imperialistiche dipendono dalla loro penetrazione internazionale. Ciò – generando di necessità una produzione febbrile e un conseguente sovraccarico dei mercati, con la contrazione dei quali sopravviene una paralisi – crea una nuova divisione internazionale del lavoro in corrispondenza delle sedi principali del sistema delle macchine.
Si è detto che nel denaro mondiale il capitale trova la forma più adeguata al suo concetto, che lo vorrebbe veder circolare liberamente, senza ostacoli e interruzioni, istantaneamente e con fluidità assoluta. Nel ricercare anche l’adeguatezza della propria forma reale, al contrario, il capitale operante mostra tutta la sua autocontraddittorietà proprio quanto più si espande universalmente. Infatti, se si considera il capitale nella sua relazione con se stesso, la sua forma più adeguata è il capitale fisso, con la sua crescente capacità di succhiare prima e sostituire poi il lavoro vivo. Così le macchine – e con esse l’accumulazione della scienza e dell’abilità, delle forze produttive del cervello sociale, dell’intelletto generale – si presentano a loro volta come la forma più adeguata della parte fissa del capitale.
D’altra parte, in quanto il capitale fisso è inchiodato alla sua esistenza di valore d’uso determinato, esso non è adeguato al concetto di capitale, che come valore – e massimamente come denaro universale – è indifferente a ogni forma determinata di valore d’uso. La determinazione di valore deperisce, in un lungo processo storico, di fronte alla ricchezza materiale creata dal capitale stesso sul mercato mondiale.
Conviene far notare un altro aspetto contraddittorio che deriva proprio dalla forma finanziaria cui il mercato mondiale costringe vieppiù il capitale. Una parte rilevante del capitale fisso, infatti, quella immobiliare, ha una funzione propria nell’economia delle nazioni. Essa non può essere spedita all’estero, non può circolare come merce sul mercato mondiale. Perciò il capitale è spinto incessantemente a trasformare impianti, edifici, palazzi, miniere, terreni e perfino intere regioni in titoli di proprietà – nella forma di azioni o altra. Solo in questa forma fittizia la proprietà su questo capitale fisso può cambiare, solo così esso può essere comprato o venduto, e in questo senso circolare idealmente sui mercati esteri, modificando continuamente l’assetto proprietario del controllo geografico del pianeta.
3.1 L’esistenza del mercato come mercato mondiale conferisce carattere onnilaterale ai prodotti e alle merci che circolano sul mercato.
L’unificazione planetaria che contrassegna il processo di circolazione del capitale industriale rende quest’ultimo totalmente indifferente al processo di produzione dal quale le merci provengono. Per tal via, il capitalismo monopolistico finanziario transnazionale subordina a sé le produzioni di qualsiasi paese con qualsiasi sistema economico (economie arcaiche così come regimi pianificati, forme artigianali così come capitalismo di stato). Ciò che conta per il capitale mondiale è che ogni prodotto sia trasformato in merce ed entri nel ciclo del capitale industriale e nella circolazione del plusvalore in esse contenuto.
È chiaro che l’onnilateralità delle merci di ogni provenienza sul mercato mondiale ha poco o nulla a che vedere con la concettosa globalizzazione della cosiddetta economia-mondo o con l’anodina interdipendenza globale del nuovo ordine economico internazionale. Queste pseudo-teorie (siano esse di sinistra o di destra) si accomunano facilmente in un’astratta ipotesi di coesistenza pacifica tra le nazioni, laddove anche le lamentele sul divario – economico, sociale, civile e culturale – tra paesi e popoli si rifugiano in un’asettica divisione del mondo tra nord e sud (che è poi il consunto ritornello dei ricchi e dei poveri, dei cattivi e dei buoni).
Così facendo si rabbassa la forma dell’antitesi sociale a una questione morale – estrinseca al sistema stesso e che fa leva sulle differenze naturali o sociali – ma che non tocca le contraddizioni immanenti, intrinseche al rapporto di capitale in quanto tale. Tutti questi camuffamenti del problema servono solo all’ideologia borghese, e alla sua stessa coscienza infelice, per nascondere i rapporti di gerarchia e di dominanza tra modi di produzione, e quindi tra le classi, a livello mondiale.
Il dominio imperialistico multinazionale impone le proprie leggi economiche, sociali, politiche e morali al mondo intero. In generale i rapporti di produzione derivati, trasmessi, non originari, costituiscono dunque fatti di secondo e di terz’ordine. Per comprenderli appieno occorre indagare l’origine da cui derivano, ossia la forma più alta di sviluppo del capitale contemporaneo. Per conoscere il futuro dell’Appennino meridionale, dei Balcani o del Burkhina Faso bisogna conoscere il Giappone, la Germania e gli Usa. Qui entrano in gioco i rapporti internazionali. Così, a esempio, la trasformazione, nello scambio, delle merci necessarie in merci di lusso per mezzo del commercio internazionale è importante perché determina l’intero modello sociale delle nazioni arretrate collegate al mercato mondiale capitalistico.
4. La concorrenza è la relazione del capitale con se stesso in quanto altro capitale, ossia la condizione reale del capitale in quanto capitale.
Il capitale, divenuto sufficientemente forte, ha abbattuto col suo sistema di relazioni internazionali gli ostacoli storici che impacciavano e ostacolavano il movimento che gli è adeguato. La produzione basata sul capitale si pone nelle sue forme adeguate solo in quanto e nella misura in cui si sviluppa la concorrenza. La concorrenza oggi operante è quella che si combatte sul mercato mondiale.
La concorrenza è lo sviluppo reale del capitale. Essa impone come necessità esterna per il singolo capitale ciò che corrisponde al concetto di capitale. La coercizione reciproca che in essa esercitano i capitali, l’uno sull’altro e sul lavoro (la concorrenza reciproca tra i lavoratori non è che una forma diversa della concorrenza tra i capitali), è il reale sviluppo della ricchezza in quanto capitale.
Sviluppare ciò che la concorrenza internazionale è – sviluppo della libertà sulla base del dominio del capitale e al tempo stesso completa soppressione di ogni libertà individuale – costituisce l’unica risposta razionale ai profeti della classe media che la osannano e ai sognatori del comunismo che la maledicono. La razionalità strategica sta nella comprensione della straordinaria forza di autocoercizione reciproca che il capitale esercita sulle sue parti, e dunque della sua autocontraddittorietà – che, solo come tale, appunto, pone anche l’antagonismo di classe col lavoro salariato.
4.1 L’ampliamento improvviso e la creazione di un nuovo mercato mondiale storicamente ha sempre esercitato un’influenza decisiva sulla rovina del modo di produzione fino a quel momento dominante.
Sotto questo riguardo, perciò, è strategicamente rilevante, per il comunismo, la contraddizione che si sviluppa dalla necessità immanente del capitalismo di produrre su una scala sempre più ampia. Ciò inevitabilmente trascina l’industria a un allargamento e a un rivoluzionamento continuo del mercato mondiale e del commercio internazionale.
Ma il livello della produzione non è affatto scelto arbitrariamente. Quanto più la produzione capitalistica si sviluppa tanto più essa è costretta a produrre su una scala che non ha niente a che vedere con la domanda immediata ma dipende dall’espansione costante del mercato mondiale (al contrario di quanto sostiene l’economia moderna seguace della trita legge di Say, criticata solo a metà dal keynesismo che confonde il [sotto]consumo di merce con la [sovra]produzione di capitale).
Il mercato infatti si espande più lentamente della produzione, giacché il mercato è delimitato in senso geografico, il mercato interno è limitato in confronto a un mercato sia interno che estero, questo è limitato in confronto al mercato mondiale, che a sua volta è limitato in ogni momento, sebbene sia in sé capace di espandersi.
Questa è un’ammissione della possibilità di sovraproduzione. Accade così che i nuovi mercati e i nuovi allargamenti del mercato siano rapidamente sorpassati dalla produzione, cosicché i mercati più estesi divengano altrettante barriere come lo erano i mercati più ristretti in precedenza.
4.2 I paesi capitalistici industriali hanno sviluppato la concorrenza internazionale, da quando il mercato mondiale è divenuto una realtà operante.
Al tempo stesso – con tale sviluppo accompagnato da processi di crescente concentrazione produttiva e centralizzazione finanziaria, ossia dalla tendenza al monopolio e alla fase dell’imperialismo nazionale e multinazionale – vengono rinviate o fortemente indebolite le occasioni di crisi, riuscendo a superare la superspeculazione locale con maggiore facilità.
Ma sui mercati esteri la stessa concorrenza internazionale costruisce una barriera nel protezionismo, di cui si circondano tutti quanti i grandi paesi imperialistici. Non appena si ha un minimo accenno di recessione e la crisi si profila all’orizzonte, le manovre protezionistiche si scatenano. Il paese più in crisi è quello che si dà più da fare: gli Usa legiferano a getto continuo in questa direzione. Ma al contempo Giappone e Europa non rischiano di restare indietro, stringendosi nella rispettiva custodia dei propri privilegi interni.
Si parla di liberalizzazione dei mercati e si prepara la guerra commerciale e industriale. Chi protegge l’economia nazionale afferma sempre di farlo in difesa della libera circolazione – naturalmente la propria! Con il pretesto di occuparsi semplicemente della ricchezza della nazione e delle risorse dello stato, i protezionisti praticamente proclamano, come fine ultimo dello stato, gli interessi di arricchimento della classe capitalistica, consolidando a livello mondiale l’antagonismo della proprietà borghese basata sulla produttività del lavoro altrui.
Nondimeno, dazî, facilitazioni finanziarie e fiscali, impedimenti normativi e non tariffari, rappresentano in realtà soltanto le armi per la definitiva guerra industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale. Di modo che ogni elemento che contrasta il ripetersi delle antiche crisi reca quindi in sé il germe di una crisi futura molto più terribile.
5. La proprietà ha origine dalla produttività del lavoro, e aumenta col perfezionamento del modo di produzione.
Questa osservazione è di Piercy Ravenstone (lo stesso socialista ricardiano critico che ebbe a dire che “il maggior risultato della guerra contro la rivoluzione francese è stato quello di trasformare alcuni imbecilli in professori di economia politica”: figurarsi se avesse conosciuto i pentiti del ‘68!). Ciò che la nascita della borghesia industriale appena suggeriva si perfeziona proprio con lo sviluppo della produttività sul mercato mondiale, dove solo la larga scala di produzione rende il macchinario realmente utile quando esso agisce. Conseguentemente, è nei paesi capitalisticamente più ricchi e popolati – laddove l’improduttività dei servizi e il parassitismo economico facilita l’esistenza degli oziosi creati dalla proprietà e delle nuove classi medie – che le macchine sono sempre più abbondanti.
5.1 La produttività e l’intensità media del lavoro cambiano di paese in paese nella stessa misura in cui vi è sviluppata la produzione capitalistica.
Il loro termine di riferimento è l’unità media del lavoro universale sul mercato mondiale, le cui parti integranti sono i singoli paesi. A confronto del lavoro meno intenso, il lavoro nazionale più intenso produce dunque nello stesso tempo più valore, che si esprime in più denaro. Che il termine di riferimento universale sia oggi rappresentato dal lavoro dell’area imperialistica giapponese è stato ormai detto ripetutamente, attraverso motti tipo “qualità totale” e simili.
Su questa base l’unica forma possibile di internazionalismo proletario consiste nella pronta comprensione teorica delle forme di lotta di classe praticabili come antiteticità positiva, e non come mera negazione, di fronte alla nuova organizzazione del lavoro sociale. L’antitesi sta nel rapporto tra la produttività del lavoro, dovuta all’incorporazione della tecnica e della scienza come forze produttive nelle macchine, e la sua intensità o la sua durata. Qui riemerge l’inadeguatezza delle macchine come capitale in quanto capitale fisso. Così è legge del capitale mondiale dislocarsi laddove riesce a spremere il maggior tempo di pluslavoro relativo, avvantaggiandosi in ciò anche degli effetti del divario tecnico di produttività sui prezzi internazionali.
Sul mercato mondiale, il lavoro nazionale più produttivo vale come lavoro più intenso, purché la nazione più produttiva non sia costretta dalla concorrenza ad abbassare i prezzi delle sue merci. La paura protezionistica dei capitalisti americani e europei verso i “fratelli nemici” giapponesi ha queste motivazioni. Quindi, dire che una nazione, il cui lavoro è più intenso e produttivo, ha un potere d’acquisto maggiore dei concorrenti, è dire che il valore del denaro relativo alle altre merci (l’equivalente-oro, non la quotazione della moneta-segno nazionale) sarà minore nella nazione in cui il modo di produzione capitalistico è più sviluppato che non in quella in cui lo è poco.
5.2 L’aumento della produttività aumenta il plusvalore quantunque non aumenti il valore del prodotto lordo, perché crea un nuovo valore in quanto tale.
Ciò dipende esclusivamente dalla forma capitalistica della produttività, giacché il suo risultato è un valore che non deve essere semplicemente scambiato come equivalente, ma deve conservarsi come nuovo capitale – ossia, più denaro. L’aumento della produttività del lavoro non significa altro che un medesimo capitale crea un medesimo valore con meno lavoro, oppure che minor lavoro crea un medesimo prodotto con un capitale maggiore – e, potenzialmente, più tempo disponibile.
Meno lavoro necessario alla riproduzione del proletariato mondiale produce più pluslavoro. È per questa ragione che si dice che le macchine risparmiano lavoro. In ciò risiede anche la ricordata grande contraddizione delle macchine – esaltata dalla nuova rivoluzione industriale in corso – in quanto questo processo riguarda immediatamente il valore d’uso delle macchine. Viceversa, il fatto caratteristico del modo capitalistico di produzione è il risparmio del lavoro necessario e la creazione del pluslavoro. L’aumento della produttività implica dunque che la parte costante del capitale (materiali e soprattutto quella fissa, macchine) aumenti in rapporto alla parte variabile (monte salari).
L’insieme di queste circostanze – con il progredire dell’automazione del controllo – non fa che aumentare quella massa di forme antitetiche dell’unità sociale dominata dal capitale, la cui metamorfosi necessariamente non pacifica è a essa stessa immanente. Non è legge naturale e necessaria che la produttività del lavoro sia destinata all’incremento del pluslavoro non pagato e dell’altrui proprietà privata, ma è unicamente il risultato storicamente determinato del rapporto di capitale. Solo perciò l’organizzazione capitalistica del lavoro punta a massimizzare il tempo di lavoro in funzione del tempo di pluslavoro entro ciascun dato processo di produzione, confondendo anche nella coscienza proletaria produttività intensità e durata.
5.3 Il valore, e quindi anche il plusvalore, non è uguale al tempo di produzione, bensì al tempo di lavoro impiegato durante ciascuna fase di produzione.
Il tempo usato per portare a compimento il prodotto, le interruzioni del lavoro, costituiscono delle condizioni di produzione – dovute all’organizzazione del lavoro e alla tecnica in uso. Il non-tempo di lavoro costituisce una condizione del tempo di lavoro, una condizione per fare realmente di quest’ultimo il tempo di produzione.
La causa della non coincidenza del tempo di produzione col tempo di lavoro può stare soltanto nelle condizioni che impediscono direttamente la valorizzazione del lavoro, ossia l’appropriazione del pluslavoro da parte del capitale. Il capitale industriale lo sa tanto bene che in ogni epoca ha avuto i suoi teorici pratici – da Ure a Taylor a Ohno, tanto per non dire dall’Inghilterra agli Usa al Giappone – che si sono impegnati, ognuno di fronte alle tecnologie della propria epoca, a attuare i principi fondamentali della divisione capitalistica del lavoro celebrata da Adam Smith.
Il ricongiungimento forzoso del tempo di lavoro col tempo di produzione – “un’ora di sessanta minuti”, recita il motto nipponico – è ricercato in ogni forma, dal ciclo continuo di produzione, alla riduzione e razionalizzazione degli spazi, dall’eliminazione delle scorte alla subordinazione del salario al risultato (cottimo).
5.4 È legge del capitale creare pluslavoro, e può farlo solo in quanto mette in movimento lavoro necessario.
Il capitale deve perciò creare incessantemente lavoro necessario – cioè, trasformarsi in salario estendendo la proletarizzazione, su scala mondiale – per creare pluslavoro. Ma, qui è la contraddizione, deve altresì sopprimerlo come necessario (salario) per poterlo porre come pluslavoro (profitto). Si tratta di prolungare, intensificare e condensare la giornata lavorativa ai limiti delle possibilità, e di accorciare sempre più la parte necessaria. (Raggiunti tali limiti è necessario l’aumento di macchine e produttività).
Non appena l’organizzazione capitalistica raggiunge il limite del rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro – limite che le è imposto dallo sviluppo dato delle conoscenze tecniche e dai rapporti di forza tra le classi – può solo procedere sviluppando ulteriormente le forze produttive, le macchine, e con esse di nuovo la produttività del lavoro, sulla base dell’intensità raggiunta.
Nelle fasi di crescita e concentrazione del capitale, lo sviluppo qualitativo del capitale è il presupposto reale anche di una sua accumulazione quantitativa. Ma “l’imperativo categorico” della produttività, di recente goffamente riscoperto anche dagli americani, si impone in ogni circostanza. In periodi di crisi, allora, è la distruzione recessiva di valore e di capitale – la diminuzione del valore esistente delle materie prime, delle macchine e della forza-lavoro – che diviene sinonimo di un generale, ma non reale, aumento della produttività del lavoro.
Esso pone dunque il pluslavoro come condizione del lavoro necessario, e il plusvalore come limite del lavoro oggettivato, del valore in generale. Finché non può porre quest’ultimo, esso non pone nemmeno il primo, né può farlo che sulla base di quello. Esso dunque limita con un ostacolo artificiale il lavoro e la creazione di valore, e lo fa per la stessa ragione e nella misura in cui esso crea pluslavoro e plusvalore. Esso dunque pone, per sua natura, un ostacolo al lavoro e alla creazione di valore, il quale contraddice la sua tendenza ad espanderli oltre ogni limite. Ma proprio perché da una parte esso pone un suo specifico ostacolo, e dall’altra tende a superare ogni ostacolo, esso è la contraddizione vivente.
6. Il tempo di circolazione si presenta come ostacolo ai fini della valorizzazione del tempo di lavoro.
Anch’esso, al pari del non-tempo di lavoro nella fase di produzione, è di fatto una detrazione di tempo di pluslavoro, ossia un aumento del tempo di lavoro necessario, che deve essere pagato. Quanto più si estende e si unifica il mercato mondiale – ovvero, quanto più si separano la fase e la sede della produzione da quelle dello scambio e della realizzazione del plusvalore – tanto più il capitale rimane impigliato nella rete della circolazione. Lo sviluppo dell’economia monetaria e le funzioni economiche degli stati nazionali, così come l’espansione del cosiddetto settore terziario dei servizi, soprattutto nelle metropoli imperialistiche, sono solo espressioni di questo fenomeno.
Proprio l’abnorme crescita della sfera monetaria transnazionale spiega come sia necessario che il capitale, dopo essersi considerato indipendentemente dall’assorbimento di lavoro che esso esegue come capitale produttivo, ipotizzi di essere fruttifero in tutti i tempi. Perciò esso calcola il suo tempo di circolazione come tempo che crea valore, come costo di produzione.
Questa confusione è pure una confusione reale, nella misura in cui avvengono le necessarie metamorfosi tra le forme funzionali di esistenza del capitale complessivo, in cui il guadagno di un capitale individuale si pone come costo effettivo dell’altro. Ma tale processo nasconde che il valore – e quindi anche il plusvalore, giacché il capitale pone il lavoro necessario soltanto ai fini del pluslavoro – da esso creato è direttamente proporzionale al tempo di lavoro e inversamente proporzionale al tempo di circolazione.
6.1 La tendenza necessaria del capitale è quella della circolazione senza tempo di circolazione.
Il capitale sa che l’estensione al massimo della totalità del tempo di lavoro che è capace di comandare, e in esso del tempo di pluslavoro, rappresenterebbe il suo massimo di autovalorizzazione. Se la produzione potesse andare avanti senza alcun lavoro, allora non esisterebbe né valore, né capitale, né creazione di valore. Il tempo di circolazione, viceversa, ancorché necessario per il funzionamento del modo capitalistico di produzione, non è un elemento positivo che crea valore. Perciò, se fosse uguale a zero, la creazione del valore sarebbe massima. Questa è la tendenza cui il capitale inclina, ma che gli sfugge continuamente in direzione opposta. Il tempo di circolazione si presenta dunque come un ostacolo alla produttività del lavoro.
Ciò che vale per la tendenza del capitale a considerare come ostacolo ogni limite alla sua autovalorizzazione, si collega a quanto detto per la produttività. Da una parte il capitale tende necessariamente ad aumentarla all’estremo, per aumentare il tempo di pluslavoro relativo. D’altra parte ciò facendo esso diminuisce il tempo di lavoro necessario, e quindi la capacità di scambio del lavoratore, la capacità del lavoratore di essere presente nella fase della circolazione.
Così, da una parte fa della creazione della forza-lavoro, del proletariato mondiale, un centro di scambio per le merci-salario, dall’altra parte è altrettanto essenziale per esso circoscrivere il consumo del lavoratore a ciò che è necessario per la riproduzione della sua capacità di lavoro. Da questa contraddizione trae origine la formazione delle moderne classi medie e delle aristocrazie proletarie nei paesi imperialisti (e ciò che la epifenomenologia volgare chiama “consumismo”).
Inoltre, occorre tener presente che il plusvalore relativo aumenta in proporzione molto minore della produttività, e che tale proporzione tanto più diminuisce quanto più elevato è stato l’aumento di produttività già avvenuto. Alla crescita dei consumi nei paesi capitalisticamente maturi si accompagna così la formazione di strati sociali scarsamente produttivi se non anche parassitari. Ma intanto aumenta a livello mondiale in proporzione alla produttività – e se così non fosse si libererebbe sia nuovo capitale sia lavoro – la massa di prodotti che non possono entrare in circolazione, saturando ancor più i mercati.
Quindi: il capitale pone il tempo di lavoro necessario come ostacolo per il valore di scambio della forza-lavoro viva, il tempo di pluslavoro come ostacolo per il tempo di lavoro necessario, e il plusvalore come ostacolo per il tempo di pluslavoro. Contemporaneamente esso tende a scavalcare tutti questi ostacoli in quanto contrappone a sé la forza-lavoro come semplice soggetto che scambia, come denaro.
7. La concorrenza conduce il singolo capitale a riferirsi ai lavoratori del restante capitale totale non in quanto lavoratori.
Poiché il valore costituisce la base del capitale, e questo esiste necessariamente solo in quanto attua uno scambio con un equivalente, esso deve necessariamente procedere a un movimento di repulsione da se stesso. Un capitale universale che non abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare è perciò un assurdo.
Tuttavia si tratta di un assurdo che la teoria economica dominante – fino a Keynes incluso, coinvolgendo liberisti vecchi e nuovi, equilibristi e squilibrati, più o meno monetaristi, e tale da colpire anche i riformisti socialdemocratici del superimperialismo e del governo mondiale unitario del capitale – preferisce considerare come ipotesi di lavoro, per evitare il fastidio di dover rappresentare la lotta tra i capitali e la loro contraddizione immanente.
7.1 La repulsione reciproca dei capitali è la concorrenza come autorepulsione, pluralità di capitali in completa indifferenza e autonomia reciproche.
Tuttavia essa è già implicita nel capitale in quanto valore di scambio realizzato. Fin quando l’un capitalista compra merce dall’altro, o ne vende, essi si trovano nel rapporto di scambio semplice, non si riferiscono l’un l’altro in quanto capitale.
L’impropria estensione teoretica della trasposizione della merce capitalistica in merce semplice occulta tale repulsione e segna anche l’incomprensione degli economisti dell’armonia in relazione alla necessarietà delle crisi periodiche da sovraproduzione. Il loro rifugio – di fronte alla rottura del proprio equilibrio metafisico di domanda e offerta – sta nella sproporzione.
Ma la presunta giusta proporzione in cui i capitali debbono reciprocamente scambiare, per potersi infine valorizzare come tali, sta nel rapporto essenziale di capitale che è al di fuori della loro relazione reciproca. Il rapporto essenziale è il rapporto generale tra capitale e lavoro, nella misura in cui il capitale costringe i lavoratori a effettuare un pluslavoro, a sua volta realizzabile come plusvalore. In tal modo, il rapporto immanente tra capitale e lavoro impone i suoi diritti. In quanto il capitale non ha di fronte a sé altro che il lavoro salariato ha di fronte a sé solo se stesso.
Di qui, da un lato, ciascun capitale tende a scavalcare la presunta giusta proporzione in cui dovrebbe produrre in rapporto ai lavoratori; dall’altro, scomparendo o riducendosi la domanda esterna alla domanda dei lavoratori stessi, subentra il collasso. La corsa all’espansione del mercato fino alla sua scala mondiale è solo un palliativo momentaneo. La contraddizione del rapporto di capitale è intrinseca e si rivela ogni volta periodicamente nell’inadeguatezza della domanda, che implica pagamento e creazione di valore, non appena il prodotto finale trova il suo limite nel consumo immediato e finale.
7.2 Il lavoratore salariato, scambiando il suo valore d’uso con la forma generale della ricchezza, diventa compartecipe nel godimento della ricchezza generale fino al limite del suo equivalente.
Nel mercato capitalistico – quanto più esso è universalmente esteso – questo è un limite quantitativo che naturalmente si rovescia in un limite qualitativo, e qualitativo soltanto perché posto attraverso la quantità. La sfera dei suoi godimenti non è delimitata qualitativamente, ma soltanto quantitativamente. E’ questo che lo distingue dallo schiavo, dal servo della gleba, ecc.
Ma questo è anche ciò che sta alla base della confusionaria ambiguità dell’ideologia dominante, che scambia la divisione in classi della società con l’appartenenza a diverse fasce di reddito. Il pretesco equivoco su “ricchi e poveri” è ormai esteso anche a livello mondiale nell’insignificante distinzione tra “nord e sud” del mondo.
La situazione descritta conferisce ai lavoratori salariati, anche in quanto consumatori, un’importanza – come agenti della produzione – del tutto diversa da quella che avevano i lavoratori nei modi di produzione precedenti. Questa considerazione generale, valida per le caratteristiche fondamentali del modo di produzione capitalistico, veniva indicata da Marx come una delle circostanze da seguire più attentamente nello sviluppo ulteriore del capitale. Oggi tale sviluppo è compiuto.
Non è un caso che le teorie economiche del XX secolo – dall’imperialismo al consumismo, dallo stato sociale al benessere – facciano tutte aggio sull’elevamento del livello di vita delle masse. Uno sviluppo materiale a livello mondiale è incontestabile, in media. Ma tale media si basa proprio sull’esistenza di divari e sperequazioni abissali, tra aree imperialistiche e paesi dominati, a conferma dell’impoverimento relativo di questi. In ciò risiede tutta la potenzialità della contraddizione presente.
7.3 La ricchezza reale è la produttività sociale sviluppata di tutti gli individui, in forma antitetica.
L’unificazione del mercato mondiale pone per la prima volta nella storia dell’umanità le condizioni materiali per consentire un sufficiente sviluppo della produttività e della disponibilità di tempo. Mancano però ancora le condizioni sociali per sopprimere il carattere antitetico di tale sviluppo. Solo quando lo sviluppo della produttività sociale crescerà così rapidamente da far crescere il tempo disponibile di tutti, allora questo potrà cessare di avere un’esistenza intrinsecamente antitetica.
Economia di tempo – in questo si risolve infine ogni economia. Economia di tempo e ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami della produzione, rimane dunque la prima legge economica sulla base della produzione sociale. Ciò tuttavia è essenzialmente diverso dalla misurazione dei valori di scambio mediante il tempo di lavoro. L’economia effettiva consiste in un risparmio di tempo di lavoro; ma questo risparmio si identifica con lo sviluppo della produttività.
Non si tratta affatto di rinuncia al godimento, bensì di sviluppo di capacità atte alla produzione, e perciò tanto delle capacità quanto dei mezzi del godimento. I bisogni si producono insieme ai mezzi per soddisfarli, equiparati ormai a livello universale. Il capitale cerca di impedire con violenza tale equiparazione. Man mano che si sviluppa il sistema dell’economia borghese – la società borghese nelle sue grandi linee, come risultato ultimo del processo sociale di produzione – si sviluppa anche la sua negazione.
8. Qui si manifesta la tendenza universale del capitale, che lo distingue da tutti gli altri precedenti stadi della produzione.
Mentre dunque il capitale deve tendere, da una parte, ad abbattere ogni ostacolo spaziale allo scambio, e a conquistare tutta la terra come suo mercato, dall’altra esso tende ad annullare lo spazio attraverso il tempo; ossia a ridurre al minimo il tempo che costa il movimento da un luogo all’altro. Quanto più il capitale è sviluppato, quanto più è esteso perciò il mercato su cui circola e che costituisce il tracciato spaziale della sua circolazione, tanto più esso tende contemporaneamente a estendere maggiormente il mercato e ad annullare maggiormente lo spazio attraverso il tempo.
Sebbene limitato per la sua stessa natura, il capitale tende ad uno sviluppo universale delle forze produttive e diventa così la premessa di un nuovo modo di produzione. Tale tendenza – che rappresenta una contraddizione del capitale con se stesso – implica al tempo stesso che esso sia posto come semplice punto di transizione.
8.1 Tutte le forme di società finora esistite sono crollate in presenza dello sviluppo della ricchezza.
Lo sviluppo della scienza – ossia della forma più solida, ideale e pratica, della ricchezza, al tempo stesso prodotto e produttrice della stessa – era sufficiente da solo a dissolvere la propria comunità. Dal punto di vista ideale la dissoluzione di una determinata forma di coscienza era sufficiente a uccidere un’intera epoca. Mai come oggi la scienza si è sviluppata in connessione alla produzione, ma mai come oggi, forse, la coscienza di ciò è obliterata dall’appropriazione privata dell’immane ricchezza sociale.
L’ostacolo del capitale, tuttavia, sta proprio nel fatto che tutto questo sviluppo procede per antitesi e la produzione della ricchezza si presenta come alienazione dello stesso individuo che ne elabora le condizioni, alle quali egli si riferisce non come a quelle della propria ricchezza, bensì della ricchezza altrui e della propria povertà. Questa stessa forma antitetica è però transitoria e produce le condizioni reali della sua stessa soppressione.
Il risultato contraddittorio è lo sviluppo tendenzialmente e potenzialmente universale delle forze produttive, della ricchezza in generale, e anche l’universalità delle relazioni e quindi il mercato mondiale, come base. Ciò significa: comprensione della storia come processo, col capitale come punto di transizione; scienza della natura, che si risolva in potere pratico su di essa per capovolgere la tendenza alla distruzione capitalistica della terra, come suo corpo reale. Ma per questo è necessario anzitutto che il pieno sviluppo delle forze produttive sia diventato una condizione della produzione per tutta la società, per il mondo intero; non che le determinate condizioni borghesi di produzione siano poste come limite dello sviluppo delle forze produttive.
“… Il mercato mondiale allora costituisce a sua volta, insieme, la premessa e il supporto del tutto. Le crisi rappresentano allora il sintomo generale del superamento della premessa, e la spinta all’assunzione di una nuova forma storica.”
* Le considerazioni qui svolte sul tema della merce e del mercato mondiale sono interamente tratte dagli scritti di Marx – come potrà facilmente ravvisare chiunque li conosca – col sostegno della metafora di Erasmo. Esse costituiscono un omaggio a Erasmo e a Marx da sé medesimi. Naturalmente, per elaborarle in funzione di una loro lettura attuale, adatta alla fase imperialistica multinazionale del capitalismo, non si è voluto seguire il criterio delle citazioni testuali, preferendo utilizzare libe-ramente parole, intere frasi e concetti in ordine sparso e diverso. Per Marx, si rinvia perciò complessivamente alle singole parti, in cui rintracciare i dettagli di riferimento. La segnalazione è fatta secondo capitoli (numeri romani) e paragrafi (numeri arabi) di ciascuno dei tre libri per Il capitale [CI,CII,CIII] (tra parentesi tonde sono indicate anche le pagine del tomo corrispondente nell’edizione in otto tomi degli Editori Riuniti), e secondo quaderni (numeri romani o lettere) e pagine (numeri arabi) per i manoscritti (Lineamenti fondamentali [LF], Teorie sul plusvalore [TP], VI capitolo inedito [VI]), per evitare la necessità del ricorso a una particolare edizione; precisamente:
[CI] I.4(84,93); II(107); III.2(118,128,139); III.3(157-161); IV.1(162); XIII.7(160-161); XX(279 -281); [CII] IV(116-117); VIII.1(169); [CIII] XV.4(324); XX(399-403); XXII(41); XXVII(121-128); XXX(182 nota Engels); XXXIV(250-252); XLVII.1(192-193); XLVIII.3 (239-242).
[LF] M.15-17,20-21; I.20-22,27-28; II.3,11,26; IV.8-9,14,24-25,40,46; V.27-28; VI.22,30,33,34, 36,44; VII.3-5,44; B”.8-11(Urtext).
[TP] XIII.693,720; XIV.853a,858. [VI] 443. Discorso sulla questione del libero scambio [9.1. 1848].
I riferimenti non marxiani sono:
Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia, Einaudi, Torino 1964; Georg W.F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Bari 1974 [I – II.1.2.C.3];
Bertolt Brecht, Diario di lavoro, Einaudi, Torino 1976; L’anima buona del Se-zuan, Einaudi, Torino 1971; Poesie e canzoni, Einaudi Torino 1971; Walter Benjamin, Senso unico, Einaudi, Torino 1962; Antonio Gramsci, Quaderni del carcere [V], Ed.Riuniti, Roma 1971;
Piercy Ravenstone, Thoughts on the funding system, London 1824, p.11-13.
III. MERCE, SIMULACRO DI PAZZIA
parafrasi da Erasmo da Rotterdam
La merce è una cosa imbrogliatissima,
piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici.
La forma di merce rimanda agli uomini
come uno specchio i caratteri sociali del proprio lavoro
trasformati in cose sensibilmente sovrasensibili.
La loro eguaglianza s’aggira fantasmagoricamente
solo nelle teste delle merci.
Cose che in sé e per sé non sono merci,
coscienza, onore, ecc., possono essere considerate in vendita.
[Karl Marx, Il Capitale]
Una volta come oggi, tutte le cose,
sacre o profane, si confondono insieme,
a suo arbitrio si fanno guerre,
paci, imperi, consigli, tribunali, assemblee popolari,
matrimoni, trattati, alleanze, leggi, arti,
cose serie, cose buffe (auff! mi manca il fiato),
in una parola tutte le faccende dei mortali, pubbliche e private.
[Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia]
PARLA LA MERCE
1. La merce libera dagli affanni
Comunque di me parlino i mortali comunemente (e non ignoro quanta cattiva fama abbia la merce tra i mercanti), tuttavia io, io sola, dico, rassereno col mio influsso proletari e padroni. E la prova più convincente si è che, appena venuta al mondo, tutte le facce si sono d’improvviso rischiarate di nuova e insolita letizia, e avete sùbito spianato la fronte, applaudendo con un tal sorriso di gioia incantevole, che quanti io contemplo siete tutti briachi di oro e ricchezze.
Così voi vistami appena avete preso immediatamente un altro aspetto. Ciò che grandi accademici possono a stento produrre con discorsi lunghi e lungamente meditati, io con la mia sola presenza l’ho ottenuto in un momento: avete cacciato via il tormento delle preoccupazioni.
Che cosa si addice di più alla merce che imboccar la tromba dei propri meriti e cantare da sé le proprie lodi? Chi potrebbe raffigurarmi meglio che io stessa? A meno che non ci sia qualcuno che mi conosca meglio di come mi conosco da me. Eppure sarebbe, a mio avviso, un modo di agire molto più modesto di quello comunissimo di politici ed economisti, i quali, con ipocrito pudore, subordinano di solito qualche consigliere lusingatore, qualche pennivendolo cialtrone, pregandolo per sentire le proprie lodi, cioè bugie, bugie, bugie …
1.1 Meglio improvvisare che ponzare
Da me invece udrete un’improvvisazione senza studio, e perciò con meno bugie. Non vorrei però che crediate che l’abbia composta per dar prova d’ingegno, come fanno comunemente gli accademici. Costoro, lo sapete bene, quando metton fuori uno scritto elaborato per trent’anni continui, che talvolta non è neppur il loro, spergiurano che l’hanno scritto, anzi formulato nelle proposizioni principali, in tre giorni, quasi per gioco!
A me invece è piaciuto sempre parlare così come viene viene … E nessuno si aspetti che, secondo la consuetudine volgare di codesti retori, io spieghi me stessa per mezzo di una definizione; molto meno che ricorra ad una partizione! E … a che pro cercar di darvi, con una definizione, un’ombra appena, un’illusione di me stessa quando voi vedete proprio me coi vostri occhi?
1.2 La merce si vede sùbito
Eppure … c’era proprio bisogno di dirvi tutto questo? Come se io non mostri dalla stessa faccia o non porti scritto in fronte, come si dice, chi io sia …
Nessun belletto su di me, né altro dimostro in fronte e altro tengo nascosto in cuore, e sono da ogni parte così uguale a me stessa, che non mi possono dissimulare nemmeno quelli che più si arrogano la maschera e il titolo di accademici, passeggiando come scimmie nella porpora o asini nella pelle del leone. Per quanto facciano, per quanto si adoperino, spuntano loro da qualche parte due belle orecchie lunghe a rivelare che Mida è lì. Anche in questa categoria di uomini, nessun senso di gratitudine.
Se c’è gente che fa parte del mio gruppo, son proprio costoro; eppure presso la folla questi messeri si vergognano del mio nome, sino a lanciare comunemente contro gli altri l’epiteto di venduti, a titolo d’infamia! E … dunque, non meriterebbero questi sicofanti, che pur vogliono parere dei Taleti per sapienza, non meriterebbero di essere chiamati mercanti di idee?
1.3 Pedanterie di accademici
Costoro credono impresa gloriosa incastonare nei loro discorsi in italiano parolette inglesi, a mo’ di mosaico, magari a sproposito. Ché se poi non li soccorre qualche esotismo, tirano fuori da fradici scartafacci quattro o cinque arcaismi o neologismi, con cui gettar polvere negli occhi dei lettori …
Chi capisce va sempre in brodo di giuggiole: chi non capisce, sgrana gli occhi, appunto perché non capisce. È infatti anche questo uno dei maggiori piaceri dei nostri uomini, un segno di buon gusto …: quanto più le cose sono straniere, tanto più le ammirano. Ché se hanno troppo forte la vanità di volerla far da sapienti, sorridano pure, applaudiscano, muovano le orecchie a mo’ di asini, per mostrare agli altri di aver capito bene.
2. Genesi della merce
Poiché a molti di voi non è chiara la mia genesi, cercherò di esporvela. Non fu mio padre il Bisogno, né altra divinità di tal fatta, incartapecorita e cadente, ma Pluto, il dio della ricchezza astratta in persona, lui solo. A un cenno di Pluto soltanto, una volta come oggi, tutte le cose, sacre o profane, si confondono insieme, a suo arbitrio si fanno guerre, paci, imperi, consigli, tribunali, assemblee popolari, matrimoni, trattati, alleanze, leggi, arti, cose serie, cose buffe, in una parola tutte le faccende dei mortali, pubbliche e private.
Amor proprio, adulazione, oblio, pigrizia, edonismo, irriflessione, mollezza, gozzoviglia, sonno: ecco i servi che mi porgono aiuto fedele; è per opera loro che tutto il mondo è soggetto al mio dominio, e io comando agli stessi potenti.
2.1 I beni della vita son dono della merce
Sarebbe ben poca cosa se non vi dimostrassi che è tutto dono mio ciò che nella vita si trova di buono e confortevole. E che? Questa vita si può chiamar vita, se ne togli il piacere? Vedete, neppure gli intellettuali disprezzano il piacere. Fingono di disprezzarlo con ogni cura, e lo straziano con mille villanie, ma il gioco è troppo chiaro: ne distolgono gli altri per goderne loro più alla lunga.
O non vedete codesti musoni, dediti agli studi o ad altre occupazioni serie e ardue, già fatti vecchi prima di essere giovani? È evidente: per le preoccupazioni, per continuo e violento travaglio dei pensieri, si esauriscono a poco a poco gli spiriti e il succo vitale. Al contrario i miei bottegai sono grassottelli, lucidi e con la pelle ben curata, maiali di Acarnaia, come dicono: non sentirebbero mai i danni della vecchiaia, se non fossero un po’ contaminati, come succede, dal contatto con chi ha coscienza.
2.1.1 La merce dà sapore alla vita
Ma è tempo per noi di tornare di nuovo in terra e di abbandonare i potenti. Qui non scorgiamo gioia o felicità se non per mio influsso. Ma perché la vita umana non sia un mortorio, quanta merce occorre. E in quantità molto maggiore dell’utilizzabile! La coscienza è relegata in un angoletto della società, abbandonando tutto il resto del mondo al disordine della merce. E al piano cosciente dei produttori associati, che è solo, si opposero, come due violentissimi tiranni, la concorrenza e la proprietà privata.
Contro queste due potenze gemelle quale forza abbia il piano cosciente, lo dichiara abbastanza la vita comune. Grida la coscienza, a perdifiato, ché altro non può, e dètta le sue formulette su ciò che è onesto, ma quelle due mandano a farsi impiccare il loro piano, e alzano la voce tanto forte, che quella non ne può più e la pianta, dandosi vinta.
2.2 Amalgama la società umana
Senza di me, insomma, nessuna società, nessun vincolo nella vita potrebbe esser gradevole o stabile. Nessuno vorrebbe sopportare un altro, né un popolo il suo governo, né il padrone l’operaio, né la cameriera la padrona, né il padrone di casa l’inquilino, né il compagno il compagno, né il commensale l’invitato, se a vicenda non s’ingannassero tra loro, non si adulassero, non chiudessero un occhio per prudenza, non si adescassero col miele del mercanteggiamento. Ciò vi sembra straordinario, lo so; ne sentirete di più belle.
2.3 La merce è causa della guerra
Tutto questo intanto, per passar sotto silenzio che nessuna impresa gloriosa si può compiere, se non sotto la mia spinta, nessuna scienza, nessun’arte eccellente, si è mai scoperta se non per opera mia. Non è la guerra origine e campo delle imprese più lodate? Ma cosa ci può essere di più commerciale che, per non so qual motivo, cacciarsi in una lotta da cui i mercanti di ambe le parti ritrarranno più vantaggi che danno, e le popolazioni più danno che vantaggio? Ché di quelli che cadono non se ne parla nemmeno: sono di Rocca Cannuccia.
Ma allorché sono in campo, l’un contro l’altro armato, due eserciti, che ce ne facciamo di grazia di codesti intellettuali, i quali, consumati dagli studi, traggono a stento il fiato col loro sangue povero e freddo?
C’è bisogno di omaccioni grandi e grossi, ora, che abbiano il senso degli affari quanto più possibile, e coscienza quanto meno. Il senno, però, si osserva, è quello che decide in una guerra. D’accordo, ma nel comandante supremo, e … il senno di un soldato, non di un filosofo. Del resto, un’impresa così gloriosa è affidata a parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, indebitati, mercanti e simile feccia umana, non certo a filosofi sgobboni.
3. Inconvenienti della coscienza
Tutto ciò che gli uomini fanno non forma che un ammasso di merci; merce gli agenti, merce l’ambiente. Che se uno vuol seguire Timone il misantropo, se vuole da solo mettersi contro il mondo intero, lo pregherei di andarsene in qualche deserto; ivi potrà godere da solo della propria coscienza.
Sono le merci ciò con cui si può impressionare quel bestione grosso e potente, che è il popolo. Da questa impura sorgiva nascono le grandi imprese degli eroi, che gli scritti di tanti poeti, di tanti giornalisti, hanno innalzato al cielo; la merce genera gli stati, con questa si reggono i poteri militari e civili, le religioni, i consigli, i tribunali; insomma, la vita umana nel suo insieme, non è che un gioco, il gioco della merce.
Ma, per parlare ora delle arti e delle scienze, che cosa ha spinto l’ingegno umano a escogitare tante nuove dottrine, giudicate eccellentissime, se non l’amore del successo? Ma che cosa può esistere di più mercificato della fama?
Eppure, per conseguire una cotal nomea, gli uomini credettero dover sopportare sì grandi veglie e sì grandi sudori, bottegai che non son altro! Ma intanto … a codesti mercanti siamo debitori di tante straordinarie comodità della vita. E la maggior dolcezza si è che l’altrui mercanteggiare torna a nostro vantaggio!
3.1 La vera coscienza è merce
Or dunque, dopo aver rivendicato per me la gloria di forte e suscitatrice di attività, che direste se facessi lo stesso per l’equità? Si obietterà: tanto vale mettere insieme il fuoco con l’acqua. E per cominciare, cos’è l’equità se non la pratica dello scambio? E a chi può meglio competere l’onore di tale attribuzione, al pianificatore cosciente, che, un po’ per vergogna, un po’ per timidità, non osa prendere alcuna iniziativa, ovvero al mercante, che nulla può distogliere dall’agire? Non sarà certo il pudore a frenare costui; non ne ha; e nemmeno il rischio, che egli non sa commisurare. Il pianificatore non sa far altro che rifugiarsi tra i classici, per apprendere soltanto sottigliezze verbali; l’altro invece, buttandosi alla brava tra i rischi, raccoglie – o m’inganno? – valori equi.
Come non c’è tanto mercato quanto in un piano inopportuno, così non c’è maggior sfruttamento che in un’equità controllata. Fa molto male chi non si adatta ai tempi e alle circostanze. Invece è da uomo veramente equo, una volta che siamo mortali, non aspirare ad una coscienza superiore alle possibilità. Bisogna rassegnarsi o a chiudere un occhio qualche volta, insieme con tutta l’immensa folla degli uomini, ovvero a mercanteggiare, umanamente. Ma questo, diranno, sarebbe un agire da mercanti. Non lo negherei, purché mi si conceda che tale è la vita, la commedia della vita che recitiamo.
3.2 Merce guida a coscienza
Si ammette comunemente che tutti gli scambi appartengono al dominio della merce, visto che la caratteristica per cui si distingue un bottegaio da un uomo cosciente consiste proprio in questo, che il primo si lascia governare dallo scambio, il secondo dal piano. Nulla a lui sfugge e nessun errore commette mai; come Linceo, non c’è cosa che perdoni agli altri, pago di se stesso lui solo, e lui solo ricco, lui solo sano, lui solo capo, lui solo libero, in una parola, lui solo tutto. Ciò però a parere di lui solo, perché non sa coltivarsi un amico, non è amico di nessuno: tutto quello che si fa nella vita è per lui merce, oggetto di condanna e di scherno.
Orbene, un testimone di tal fatta è il pianificatore arciperfettissimo. Ora, ditemi in cortesia, se la questione si dovesse decidere coi voti, qual popolo lo desidererebbe a governante supremo?
Ognuno preferirebbe un qualsiasi uomo, preso a caso in mezzo alla folla di uomini comuni, che non sono certo mostri di coscienza, il quale, senz’avere un grande cervello in zucca, sappia comandare o ubbidire a uomini senza cervello e piacere ai suoi simili, anzi al maggior numero possibile.
4. La merce rende la vita tollerabile
Capite ormai, cosa avverrebbe se gli uomini avessero tutti, senza distinzione, una coscienza. Ci sarebbe bisogno di una seconda creta e di un secondo Promèteo per riplasmarli. Ma io, un po’ per mezzo della pubblicità, un po’ colla concorrenza, non di rado coll’oblio delle truffe, e talvolta colla speranza di qualche guadagno, ovvero spruzzando i piaceri di un po’ di miele, vengo loro in aiuto, in mezzo a mali sì grandi, in maniera così efficace che non han voglia di abbandonare la vita nemmeno quando è finito il filo delle Parche, ed è la vita stessa che li lascia. Insomma, ben lungi dall’essere tocchi dalla noia della vita, quanto meno c’è ragione, per essi, di rimanere a questo mondo, tanto più han piacere a vivere.
C’è ancora chi giudichi la merce condannabile? Vorrei, in tal caso, pregare di riflettere se è preferibile, secondo lui, trascorrere una vita dolcissima, sia pure in mezzo alle merci, ovvero andare sempre in cerca di una trave dove impiccarsi. Queste pratiche, nell’opinione comune, sono esposte a infamia, ma, di grazia, cosa importa di ciò a questi miei bottegai? La iattura nell’onore non la sentono. La sentono? Ma non importa nulla a essi. Quando ti cade una pietra sul capo, questo sì che è un accidente doloroso; ma vergogna, infamia, disonore, contumelie, in tanto danneggiano in quanto comportano una perdita. Se uno ci rimette non sono affatto mali. In che cosa perdi, se tutta la gente ti fischia quando tu guadagni da te stesso? Ma perché tu possa far questo, non ci sono che io: la Merce, con la mia opera.
4.1 La merce è il criterio per giudicare le invenzioni umane
Mi pare a questo punto di sentir protestare i comunisti: “Ma proprio in questo consiste la sventura, nel lasciarsi dominare dalle merci, nel farsi ingannare, vivere nella subordinazione e nell’ignoranza”. Ma no, ma no; in ciò consiste l’essere sociale. Perché chiamino tale subordinazione una sventura, non vedo, dal momento che così siete nati, così siete disposti e conformati, e tale è la sorte a tutti comune. Come non è disgraziato un cavallo che non sappia di grammatica, così non è infelice un uomo senza grande coscienza dominato dalla merce, perché ciò è intimamente connesso con la sua natura.
Tra tutte le dottrine, le più importanti, le più pregevoli, son quelle che si tengono più strette al senso comune, cioè alla forma di merce. Muoiono di fame i teorici, i critici di freddo, i rivoluzionari son oggetto di scherno, dei dialettici non si fa conto, il medico invece “vale lui solo molti uomini”. In questa categoria, quanto più uno è ignorante, sfacciato, venduto, tanto più è tenuto da conto presso codesti grandi con denaro. Vero è che la medicina, specie come vien esercitata presentemente da non pochi, altro non è che una specie di adulazione di tipo accademico.
Il secondo posto, dopo costoro, vien dato ai legulei e forse direi anche il primo. La loro professione … io non vorrei metterci bocca, ma i filosofi in bell’accordo ne sorridono: la professione degli asini! Pure, ad arbitrio di tali asini si decidono tutti gli affari pubblici e privati e … i loro conti in banca si accrescono. Più fortu-nate dunque quelle scienze, quelle arti, che più partecipano del mondo delle merci.
4.2 Felicità dei bottegai
Dunque, tra i mortali, ben lungi dalla felicità si trovano quelli che vanno in cerca della coscienza. Essi sono, si vede, doppiamente dissennati, ché, nati uomini, dimenticano la loro condizione di uomini e aspirando a vivere da comunisti, a mo’ dei giganti muovono guerra alla società borghese, e le scienze son le loro macchine da guerra. Per la stessa ragione, poco o nulla sono infelici, pure, quei bottegai che più si avvicinano al naturale delle bestie, col loro mercanteggiare, e si guardano bene dal tentare cose oltre l’umano.
C’è nulla di più felice a questo mondo di quella categoria di uomini che chiamiamo volgarmente scimuniti, deficienti, incoscienti, zucconi, bottegai? Sono nomignoli bellissimi, penso io.
E qui ti pregherei, o pianificatore cosciente, di commisurarmi da quanta ingratitudine è assalito e straziato l’animo tuo notte e giorno! Metti in un sol mucchio il complesso dei disagi della tua vita e così alfine potrai capire a quanti mali ho sottratto i miei imbecilli.
E bisogna aggiungere che, non solo essi se la godono continuamente, scherzano, canterellano, ridacchiano, ma anche, dovunque si volgano, recano a tutti gli altri piacere, sollazzo, svago, allegria: come se la benignità del capitale ci concedesse i bottegai proprio a questo scopo, di rasserenarci nella tristezza della vita. E vedete la conseguenza!
Verso gli altri uomini chi prova un sentimento e chi un altro, ma tutti costoro, senza differenza, li riconosciamo carne della nostra carne, li desideriamo, li paghiamo, li coviamo, li abbracciamo, corriamo loro in soccorso, se capita loro qualcosa … e, se evadono il fisco o commettono qualche truffa, ci passiamo sopra, senza intervenire.
4.2.1 Felicità dei bottegai (continua)
Che dire poi che anche i potenti più grandi ne prendano tanto svago che senza di essi non son capaci di pranzare, di passeggiare, di resistere un’ora sola? È pur vero che, per onore, sogliono mantenere anche dei consiglieri, ideologi ed economisti seriosi, ma a quale distanza li mettono, dietro i loro bottegai buffoni! E la ragione di tal preferenza non deve apparire né difficile a penetrare, né straordinaria.
Quei consiglieri non sanno presentare ai grandi se non malinconie, e fidando nelle loro teorie, non si peritano, a volte, di offendere le delicate orecchie con l’aspro vero. Invece i mercanti offrono ai potenti l’unica cosa di cui vanno a caccia in qualsiasi modo e donde che sia, cioè merce, denaro, valore.
D’altra parte, in mezzo alla loro illimitata felicità, i potenti mi pare che siano assai infelici, non essendoci alcuno da cui possano apprendere il vero ed essendo perciò costretti a pagarsi degli adulatori come amici. Ma i potenti hanno un sacro orrore per la verità, dirà qualcuno, ed è questo il motivo per cui schivano la compagnia degli uomini di coscienza, per tema cioè che ce ne sia qualcuno di spiriti liberi, che osi dire il vero piuttosto di ciò che torna gradito. Così sta la cosa: odiano la verità i potenti.
Tuttavia accade una cosa straordinaria, nei miei bottegai, che cioè da essi si ascoltano con piacere non solo parole di verità ma anche aperti rimbrotti; talché la stessa parola che, partendo dalla bocca di un comunista, sarebbe stata causa di condanna a morte, uscita invece da un mercante produce un profitto incredibile. Possiede infatti la verità una sua forza nativa di procurar guadagno, se non ci si aggiunge nulla che costi; ma questo pregio soltanto a certi cervelli manageriali il capitale ha concesso.
5. Desideri di merce
Ma un uomo tanto è più felice, quanto più variamente dà nelle nuvole, a condizione sempre che si mantenga in quel genere di merce capitalistica, la quale ha tal estensione che, forse e senza forse, in tutto l’intero mondo non saprei se si possa trovare un uomo cosciente e non mercificato in tutte le ore della sua giornata.
C’è poi la categoria di quelli che ardono d’insaziabile passione per fabbricare e mutano ciò che è tondo in quadrato, per tornare a mutare il quadrato in tondo. E non conoscono fine o misura alla loro produzione di merci, fino a quando non resti più al mondo dove abitare o che mettere sotto i denti. Ma che importa il domani? Frattanto han passato degli anni di straordinario guadagno.
Di contro a costoro vengono, mi pare, quelli che, in cerca di scienze nuove, di scienze proletarie, onde trasformare lo stato di cose presente, vanno a caccia, per mare e per terra, del famoso comunismo. Sono così adescati da questa dolce speranza, che non c’è fatica, non c’è spesa che loro incresca, e con mirabile inventività escogitano sempre qualche cosa onde ingannarsi ancora e rendersi dolce l’impostura che si son creata; sinché non hanno più un soldo con cui allestire un fornello!
Non per questo smettono di baloccarsi coi loro dolci sogni e di sospingere quanto più possono gli altri verso la stessa felicità! E quando ormai ogni speranza li abbandona del tutto, resta pur loro un conforto non lieve, il pensiero di aver osato, ché “in grandi imprese basta aver voluto!” (Properzio). Salvo ad accusare la brevità della vita, insufficiente a tale e tanto affare!
5.1 Venditori di miracoli
Al contrario sono intinti nella mia pece, non c’è da dubitarne, tutti quelli che godono ad ascoltare e propalare miracoli e favolette di prodigi, e mai si saziano di menzogne, di spettri, di ombre, di fantasmi, di inferno e simili miracoli a non finire. Son lontani le mille miglia dalla verità!
Tali fandonie del resto non servono solo ad ammazzare il tempo, ma hanno uno scopo più pratico, di cavar quattrini, come usano principalmente preti e imbonitori dei mezzi di comunicazione di massa.
Prendiamo ora l’esempio di un negoziante, di un uomo d’arme, di un giudice. Costoro, se han tolto alle loro rapine un soldarello, credono di aver ripulito una volta per sempre la loro coscienza, come per contratto.
Ci può essere maggior mercificazione? Di tanti ex voto che vedete accumulati, su tutti i muri di certe chiese e perfino sulle vòlte, ne avete mai visti per essere sfuggiti alle branchie della merce? Non ce n’è uno solo che renda grazie per essersi liberato dalla merce. Si vede, è tanto dolce non avere coscienza, che tutto gli uomini deprecano tranne la merce. Tanto brulica di compravendite la vita di tutti i cristiani! Ciò nonostante, sono i sacerdoti ad autorizzarli, senza affliggersene certo, ché sanno che questa è una piccola fonte di guadagno, che non finisce mai.
5.2 Notabili
C’è poi una specie di mercificazione che è più amena di tutte, quella di non pochi i quali, delle belle qualità che abbiano i loro dipendenti, faccendieri e tirapiedi, se ne vantano come di cosa loro. E che vale ora far menzione di quanti fan professione di qualche arte? Ciò è principalmente di attori, musici, poeti e accademici, ognuno dei quali più è ignorante e venduto, e più spudoratamente è contento di sé, più si vanta e si gonfia.
E il bello è che si ritrovano facilmente, come si dice, simili con simili, e quanto una cosa è più insipida e commerciale, più si trova chi l’ammiri, dimodoché ai più sorride sempre quanto v’è di peggio, per essere, come ho detto, la maggior parte degli uomini soggetti alla merce. Insomma, meno uno ne sa e più si compiace di se stesso e più la gente si meraviglia; e allora perché mai dovrebbe preferire la vera cultura, che anzitutto gli costerebbe molto, lo renderebbe più fastidioso e povero e infine piacerebbe anche meno?
È l’adulazione commerciale che invita i giovani a intraprendere gli studi letterari. Fa insomma che ognuno sia più mercificato, più caro a se stesso, e ciò costituisce la parte più importante del successo. Che cortesia più fine che grattarsi a vicenda come muli? Per non dire che tale adulazione è gran parte del tanto lodato accademismo e della poesia, e che infine è questo il miele e il condimento più usato dalla società borghese.
5.3 La merce si contenta … di aver tutti gli uomini dalla sua
Nessuno, mi si dirà, fa sacrifici alla Merce, né le si innalzano templi. Certo, e mi meraviglio un pocolino, l’ho detto, della ingratitudine umana, ma data la mia astrazione non me n’ho a male, per quanto io non possa nemmeno desiderare tali onori …
E perché dovrei richiedere un granel d’incenso, del grano, del ferro o una troia, quando tutti gli uomini, in qualsiasi punto della terra, mi tributano quel culto del denaro che più suole approvarsi dagli economisti? E inoltre, per qual motivo dovrei desiderare un tempio? Tutto il mondo è il mio tempio, se non erro. E ce n’è un altro più splendido?
Né mi mancano seguaci, se non dove manchino uomini. Io per me credo di avere tante statue a me innalzate, quanti sono gli uomini, ognuno dei quali rappresenta la mia immagine, vogliano o non vogliano. A me l’universo mondo, senza eccezione, offre di continuo vittime degne.
6. Forme di merce e di mercanti
La classe più stolida, la più ignobile tra tutte, è quella dei commercianti, giacché esercitano la più ignobile delle professioni e nella maniera più ignobile: ogni momento mentiscono, spergiurano, rubano, truffano, ingannano e tuttavia, perché hanno le dita cariche di anelli, si giudicano gli uomini più importanti del mondo. Né mancano dei politicanti adulatori che li ammirano, chiamandoli in pubblico “venerabili”, onorevoli, cavalieri, commendatori, avvocati, ingegneri, evidentemente nella speranza che scenda anche a loro un pocolino di quella farina del diavolo. Ma sarei io più dura di un ceppo, se continuassi l’elenco di tutte le compravendite e di tutte le mercificazioni di massa.
Mi rivolgerò dunque a coloro che tra gli uomini dànno impressione di coscienza e vanno a caccia, come dicono, del ramoscello d’oro.
6.1 Accademici e professori
Il primato tra costoro l’hanno i professori. E non ci sarebbe niente di più disgraziato di costoro, niente di più in odio al capitale, se io, con una strisciante mercificazione, d’un genere speciale, non attenuassi gli inconvenienti di questa professione stracciona. Costoro van soggetti a diecimila maledizioni: sempre affamati, sempre ripugnanti nelle loro scuole – che dico scuole? nei pensatoi (o piuttosto macinatoi, luoghi di tortura) – tra sciami di ragazzi, invecchiano nelle fatiche, diventano sordi a forza di schiamazzi, marciscono nel fetore e nella sozzura.
Eppure, malgrado tutto, a loro par d’essere gli uomini più importanti di questo mondo! Che soddisfazione atterrire col volto minaccioso, con la voce, la pavida turba degli scolari, straziare quegli infelici, incrudelire in mille modi a loro capriccio. E intanto quel sudiciume sembra loro pulizia, il lezzo odore di maggiorana, la schiavitù infelicissima che impongono par loro democrazia, la merce cultura.
Vero è che sono anche molto più felici, per la singolare fiducia che ripongono nella propria dottrina. Ma cosa inculcano nei ragazzi se non sciocchezze su sciocchezze? E non so per quale misero aumento di stipendio, ottengono un effetto meraviglioso, di apparire quali si spacciano agli occhi delle stupide mamme e dei babbi idioti!
C’è poi da aggiungere un’altra specie di guadagno, se si scova in qualche vecchio, fradicio scartafaccio, qualche nome o paroletta poco conosciuta. Che dire poi di quando van mostrando di qua e di là i loro manoscrittucoli freddi da far gelare, insulsi, e non manca chi li ammira?
La maggior dolcezza poi la provano allorché si lodano da se stessi tra di loro e si ammirano scambievolmente, grattandosi l’un l’altro. Ché se poi uno fa un piccolo sbaglio, lo sbaglio di una sola parolina, e quell’altro, un po’ più occhiuto per buona sorte, se n’è accorto, che tragedie scoppiano immediatamente, che polemiche, che insulti, che invettive!
La volete chiamare sottomissione al dominio della merce, codesta, o poca coscienza? A me veramente non importa molto, ma a condizione che confessiate che, per virtù della mia azione, un animale che del resto sarebbe il più infelice di tutti, si solleva a una felicità grandiosa.
6.2 Scrittori e poeti
Della mia stoffa sono anche coloro che vanno a caccia di notorietà e diritti d’autore con la pubblicazione di libri. Sono tutti grandemente obbligati a me, ma più ancora chi imbratta le carte di sciocchezze. Quelli che invece scrivono dottamente, pel giudizio di pochi uomini di cultura, a me sembrano piuttosto degni di compassione che felici. Troppo si torturano instancabilmente ad aggiungere, mutare, tagliare, rimettere, limare, far vedere, tenere chiuso nel cassetto per otto anni sonati, senza essere per questo mai soddisfatti. E che cosa comprano a prezzo di tali veglie, sacrificando il sonno, la cosa più bella della vita, con tanti sudori, con tante croci? Appena un po’ di lode e da parte di pochissimi. Aggiungi poi la salute sciupata, l’emarginazione, la povertà, la rinuncia ai piaceri, la morte prematura ed altri mali simili. A tal prezzo il sapiente crede di poter ottenere l’approvazione di uno o due cisposi!
Il mio scrittore, invece, quello leggero, oh! quanto è più felice nei suoi mercanteggiamenti allorché, senza alcuna elaborazione, ma come gli passa per la fantasia, come gli viene sulla punta della penna, lì per lì affida tutto allo scritto, magari i sogni suoi o del suo committente, senz’altro spreco che di un po’ di carta, ben sapendo che più sciocchezze scrive e più sarà apprezzato dalla maggioranza, voglio dire da tutti i bottegai, gli editori e i senza cultura. Che importa che tali scritti li guarderanno dall’alto in basso, dato pur che li leggano, quei tre dottoroni? Che forza avrà il voto di sì pochi sapienti, in mezzo alla folla immensa che vi si oppone schiamazzando?
La sanno più lunga però coloro che pubblicano come propri gli scritti altrui, impadronendosi di quei diritti d’autore e di quella gloria da altri acquistata a gran fatica, evidentemente nella speranza che, anche accusati di plagio, tuttavia ne trarranno per qualche tempo profitto. Val la pena di vedere come si ringalluzziscono a essere pagati dagli editori e mostrati a dito in mezzo alla folla: “Questi è quell’uomo straordinario!”. Intanto i loro libri fan bella mostra dal libraio, e in capo ad ogni pagina si leggono tre nomi, preferibilmente forestieri, simili a segni magici.
La scena più divertente poi si ha quando si incensano l’un l’altro per mezzo di epistole scambievoli, di encomî, e gli sciocchi esaltano gli sciocchi, gl’ignoranti gli ignoranti. Dalle lodi di un altro vengono fuori più vendite. In qualche caso si cercano perfino un avversario, per accrescere le vendite con l’emulazione; e in tal caso “scindesi incerto il volgo tra passioni contrarie” (Virgilio), sino a quando i due capi, dopo aver egregiamente combattuto, si allontanano vittoriosi, per celebrar il trionfo l’uno e l’altro.
Ridono gli uomini coscienti di queste mercificazioni e tali sono in realtà, chi dice di no? Ma intanto, per beneficio mio, la vita che menano è tutta una dolcezza.
6.3 Gli ideologi, mercanti più di tutti
Ora sarebbe forse meglio passar sotto silenzio gli ideologi e non stuzzicar questi vespai o, come anche si dà, smuovere questa materia puzzolente (tal razza di uomini è straordinariamente boriosa e irritabile) che non mi abbiano ad aggredire a squadre con migliaia di proposizioni, per costringermi a cantar la palinodia, gridando immediatamente al comunista, in caso io mi rifiuti.
È questo il fulmine con cui han l’abitudine di atterrire chi non è troppo nelle loro grazie.
Certo non c’è altri che più di loro ricalcitri a riconoscere il bene da me ricevuto, ma anch’essi sono obbligati a me e non per ragioni da nulla. Sono le consulenze, le commissioni, le missioni, gli incarichi speciali e le poltrone che li rendono ricchi e felici, per le quali, come se abitassero al terzo cielo, guardano dall’alto in basso il resto dei mortali, bestie striscianti per terra, e quasi quasi li compassionano!
E vanno avvolti da schiere sì fitte di definizioni magistrali, di conclusioni, corollari, proposizioni implicite ed esplicite, dispongono di tal esercito di scappatoie, che neppure la rete di Vulcano varrebbe a prenderli. In ogni caso sgattaiolano a forza di distinzioni.
Dalle loro labbra è tutto uno scaturire di vocaboli di nuovo conio e di espressioni prodigiose.
Oggidì quale proletario, quale comunista, non si darebbe vinto dinnanzi a tante finissime sottigliezze? A meno che non sia così grosso di pasta da non afferrarle, o così spudorato da schernirle. Vi sono altri che giudicano una specie di sacrilegio da esecrare, un’empietà imperdonabile parlar con bocca immonda di un potere occulto sì grande, degno di essere adorato più che spiegato, o discuterne usando le empie arguzie dei proletari e volerlo definire con tanta presunzione, insozzando insieme la dorata mercificazione della sacra ideologia borghese con parole e pensieri così vuoti, così spregevoli.
Ma quegli altri intanto, al colmo della mercificazione, gongolano tra se stessi e si applaudono, talché tutti presi giorno e notte, come sono, dalla dolcezza del tintinnìo del denaro, non resta loro un po’ di tempo per sfogliare, anche una sola volta, “Il capitale” o “La scienza della logica” di Hegel.
Credete poi che sia poco remunerativo plasmare e riplasmare a piacimento i testi classici, come fossero di cera?
6.3.1 I democratici e i loro giornalisti: satira della loro mercificazione
Seguono immediatamente costoro, commercialmente, quelli che comunemente chiamano sé democratici e liberali, con una denominazione che più falsa non potrebbe essere. Anzitutto, gran parte di costoro non ci ha nulla a che fare con la libertà, e poi non c’è luogo dove non te li trovi tra i piedi. Non vedo cosa potrebbe esistere di più miserevole, se io non venissi loro in aiuto in molte maniere. Infatti cotal razza di democratici è in odio al capitale e ai comunisti, tanto che anche incontrarli a caso porta sfortuna, la gente ne è sicura! Si son messi in testa che il colmo della democrazia consista nel non aver nulla a che fare con gli studi, tanto da non saper neppure scrivere e parlare. Poi, quando sui giornali o alla televisione ragliano, da asini che sono, i loro diritti umani, fissati in dato numero, ma senza capirli, credono che gli occhi e le orecchie degli asini ne siano accarezzate con straordinaria persuasione. E non pochi ve ne sono – di grandi giornalisti – che strombazzano la propria onestà intellettuale e indipendenza, e la propria vita di stenti, chiedendo dinnanzi alla porta del Palazzo i finanziamenti con grande fracasso. Tra costoro ne vedrai alcuni così rigidi osservanti della democrazia, che di sopra portano il rozzo loden, di dentro una camicia finissima; altri ancora hanno in orrore il denaro come veleno; ma non per questo si astengono dal whisky e dalle donne. Insomma tutto il loro sforzo, che è straordinario, è rivolto a distinguersi nel tenore di vita, la sera in via Veneto, adoperandosi ad essere dissimili tra di loro.
Molti di costoro pongono fiducia in ricorrenze, anniversari e tradizioncelle popolari. Altri si vanterà che per sessant’anni non ha mai toccato denaro se non con due paia di guanti alle dita. C’è poi il fatto che, per quanto i grandi giornalisti non facciano parte della vita politica, tuttavia nessuno osa disprezzarli, specie i Direttori che posseggono i segreti di tutti i potenti. Ed è grave, secondo loro, metter le cose in pubblico, salvo che quando han cioncato vogliono divertirsi con storielle amene, e le rivelano per accenni, tacendo però i nomi. Ma se qualche sprovveduto ha la disgrazia di stuzzicare questi calabroni, allora se ne vendicano a modo loro nei loro editoriali, indicando il nemico con parole oblique, mai così poco velatamente che non c’è nessuno che non capisca, a meno che non sia affatto privo di comprendonio, e non smettono di abbaiarti contro, prima di ricevere l’offa in bocca.
E ora, dì un po’, qual commediante, qual cerretano è preferibile a costoro, allorché nelle loro concioni amplificano e adornano tutto in modo ridicolissimo, per contare – oh che dolcezza! – le regole ordinate dai padroni del denaro? Eterno capitale! Come gesticolano, come smaniano, come prendono sempre nuove facce, come riempiono tutto di schiamazzi! È questa l’arte giornalistica. Hanno poi sentito dire non so da chi che i primi passi dell’articolo devono essere calmi, senza grida, ed essi dànno inizio al loro esordio in modo da non dire niente, come se mettesse conto scrivere o parlare quando nessuno capisce! Hanno sentito che più di una volta, per eccitare gli affetti, bisogna far uso di esclamazioni: e perciò, mentre in genere stan parlando o scrivendo tranquillamente, a un tratto alzano il tono con uno schiamazzo da arrabbiati, anche quando non ce n’è affatto bisogno. Giureresti che il grande giornalista si rammenti improvvisamente di essere stato ben pagato, come se fosse indifferente gridare in un punto o nell’altro.
Anche costoro incontrano, per opera mia, si capisce, chi a sentirli li crede. Di tal fatta sono mercanti e padroni, ed è alle loro orecchie che cercano più che mai di compiacere. Lisciati a modino, lascian cadere qualche briciola del bottino male acquistato. Vedete ormai, credo, di quanto mi sia obbligata questa categoria di uomini che pure, colle loro funzioncelle, colle loro ciance da ridere, coi loro schiamazzi, esercitano tra gli uomini una specie di dominio.
6.4 Contro i governanti e i politicanti
Da un bel pezzo ho voglia di dire qualcosa – così alla schietta – dei governanti e dei grandi personaggi della politica, da cui sono onorata senza infingimenti. Colui che afferra il timone dello stato si fa amministratore degli affari del pubblico, non dei suoi privati. Non deve allontanarsi neppure di un mignolo dalle leggi, delle quali lui è autore e insieme esecutore, deve rispondere lui della correttezza dei suoi amministratori e magistrati.
Lui solo infatti è continuamente esposto agli occhi di tutti e, come un astro benigno, con la sua integrità, può influire molto favorevolmente sulle cose umane, e può anche, come funesta cometa, recar la più grande rovina; ché dei vizî dei privati non ci si risente allo stesso modo, né si diffondono con ugual virulenza, laddove il governante si trova in tal posizione che, per poco che si allontani dal retto, immediatamente il suo malo esempio serpeggia, contagiando un numero infinito di uomini. E poi la condizione del governante è tale che di solito offre molte occasioni di uscire dalla retta via: p.es., mollezze, libertà, adulazione, lusso; tanto più bisogna che s’adoperi con ogni zelo e premura, bisogna che tenga gli occhi ben aperti per non lasciarsi comprare, per non mancare al suo dovere.
Tali e simili considerazioni (ché sono moltissime) se il governante facesse tra sé e sé (e le farebbe se avesse coscienza!) non potrebbe, a parer mio, godere a cuor leggero un momento di sonno o prendere un po’ di cibo. Ora invece, per grazia mia, preoccupazioni di tal fatta le lasciano ai padroni, abbandonandosi a ogni mollezza, e non vogliono lasciar entrare nessuno, se non sa scodellare quattrini, ché il cuore non gli sia mai turbato da ansietà. Dicono però di aver fatto onestamente la loro parte di amministratori pubblici ad andar continuamente in viaggio, ad allevar bei cavalli, a vendere a proprio vantaggio magistrature e poltrone, a scovar ogni dì nuovi motivi di assottigliare i beni dei lavoratori per ingrossare la propria borsa; non senza però aver trovato pretesti ad hoc, talché, anche se la spoliazione è sommamente iniqua, presenti pure qualche lustra di equità. E dopo ciò nulla trascurano per adulare un po’ il popolo, allo scopo di accattivarsene i voti, in un modo o nell’altro!
Che dire poi dei più eminenti personaggi politici? C’è nulla di più sottomesso, di più servile, di più insipido, di più abietto? Eppure vogliono sembrare i primi tra tutti! C’è una cosa però in cui la loro modestia non ha limiti, nel contentarsi cioè nel portare in giro oro, capitali, cariche e gli altri titoli insegne di potere, lasciando volentieri agli altri la ricerca di ciò che rappresentano tali titoli. Per loro il colmo della mercificazione consiste a chiamare il governante :”Presidente”, ad apprendere a corteggiare con brevi complimenti, a far la faccia di corno, ad adulare con leggiadrìa. Del resto, se si osserva più da vicino il loro tenore di vita, non ci trovi se non dei molli Feaci, né più né meno, dei “proci di Penelope” … conoscete il resto del verso oraziano, e l’Eco ve lo rappresenterà meglio di me.
6.5 Preti, vescovi e papi
La vita dei governanti viene già da tempo emulata a tutta possa e quasi quasi sorpassata dai sommi pontefici, dai cardinali e dai vescovi. Invece dovrebbe ognuno meditare che cosa vogliono dire i guanti a difesa delle mani, cioè l’amministrazione dei sacramenti pura da ogni contagio di cose umane. Se un alto prelato meditasse su tali simboli e molti altri di tal fatta, non passerebbe la vita tra melanconie e preoccupazioni? Ora invece fa bella vita e non pensa che a pascersi bene. Vero è che quando si tratta di uccellare a quattrini, il nostro monsignore è veramente vescovo – episcopo – colui che sta in vedetta non in vano!
E chi mai comprerebbe il posto di papa con tutti i mezzi? Chi, compratolo, lo difenderebbe con la spada, col veleno, con ogni sorta di violenze? Di quanti vantaggi non li priverebbe la coscienza, una volta tanto che penetrasse nel loro spirito? Quante ricchezze, quanti onori, qual dominio, quante vittorie, quanti uffici! E poi dispense e poi tasse e poi indulgenze e ancora capitali e azioni e banche e guardie e piaceri e … tutto dovrebbero abbandonare! Vedete un po’ qual mercato, qual mèsse, qual mare di merci lo ha abbracciato, in poche parole! E non bisogna lasciar da parte che tanti scrittori e giornalisti e notai e avvocati e faccendieri e segretari e amministratori e banchieri e ruffiani (stavo per aggiungere qualcosa di più sudicio ancora, ma non vorrei ferir le loro orecchie!), insomma tutta quella turba infinita di gente, che per la Santa Sede torni di onere – scusate ho sbagliato, volevo dire di onore – basirebbe dalla fame! Che crudeltà, che orribile delitto, che orrore!
Così avviene, per opera mia di certo, che non c’è nessuno che più dei papi viva mollemente e senza pensieri. E non lanciano la scomunica con più ardore che contro chi, per istigazione del demonio, tenti di intaccare, di rosicchiare il patrimonio di S.Pietro e delle Opere Pie di Religione! Inoltre, siccome la chiesa di Cristo col sangue fu fondata, col sangue confermata, col sangue accresciuta, così ora trattano tutto col ferro, abbandonano tutto per non far altro che guerre. E qui si vedono anche vecchi decrepiti dar prova di vigore giovanile, non lasciandosi atterrire da spese, non stancarsi per fatiche e lunghi viaggi, non spaventarsi a sconvolgere sossopra leggi, religione, pace e tutte le cose umane. Né mancano adulatori forniti di cultura che tale mercificazione chiamano zelo, religione, eroismo. Ma, sacerdoti o laici, tutti van d’accordo a spalancar gli occhi al guadagno da ricavare, né, in tal caso, c’è uno che ignori le leggi del gioco. Ma se c’è qualche peso da portare, se ne scaricano prudentemente sulle spalle altrui, o se lo passano di mano in mano come una palla. E lo stesso fanno i pontefici: diligentissimi per la loro mèsse pecuniaria, riversano quelle loro fatiche su altri.
7. La fortuna aiuta i bottegai
La fortuna predilige gli uomini d’affari, ovvero gli audaci e i bottegai, quel- li cui piace dire: “Il dado è tratto!”. La coscienza invece rende riservati e da ciò si vede comunemente che questi pianificatori coscienti han a che fare sempre con la povertà e con la fame, che vivono di fumo, abbandonati da tutti, oscuri, in odio a tutti; mentre invece a chi non ha coscienza il denaro par che venga coi propri piedi, è promosso al governo degli stati, prospera in mille modi. Se si tratta di ammucchiar denaro, qual guadagno può far mai un commerciante che, in omaggio alla coscienza, ricalcitri a spergiurare, o che arrossisca sorpreso a mentire, o si preoccupi degli scrupoli che straziano un uomo di coscienza per un furtarello, per un soldo preso a prestito? Se poi uno sospira agli onori, al potere, ai beni ecclesiastici, è più facile vi arrivi un asino bardato, un bottegaio, che un pianificatore.
Se il piacere ti adesca, le ragazze, che poi son tutto in questa commedia, si legano di gran cuore ai magnati della finanza, ma un uomo cosciente è per loro uno scorpione da aborrire, da fuggire. Infine, per poco che uno voglia vivere tra giochi e sollazzi, anzitutto sbarra l’uscio a chi ha coscienza, spalancandolo piuttosto a ogni sorta di bottegai. Per farla breve, volgiti a destra o a mancina, tra papi, presidenti, magistrati, tra amici come tra nemici, tra grandi e piccoli borghesi, quando c’è denaro si può aver tutto e poiché il pianificatore lo disprezza solitamente viene fuggito a tutta possa.
8. Elogio della merce presso i classici
Molto candidamente quel porcello grasso e lucente di Malthus consiglia di mescolare alla coscienza la merce, un pocolino però, aggiunge con poco criterio. E altrove: “È dolce mercanteggiare a tempo buono!”. E poi che lode incondizionata per me in quelle parole di Hume: “Tutto il mondo è pieno di merce!”. Chi non sa infatti che qualsiasi bene quanto più si estende tanto più eccelle?
Scrive lo Smith: “Infinito è il numero dei mercanti”. E di nuovo il Ricardo: “La mancanza di coscienza è di gioia per il mercante”, confessando apertamente, si vede, che senza un po’ di merce non c’è comodità nella vita. A ciò s’appunta anche il detto: “Chi aggiunge coscienza aggiunge dolore e dove c’è grande pianificazione grande è lo sdegno”. E non fa la stessa confessione, alla franca, il grande economista? “Il cuore dei pianificatori … vi alberga tristezza, il cuore dei bottegai … allegrezza”. Per tale motivo non gli bastò apprendere a fondo il controllo della produzione, se non aggiungeva ancora la conoscenza di me, la merce. Non si crede a me? Ebbene state a sentire le parole di lui in persona: “Ho applicato la mia mente a conoscere la produzione e la teoria, e poi il profitto e la merce”, e, lo sapete, chi è primo in dignità è l’ultimo di posto.
Così scrive lo Smith: “Ma, anche camminando per strada, chi è bottegaio, a causa del suo continuo mercanteggiare, giudica bottegai tutti gli altri”. O non è segno di perfetta competitività eguagliare tutti a se stesso, laddove non c’é nessuno che non senta troppo altamente di sé, e metta tutti a parte dei propri meriti? E finalmente Keynes: “Sopportate volentieri chi mercanteggia”. E ancora altrove: “Noi siamo bottegai per amor del capitale”, “Il verbo del denaro è oro per quelli che si pèrdono”, “Il capitale ha scelto ciò che è merce per il mondo”, e dice: “Piacque al capitale di salvare il mondo per mezzo della merce, visto che non potrà essere liberato con la pianificazione”.
*. Conclusione: ho scherzato!
Addio dunque: applaudite, state sani, bevete, o rinomatissimi adepti della merce.
* La parafrasi – come avrà constatato chiunque conosca l’apologo erasmiano – consiste in questo: il testo proposto è costituito integralmente da brani estratti dall’Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam (qui nella traduzione classica di Tommaso Fiore, Einaudi, Torino 1964). Solamente si è fatto prendere alle forme della merce, del denaro, dello scambio, ecc., la parte di tutto ciò che riguarda la pazzia – dietro suggerimento dell’analisi marxiana ampiamente seguìta. (Come la Pazzia, la Merce parla in prima persona). All’opposto, laddove si mostrano saggezza, ragione, serietà e tutto quanto è “arciperfettissimo”, è stata messa la coscienza degli uomini che si oppongono alla pazzia della merce, con i “loro dolci sogni” di pianificazione comunista e controllo della produzione sociale – dietro suggerimento di una buona dose di autoironia critica. Nonostante la fedeltà della parafrasi allo scritto originale, facilmente riscontrabile – e forse proprio per questa ragione – come per Geer Geertsz, “non mancheranno forse critici astiosi che vogliono dar a bere che sono troppo frivoli, tali scherzetti, per convenire a un economista, ovvero troppo satirici per andar d’accordo con la modestia rivoluzionaria”.
Tratto da http://www.contraddizione.it