Le false prove contro il sistema previdenziale. Perché i governi si sono accaniti contro le pensioni e contro la Corte Costituzionale. I requisiti di una sistema pensionistico solidale e sostenibile.
di Ascanio Bernardeschi
Da oltre 20 anni siede costantemente sul banco degli imputati, accusato di leso bilancio dello stato, il sistema pensionistico che difatti centrodestra, centrosinistra e governi tecnici hanno inesorabilmente bastonato. Le prove poste a suo carico: la durata media della vita, ahimè, si è innalzata e i lavoratori attivi devono mantenere la pensione a troppi anziani; la finanza pubblica non ce la fa più a sostenere il peso delle pensioni; il sistema retributivo usava i contributi di coloro che lavorano non per “capitalizzarli” al fine di poter erogare loro la futura pensione, come avviene con una sana assicurazione privata, ma – che vergogna! – per pagare le pensioni a chi è già è stato collocato a riposo; e, ultimamente, la notizia che la spesa per la previdenza è oltre il quadruplo della spesa per la scuola.
Proviamo a vagliare queste prove. Le compagnie di assicurazione hanno l’obiettivo di fare profitti e possono raggiungere questo loro unico scopo se commisurano le pensioni erogabili ai contributi da ciascuno versati, tenendo di conto delle probabilità, facilmente calcolabili attingendo alle statistiche, che il cliente raggiunga l’età pensionabile (non crepi prima), e che vivrà un numero X di anni durante i quali godrà del vitalizio. Quindi assicurano prioritariamente il proprio profitto. È sufficiente che i suddetti calcoli tengano di conto anche delle spese generali e di un “congruo” margine di utile.
Lo stato invece non è una compagnia di assicurazioni e, diversamente dai privati, deve intervenire proprio per correggere i meccanismi di mercato laddove non garantiscono una equilibrata riproduzione sociale. Se esaminiamo la cosa non dal punto di vista di una singola compagnia, ma della società nel suo insieme, il prodotto sociale degli attuali lavoratori deve necessariamente servire a mantenere in vita dignitosamente sia il lavoratore, sia coloro che attualmente non lavorano perché troppo giovani o troppo vecchi. Sarebbe singolare una società in cui gli anziani consumano i beni che essi stessi hanno prodotto negli anni, durante la loro vita lavorativa, e che hanno diligentemente accantonato e i giovani digiunano in attesa di rifarsi quando lavoreranno. Proprio non può funzionare così. Ma i nostri governanti, introducendo il sistema contributivo, hanno preteso che la logica delle assicurazioni private debba valere anche per l’intera società. Così facendo, non solo hanno affossato un elemento di solidarietà tra le diverse generazioni, ma hanno determinato il venir meno di una finalità fondamentale dello stato.
Sempre esaminando le cose dal punto di vista dell’intera società e non dei “conti della serva”, non è una sciagura, ma un progresso che la durata media della vita aumenti. E per fortuna le risorse per farsi carico del mantenimento di un numero crescente di anziani non mancano. La produttività è infatti aumentata ancora di più della vita media. Fino agli inizi degli anni 60 del ‘900, per esempio, la maggior parte della popolazione, compresi molti bambini, lavorava i campi, eppure erano abbastanza frequenti i casi di malnutrizione. Oggi lavora in agricoltura una minima parte di popolazione eppure ci ammaliamo per eccesso di nutrizione. Le comunicazioni richiedevano un grande dispendio di lavoro, mentre oggi si comunica da un capo all’altro del mondo agendo in pochi istanti su una tastiera e un mouse. La capacità di calcolo che richiedeva una stanza piena di ammennicoli e che costava tantissimo lavoro, oggi è surclassata da qualsiasi PC comprato a buon mercato. Insomma ci sono le condizioni tecnologiche perché con sempre meno lavoro si possa mantenere sia una popolazione anziana crescente, sia una crescente popolazione giovane che prima di accedere al lavoro ha bisogno di un periodo sempre più consistente di istruzione.
“Sì. Però – obietteranno molti abbagliati dagli aspetti monetari – i soldi non ci sono, i conti non tornano”. Se i conti non tornano non è per una calamità naturale, ma la conseguenza del fatto che il frutto di questa aumentata produttività è andato solo in minima parte a sostenere il tenore di vita dei lavoratori, delle loro famiglie e degli anziani. Il grosso è andato ai profitti e alle rendite. Un sistema pensionistico equo, solidale e sostenibile ha bisogno di una diversa ripartizione della ricchezza sociale e del lavoro sociale, ma questo è proprio ciò che aborrono i governi asserviti agli interessi dominanti.
L’ultima bufala, il confronto tra la spesa per l’istruzione e quella per le pensioni, è solo un volgare imbroglio. Basterebbe togliere dalla spesa per la previdenza sia la spesa per l’assistenza e gli ammortizzatori sociali, sia le imposte che vengono pagate dai pensionati – nella generalità delle nazioni queste voci sono escluse – e i conti sarebbero in equilibrio, o addirittura in attivo, con la spesa allineata a quella delle altre nazioni evolute. Rimarrebbe, è vero, rispetto alla media europea, un difforme rapporto con le risorse destinate alla scuola, ma questo per il solo fatto che l’Italia è il fanalino di coda per quanto riguarda la spesa per l’istruzione. Insomma la “prova” esibita non dimostra che si spende troppo in pensioni ma che si spende poco in istruzione.
L’accanimento feroce contro una conquista di civiltà si spiega solo con la difesa degli interessi del capitale, il quale, per una ben nota legge – che anche a sinistra la si è messa nel dimenticatoio – trova sempre più difficoltà a ottenere il livello desiderato di profitti via via che cresce la sua accumulazione, e cerca di attenuare questa difficoltà riducendo i salari e impoverendo le masse.
Le pensioni infatti non sono altro che salario differito, il cui costo, nella forma di contributi o di prelievi fiscali, viene sottratto al plusvalore prodotto socialmente, che – ricordiamo – è l’unica fonte del profitto. Diminuendo questo esborso, diminuendo il costo di mantenimento della forza-lavoro, aumentano i margini di profitto. Questo modo di accrescere il plusvalore, riducendo il costo della forza-lavoro, Marx lo chiamava plusvalore relativo, anche se in quel contesto egli ipotizzava che questa diminuzione avvenisse non abbattendo le condizioni di vita dei lavoratori, ma incrementando il grado di sfruttamento del lavoro e, grazie all’accresciuta produttività, di spenderne sempre meno per il mantenimento della famiglia lavoratrice.
L’altro modo di accrescere il plusvalore Marx lo chiamava plusvalore assoluto e consisteva nel prolungamento dell’orario di lavoro, di modo che, fermo restando il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro, aumentasse l’eccedenza che alimenta i profitti. Anche l’aumento dell’età pensionabile risponde a questa esigenza. È nei fatti un aumento di orario di lavoro nell’arco dell’intera esistenza del lavoratore. A parità di tenore di vita, se facciamo lavorare i salariati per un numero maggiore di anni, rimane più lavoro di cui si appropriano i capitalisti e che si ripartiscono più o meno fraternamente tra profitti e rendite. Ma l’aumento dell’orario di lavoro, giornaliero, settimanale, mensile o dell’intero arco della vita, è in piena contraddizione con lo sviluppo della produttività.
A chi dice che pochi giovani debbono mantenere troppi anziani, si può rispondere agevolmente che allo stato delle cose, troppi anziani, trattenuti forzatamente al lavoro, debbono mantenere troppi giovani che il lavoro non lo trovano, proprio perché si prolunga la vita lavorativa.
Chi cerca di scatenare una guerra tra generazioni, aizzando i giovani contro il sistema pensionistico, o è sciocco o in malafede, perché i giovani di oggi, grazie alla diffusa disoccupazione/precarietà e alle “riforme” previdenziali caldeggiate da questi agitatori, non vedranno mai la pensione. Se serve sempre meno lavoro per produrre i beni utili alla nostra esistenza, questo minor lavoro dovrebbe essere equamente ripartito, altrimenti le nuove generazioni non riescono ad essere pienamente occupate, come infatti sta certificando anche l’Ocse. Ma nella nostra società i beni utili prodotti, assumono la forma sociale di merci per la vendita. E il lavoro quella di lavoro salariato. Non siamo, contrariamente a quello che ci dicono certi economisti, in una società “naturale” ma in una realtà caratterizzata da specifici rapporti sociali e da interessi contrastanti. La possibilità di ridurre l’orario di lavoro dipende dai rapporti di forza tra le classi e in questo momento tali rapporti sono assai sfavorevoli ai lavoratori.
Non sorprende quindi che un governo “tecnico”, infarcito della tecnica che piace tanto a lor signori, pur di appuntarsi nel petto un’ennesima medaglia al valore militare nella guerra contro i lavoratori, abbia arditamente travalicato i limiti posti dalla nostra carta costituzionale, la quale sancisce che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione […] in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36) e a “mezzi adeguati” alle sue “esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” (art.38).
Non sorprende neppure che i ministri del successivo governo, quello attuale, e i giornali embedded si siano scagliati contro la pronuncia della Corte Costituzionale, lamentando che essa non avrebbe tenuto di conto dei vincoli di bilancio, come se questi debbano essere anteposti ai diritti dei cittadini. Infine non sorprende che si cerchi di rimediare violando nuovamente la pronuncia dell’Alta corte, dando una miseria di risarcimento perfino a pensioni medio-basse, quando invece si potrebbero far tornare i conti colpendo le grandi ricchezze, le speculazioni finanziarie, l’evasione fiscale e magari tagliando la spesa per gli F35.
Ricordo che nella prima repubblica, per tirare avanti nel corso di crisi di governo che non riuscivano a esprimere una maggioranza politica, e si doveva temporeggiare con governi tecnici, si denominavano talvolta tali esecutivi “governi d’affari”. Anche questo governo potrebbe essere così qualificato, ma per una ragione alquanto diversa, visti gli affari che assicura a piene mani al padrone del vapore.
Bibliografia essenziale
Gianni Mazzetti, Quel pane da spartire, Bollati Boringhieri, 1997
Gianni Mazzetti, Il pensionato furioso. Sfida all’ortodossia previdenziale, Bollati Boringhieri, 1998
Karl Marx, Il Capitale. Libro I, ed. La Città del Sole, 2011.
Maggio 30, 2015