A supporto di quanto sostenuto nelle tesi di Andrea Montella, nell’articolo precedente, inseriamo un ottimo punto di osservazione del costituzionalista Salvatore d’Albergo tratto da “Materiali de il lavoratore/oltre“.
MOWA
L’Occhio di Spartaco
Rassegna di democrazia e socialismo
DEMOCRAZIA&COSTITUZIONE
(1) COME FARE ALLA DE GAULLE UN COLPO DI STATO TECNICO E PULITO.
(2) DALLE VIOLAZIONI DELLA COSTITUZIONE FORMALE E’ NATA LA QUESTIONE MORALE.
(3) IL BERLINGUER TRADITO
Che in frangenti come quelli che attraversiamo si venga, finalmente, a scoprire l’importanza della “tecnica giuridica”, può essere di un qualche conforto, sopratutto se si considera l’uso perverso che ne vuole fare il centro-destra. E’ bene quindi precisare quali concetti di fondo si celino dietro alle “tecniche” del potere di revisione costituzionale e del potere esecutivo. A questo vuole contribuire questa nuova rubrica del costituzionalista Salvatore D’Albergo (Angelo R.)
COME FARE ALLA DE GAULLE UN COLPO DI STATO TECNICO E PULITO.
Quello che la cultura democratica dovrebbe chiarire per combattere efficacemente le posizioni di chi, come Miglio, è divenuto asse della strategia delle “riforme istituzionali”, è come mai egli possa persistere nel predicare “un uso illegale del potere legale”, senza trovare risposte pertinenti, diverse da quelle che pur giustamente si limitano a respingere la sua icastica e sprezzante invocazione, in stile “lumbard”, di uno “sbrego” alla Costituzione.
Per fare ciò non basta chiamare in causa i contrapposti concetti giuridici che riguardano lo stato democratico e lo stato autoritario, ma occorre collegarli con le vicende politiche della storia contemporanea. Allora si scoprirà che Miglio colloca le sue contestabili teorizzazioni, nel quadro delle vicende che caratterizzano il paradigma del “caso italiano” e del “caso francese” di cui egli fà tesoro, per la rilevanza fondamentale che esso riveste, come precedente che avevamo già avuto modo di denunciare su il lavoratore/oltre del dicembre 91. Ciò perché l’Italia e la Francia erano considerate dalla destra – ma anche dal centro – il punto debole ed oscuro del mondo occidentale, a causa della ben nota presenza dei due più forti partiti comunisti d’Europa.
Che cosa sostiene Miglio e che non si vuole controbattere per non scoprire i limiti strategici effettivi, sia del Pcf che del Pci-Pds? Miglio commisura le sue concezioni antidemocratiche sull’uso illegale del potere legale, al modo come ha operato De Gaulle in Francia per passare dalla IV alla V Repubblica. Un passaggio avvenuto – senza che la cultura democratica abbia opposto alcuna critica di fondo – mediante una cosiddetta legge costituzionale di “deroga transitoria” dell’art. 90 della Costituzione francese del 1946. Una deroga che, con la mistificatoria indicazione della “transitorietà”, è valsa a rompere la Costituzione Parlamentare della IV Repubblica e consegnare al Governo gollista, un potere che prima mai poteva esserci. Ora, la Costituzione della V Repubblica, elaborata con una procedura contraria a quella prevista dall’aggirato art. 90 della C. precedente, attribuisce il potere di revisione, anzitutto, al Presidente della Repubblica.
Miglio ha assunto, fin dal 1983, il precedente francese come base della sua proposta di passaggio alla “seconda repubblica”, criticando la procedura prevista dall’articolo 90 della appena nata C. francese del 46 – che si ispirava ai principi dell’art. 138 della nostra Costituzione attuale – come “macchinosa, troppo lenta e aleatoria”, mentre l’esigenza urgente era di un “radicale cambiamento che reclamava lo strumento usato da De Gaulle se si voleva – ha precisato testualmente e significativamente – “evitare un puro e semplice ‘colpo di stato”.
Non solo. A Miglio non interessa tanto giustificare l’uso illegale del potere legale in base ad una concezione “decisionista” del diritto ( per altro cara a certi marx-leninisti nostrani) , quanto sopratutto dare l’idea che tale posizione culturale, sarebbe addirittura più genuinamente rispettosa della volontà popolare. Questo dice, mirando a criticare il fatto che ha carattere secondario e solo eventuale il referendum previsto dall’art. 90 della C. francese del 46 e dall’art. 138 della tuttora vigente Costituzione italiana. Viene aiutato in questo da una certa cultura pseudo-marxista, secondo la quale la nostra “Costituzione formale”, sarebbe stata già travolta dalla “costituzione materiale” sin dal 18 aprile del 1948, o dalla data di entrata dell’ Italia nella NATO. Ciò Miglio dice, per puntare decisamente ad una soluzione di tipo “plebiscitario”, contando sulla connessione tra il potere di iniziativa (che è il potere vero, superiore a quello di ratifica) di revisione costituzionale del governo e la successiva convalida, a posteriori, del testo governativistico, tramite referendum: con l’effetto di fare credere così di “sanare” la rottura effettuata con la legge di “aggiramento” delle procedure previste dall’articolo 138 della nostra C., che in termini popolareschi, costituisce il cosiddetto “sbrego” invocato per ripetere in Italia il “colpo di stato” operato dal generale De Gaulle.
Queste cose vanno memorizzate perché, vedremo in seguito, sono state avvolte, da sinistra, in una nube fumogena per motivi politici di parte, sia per coprire il ruolo para-gollista svolto in materia dal Pcf, sia sopratutto per coprire il progressivo adattamento alla nuova Costituzione golpista di De Gaulle, operato dal Partito socialista francese e in particolare da Mitterand. Così che le stesse forme sofisticate del “semipresidenzialismo” francese, sono state prese come un esempio di varianti del “presidenzialismo”, per “non demonizzare il presidenzialismo”, come è stato detto dai ricercatori del Centro Riforma dello Stato, quando era presieduto da Pietro Ingrao.
Salvatore D’Albergo
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(2)
DALLE VIOLAZIONI DELLA COSTITUZIONE FORMALE E’ NATA LA QUESTIONE MORALE.
Visto che nel precedente articolo abbiamo cominciato a mettere a fuoco i termini formali della Costituzione – che è “formale” o non è – sgombriamo anche il campo da equivoci teorici pregiudiziali, in base ai quali sia nel Pci che nel Pdup, verso la fine degli anni 70 e all’inizio degli anni 80, si è fatta strada la tesi – recepita automaticamente dall’autorità teorica di un giurista non marxista e democristiano come Costantino Mortati – secondo cui, in realtà, contano sopratutto i “rapporti di forza”, e quindi i testi delle costituzioni formali vanno, secondo lui, commisurati al potere della forza politica dominante che condiziona, volta a volta, il sistema politico istituzionale. Ora se può sembrare facile controbattere la tesi di Miglio sull’uso illegale del potere legale – perchè è chiara ed esplicita -, all’opposto viene accolta con effetti disarmanti, anche da chi contesta Miglio, la tesi di Mortati del prevalere della prevalenza della “costituzione materiale” su quella “formale”. Tesi tanto più inconsistente quanto più oggi, proprio i suoi patrocinatori, sembrano tentare un estremo riarmo politico-culturale per evitare che i mutamenti intercorsi nei rapporti elettorali tra destra e sinistra consentano, persino in base allo stesso articolo 138, di introdurre cunei dirompenti nel testo della Costituzione che, secondo quanto sostenuto sino ad ieri dall’interno del Pci-Pds, sarebbe lettera morta dal 1948, o dal 1949, cioè da sempre! Lungi dal voler dare corso a primati di lungimiranza facilemnte dimostrabili ma che non fanno fare passi in avanti alla discussione, mi piace sottolineare come uno dei pochi studiosi marxisti in materia di diritto e stato, Luigi Ferrajoli, in uno studio importante (“Diritto e ragione – Teoria del garantismo penale”, 1989) non si è invece fatto trainare acriticamente dalla teoria della cosidetta (ed inesistente) costituzione materiale, mettendo a fuoco in modo ben più conseguente la differenza tra lo stato assoluto – nel quale non ci sono vincoli per i pubblici poteri – e lo stato di diritto sia “liberale” che “democratico-sociale”, dove nello stato assoluto – nel quale non ci sono vincoli ai pubblici poteri – si determina una divaricazione tra formalità delle regole e materialità della loro applicazione che non può essere data nello stato di diritto. Non solo, ma ha poi denunciato come “illegittime” e non già accettate come nuova legalità, tutte le deviazioni materiali dai principi dello stato di diritto, anzichè subalternamente rilegittimarle in nome della costituzione materiale. In ciò quindi considerando espressamente “regressivo” il ricorrere a quella che egli ha definito come una “confusa nozione sociologica” quella di chi si è prestato in molti casi a legittimare le deroghe di fatto alla Costituzione formale con le conseguenti proposte di riforme (“istituzionali”) per adeguare la Costituzione alle deroghe stesse anzichè conformare la pratica politica ai principi costituzionali.
Si tratta di una questione teorica legata all’uso politico del diritto, che rimanda a discussioni non più riprese come quelle fatte nel 1973 con “I compiti attuali della cultura giuridica marxista” su “Democrazia e diritto” (De Donato 1975, pagg. 202) e riprese dal solo Enrico Berlinguer il quale – in occasione della pubblicazione dei “Discorsi parlamentari” di Togliatti da parte della Camera dei Deputati (1984), puntualizzò con una critica da sinistra le deviazioni dei partiti anticomunisti che con la costituzione materiale avevano mortificato le prerogative del Parlamento. Berlinguer aggiungeva, alle denunzie già fatte da Togliatti della surrettizia sostituzione e connubbio tra specifico ruolo dei partiti e quello specifico delle istituzioni, la rilevanza politica e istituzionale della “questione morale” che i comunisti hanno con lui posto con tanta decisione e che deriva dalla “costituzione materiale”, cioè da quel complesso di usi e abusi con cui si è contraddetta la “Costituzione formale” (pagg. xix e xx della Prefazione).
Noncon la televisione, quindi, Berlusconi ha compattato le destre che si sono riorganizzte dal 1985 in poi( a dimostrazione della falsità della tesi del Pds sul superamento della democrazia organizzata), ma con il diffondersi nella società civile di deviazioni teoriche che sono state alimentate da una cultura che da marxista è diventata pseudo marxista e poi “liberale”, proprio nel campo del diritto e dello Stato. Stato e diritto che in modo convergente, correnti opposte del movimento operaio, di estrema destra e “governativistiche” e di estrema sinistra e “autonomistiche”, reputano estranee all’analisi del Capitale di Marx, in piena sintonia con i sofismi di un “campione” liberalsocialista” come Bobbio, un antimarxista che viene accolto come un oracolo da quando, e si era ancora nel cuore delle lotte anticapitalistiche, sostenne “l'”inesistenza della teoria marxista dello stato”.
Salvatore D’Albergo
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(3)
IL BERLINGUER TRADITO.
A dieci anni dalla morte di Berlinguer e dalle elezioni europee che fecero del Pci (33,3%) il primo partito in Italia e in assoluto il più votato in Europa, sono venuti al pettine i nodi di uno spostamento a destra, favorito dalla sinistra con una strategia involutiva che non trova precedenti storici nella politica contemporanea. Solo il mix tra arroganza e incultura della leadership dei cosiddetti “progressisti”, ha potuto spacciare quanto avvenuto per una combinazione maligna dovuta alla “telecrazia” berlusconiana” e alla capacità di fare “sognare” un elettorato, considerato “traditore” delle presuntuose attese di Occhetto, Orlando, Ripa di Meana, con l’appendice di Bertinotti.
Solo di recente si è potuto leggere anche sul Manifesto – che in questi anni ha censurato quanti tentavano di aprire un dibattito “critico” – che la sconfitta del “polo progressista” ha radici ventennali. Occorre allora dire a militanti sorpresi o sbigottiti, che si domandano “che fare”, quello che invano tra i comunisti si è cercato di avvertire sopratutto dopo il 1984, avendo potuto i comunisti scrivere quasi solo in “esilio” su giornali svizzeri come “il lavoratore” e “Agorà” e, anche li, nella incredulità verso chi dava spazio all’allarme per ciò che sarebbe potuto accadere ed è poi accaduto.
Quel che conta è che l’allarme, argomentato, faceva riferimento al fatto che dopo la morte di Berlinguer – che dal 1981 aveva tentato un’estrema operazione di riscatto dalle vicende della solidarietà nazionale – sono stati alimentati ulteriormente tutti gli equivoci che nascevano dalla contraddizione tra quelli che nel Pci, già all’epoca del centro sinistra, puntavano all’unità con il Psi e leggevano in termini di alternanza tra destra e sinistra, la contesa per il governo e chi invece come Berlinguer, puntava ad una alternativa democratica delle forze protese alla trasformazione del sistema sociale e politico.
Berlinguer, in una terza via affatto equidistante tra capitalismo e socialismo ma come terza via al socialismo rispetto alla socialdemocrazia e al “socialismo reale”, considerava la conquista del governo come un passaggio e non come l’obbiettivo limitato ed esclusivo di una “bagarre” di ceti politici.
In tale contesto, le posizioni di quelli che furono definiti “miglioristi”, in realtà rappresentavano l’incubazione di destra del Pci, che guardava con interesse convergente al craxismo sia dal punto di vista della tattica che della strategia del Psi “autonomista” e anticomunista. Questo aveva come risvolto l’adesione al tipo di offensiva che Craxi, con il supporto culturale sopratutto di Amato – passato dall’Ires CGIL alla politica -, aveva lanciato sul terreno della “grande riforma” come strategia di abbandono definitivo del terreno della lotta di classe e del conflitto operaio contro l’impresa e di passaggio al primato della “governabilità” e, quindi, dei poteri di vertice dello stato in simbiosi con quelli del capitalismo privato.
Il contrasto interno al Pci celava però agli occhi dei militanti comunisti – deviati da una pur giusta critica all’esperienza della “solidarietà nazionale”- l’estrema contraddizione della strategia delle cosiddette riforme
istituzionali fatta propria dal Psi con la strategia che il Pci fino a Berlinguer aveva perseguito fin dal periodo successivo all’entrata in vigore della Costituzione e che aveva trovato specie dopo il 1968, impulsi concreti e di massa nel segno della lotta per la “riforma democratica dello stato: cioè apprestare strumenti istituzionali coerenti con le riforme sociali, come l’emanazione dello Statuto dei lavoratori del 1970 e la creazione del sistema delle regioni.
Una strategia quindi opposta a quella delle “riforme istituzionali” pensate per contrastare le riforme sociali e dominare la società dalle istituzioni e che, peraltro, il Pci perseguiva in convergenza sia con forze socialiste non autonomiste, sia con forze cattoliche democratiche e non moderate.
Se pertanto nella questione dello stato andava profilandosi il punto di verifica dell’incidenza dei rapporti sociali – da trasformare in direzione del socialismo o da conservare in nome del capitalismo -, era decisivo che il Pci rimanesse sino in fondo coerente con una impostazione volta a rifiutare l’adesione, più o meno coperta, ad una strategia che la nuova dirigenza del Psi assumeva come cuneo da inserire tra le forze precedentemente unite in Parlamento e nella società in nome di quello che era stato chiamato “arco costituzionale” contrapposto alla “maggioranza silenziosa” cui si appello Indro Montanelli, contraria alle lotte di attuazione della Costituzione. Un cuneo non casualmente pensato dal Piano P2 all’indomani dell’avanzata comunista del 75, che apriva una crepa profonda, non tanto tra maggiornaza governativa e opposizione democratica, quanto tra forze antifasciste legate all’ideologia della Costituzione, e forze disponibili armai ad accreditare quel “superamento della Resistenza” che serviva all’opposizione missina – legata alla concezione fascista della società e dello stato -, per accreditare il superamento della “Prima Repubblica”
Il cedimento del Pci dopo la morte di Berlinguer, alla strategia delle riforme istituzionali, era tanto più grave in quanto il contrattacco alla democrazia sociale e alla Costituzione aveva trovato basi culturali in forze anche diverse da quelle esplicitamente collegate alla tradizione fascista, ed aveva preso corpo in critiche frontali -ancora- alla Costituzione in quella fase traumatica del passaggio dal centrismo al centrosinistra, che sembrava ad alcuni preludere a un passaggio più avanzato perchè coerente con l’attuazione della prima parte della Costituzione, in cui sono contenuti principi in nome dei quali era legittimata una politica di controllo sociale e di direzione programmativa e democratica dello sviluppo economico, e quindi di tutto il sistema delle imprese, private, pubbliche e cooperative.
Tale critica, affiancando quelle di tipo fascista contro la “partitocrazia”, si facevano forti dell’idea, antidemocratica perché autoritaria, della “governabilità” come principio superiore rispetto alla “rappresentatività”, e quindi della supremazia dell’esecutivo sul Parlamento: una teorizzazione questa che fu elaborata nel 1964 nella fase del tentativo di”golpe” De Lorenzo-Segni e nel vivo del centrosinistra e di un contrasto sul modo di intendere la programmazione dell’economia (come politica “dei redditi”, o come “governo democratico dell’economia”?), da uno studioso che in questi giorni, dopo la sconfitta sciaguratamente non prevista oltre che assecondata da sinistra, appare come l’ideologo della situazione, e cioè Gianfranco Miglio docente cattolico-tradizionalista di storia delle dottrine politiche e non già costituzionalista come viene invece definito. Una teoria che si fondava sulla premessa che essendo il Parlamento il luogo logistico dell’opposizione (allora c’era un partito popolare e sociale di massa come il Pci e non i pipini in maschera dell’attuale sinistra snobistica ed elitaria, n.d.r.), sarebbe di per se una istituzione incongrua al funzionamento razionale dello stato e che ha poi concorso attivamente, ad una elaborazione politico-istituzionale che tendesse non solo a bloccare l’attuazione la Costituzione, ma addirittura a modificarla profondamente stravolgendone il senso e trovando le condizioni più favorevoli sopratutto quando, morto Berlinguer, il Pci fu portato alla deriva da un gruppo dirigente più impegnato – dall’antifascismo alla lotta di classe, dalla proporzionale al diritto di sciopero e, dunque, alla Costituzione – ad abiurare e a disfare piuttosto che ad elaborare ed organizzare strategie di lotta democratica per la trasformazione socialista. A dieci anni dalla morte di Berlinguer e dalla la fine di una stagione di lotte, chi può sorprendersi se venendo meno la lotta per il socialismo avanza il fascismo?
Salvatore D’Albergo