Mario Agostinelli
Il cambiamento è già in atto
Hermann Scheer sosteneva che la sfida energetica del XXI secolo si sarebbe giocata tra atomo e sole, in un anticipo ridotto all’essenziale dello scenario entro cui la geopolitica deve far i conti con la sfida per la sopravvivenza della biosfera. Secondo l’ideatore del “conto energia” un mondo vivente, soffocato da protesi artificiali di cui l’uomo si è circondato e che ha industrialmente prodotto e accumulato a disprezzo dei cicli naturali, avrebbe cercato scampo nella fonte nucleare per rallentare il cambiamento climatico senza alterare il modello capitalistico di crescita illimitata della produzione e dei consumi e, insieme, di spreco imperdonabile di lavoro e natura.
Nel secondo decennio del nuovo millennio la realtà è assai più complessa di quanto Hermann presagiva e presenta già tutte le turbolenze di un cambiamento profondo del paradigma energetico. La sorpresa cui ci troviamo di fronte sta nel crescente successo delle fonti naturali accompagnate da una ostinata ricerca di efficienza. Risultato non più ascrivibile al solo progresso tecnologico e alla raggiunta convenienza economica, bensì alla consapevolezza che la stabilità e il futuro di un modello di produzione e consumo non debba più passare dall’accaparramento delle risorse fossili. Un possesso e, contemporaneamente, un esproprio, conseguito per via militare o per “accordi” asimmetrici imposti dalla disparità economica dei contraenti. La verità è che quello che i governi trascurano – la responsabilità di assicurare salute, riproduzione e conservazione della specie – sta prendendo piede in una coscienza diffusa di cui abbiamo quotidianamente riscontro e che desidera cooperazione politica, riorganizzazione sociale e convergenza di “stili di vita”. In una lenta ma a mio avviso inesorabile presa di distanza delle popolazioni dalla competizione che i governanti inseguono nell’arena globale del mercato, ne sta passando di acqua sotto i ponti…
Molte sono le avvisaglie di un processo difficilmente reversibile, a dispetto dei disegni che il prevalere dell’economia sulla vita cerca ancora di perseguire.
1) Nonostante i rischi della tecnologia nucleare vengano esorcizzati con la promessa di una sua riconversione innocua e pulita e con impegni massicci dei governi che ne apprezzano la ricaduta militare (l’industria nucleare americana sostiene che occorre aumentare del 20% i finanziamenti a fondo perduto per le industrie dell’atomo, mentre il Pentagono ne appoggia la richiesta, suonando l’allarme per le minacce alla sicurezza nazionale rappresentata dal cambiamento climatico), solo il piano cinese sembra uscire dallo stadio di progetto sulla carta. E si avvertono anche in Asia le resistenze dei movimenti antinucleari.
2) Nonostante la riduzione dei prezzi dei fossili non convenzionali abbia fatto gridare alla “rivoluzione dello shale gas, il prezzo del petrolio non si stabilizzerà al ribasso nel lungo periodo, dato che i vincoli alle emissioni ne ridurranno comunque la compatibilità. In compenso, cresce il rischio di bolle finanziarie, perché sempre più elevati sono i costi attuariali di estrazione, combustione e trasporto.
3) Le tecnologie rinnovabili decentrate (sole + vento + geo + idro + biomasse), invece, pur limitate da una relativa discontinuità, sono sfruttabili direttamente in pressoché ogni angolo del mondo e stanno raggiungendo la “grid parity” a ritmi fino a un decennio fa impensabili. Nei primi tre trimestri del 2014, la Cina ha speso 175 miliardi dollari in progetti di energia pulita, un salto del 16 per cento rispetto all’anno precedente. Stando in Europa, sono le imprese a valorizzare per prime la maggiore disponibilità di elettricità da FER, al punto di richiedere che sia il mercato ad adattarsi alle FER, estendendo la possibilità di accumulo e di ricorso a reti intelligenti. Anche Bloomberg – una origine insospettabile – da tempo indica nel solare la fonte più conveniente in quanto a stabilità per gli investimenti.
Un conflitto di così ampia portata, che riguarda nientemeno che la transizione da un sistema fossile e nucleare, fondato su concentrazione di capitale, finanza e infrastrutture proprietarie, ad un sistema di fonti naturali non proprietarie, diffuse e territorialmente governabili, non sfugge certo agli interessi dei governi e delle corporation che tengono il campo nell’economia, nel commercio, nel sistema finanziario globale. Ed è qui che entra in campo l’iniziativa che Stati Uniti ed Europa in particolare stanno assumendo sul fronte dei trattati commerciali che riguardano anche l’energia, di cui tratterò di seguito in dettaglio.
Il TTIP: tra “Washington consensus” e illusioni liberiste
Va qui ricordato che quando si tratta di esportazioni di GNL o shale gas, la legge statunitense concede l’approvazione automatica alle applicazioni per i terminali destinati a spedire il gas ai paesi che hanno sottoscritto accordi commerciali con Washington, mentre le richieste di terminali GNL per inviare il gas altrove, al contrario, devono passare-attraverso un processo di valutazione, che determina se tale commercio è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Questo è il nodo che gli Stati Uniti vogliono risolvere una volta per tutte a loro vantaggio e a vantaggio delle loro imprese, sia con l’UE che con i Paesi asiatici (Cina e India escluse) e dell’Oceania. Washington è attualmente impegnata in due importanti accordi commerciali multilaterali di negoziazione: il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP, con i 28 Paesi dell’UE) e la Trans-Pacific Partnership (TPP, con 11 Paesi nella regione Asia-Pacifico e Americhe). Di fronte ad una palese asimmetria che gli Stati Uniti vogliono rendere norma universale cogente, l’UE sta purtroppo rinunciando ai suoi obiettivi ed è giunta ad annacquare gli obiettivi di efficienza e rinnovabili che si era fin qui data.
Sono le maggiori imprese euro-americane che si sono mosse, formalmente per avviare negoziati per un accordo di libero scambio che aumentasse ulteriormente “la generazione di ricchezza monetaria legata al commercio”. Gli obiettivi non dichiarati esplicitamente stanno però altrove: non tanto rimuovere le barriere commerciali fra i due partner per facilitare la vendita di merci e servizi, quanto allineare al ribasso le norme ambientali e sul lavoro, consentire la privatizzazione dei beni comuni, affidare i contenziosi che si apriranno in tema di diritti ad un arbitrato di natura privata, in cui le multinazionali e i loro interessi avranno ruolo decisivo. Nel caso specifico dell’energia la cosiddetta “coerenza nei regolamenti” e una “più stretta cooperazione” minano alle fondamenta la cultura di cui l’Europa è stata a lungo leader nel mondo.
Business Europe – la più grande federazione di datori di lavoro europei, che rappresenta le maggiori multinazionali d’Europa – ha accusato la normativa ambientale europea di aver posto le imprese continentali in una situazione di svantaggio rispetto ai loro concorrenti globali, ed ha evidenziato la “necessità di ridurre il differenziale UE-USA”.
Sotto tiro ancora il protocollo di Kyoto, che in attesa della COP di Parigi entrerebbe in una nuova fase critica, dato che i grandi emettitori di CO2 avrebbero strada libera per aumentare l’inquinamento e, quindi, gli accordi sul clima troverebbero una sintonia di opposizioni sul fronte “atlantico”.
Il risultato del reciproco riconoscimento degli standard ambientali potrebbe essere il proliferare di tecnologie controverse come la fatturazione idraulica (fracking) per produrre il gas di scisto, con gravi danni alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. Il fracking, già bandito in Francia per rischi ambientali, potrebbe diventare una pratica tutelata dal diritto: le compagnie estrattive interessate ad operare in questo settore potrebbero – sulla base delle norme previste – chiedere risarcimenti agli Stati che ne impediscono l’utilizzo. Diverse imprese energetiche USA hanno posato gli occhi sui giacimenti europei di gas di scisto (specialmente in Polonia, Danimarca e Francia) e potrebbero avvalersi del TTIP per smantellare i divieti e le moratorie nazionali adottate per proteggere i cittadini europei. Nella sua attività di lobby BusinessEurope sollecita un capitolo energia che renda libero il flusso di petrolio e di shale gas dagli USA all’Europa. Ad oggi infatti non esiste export petrolifero dagli USA e per il gas si attende il 2016, ma esistono molte restrizioni legislative oltreoceano al riguardo. L’eliminazione di qualsiasi restrizione all’export di materie prime fossili in Europa è la richiesta di una industria europea che, consapevole dell’esaurimento delle risorse del vecchio continente (la produzione domestica di petrolio è stimata in calo del 57% al 2035 e quella del gas del 46%), ignora la possibilità della rivoluzione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza e rimane ancorata a carbone, gas e petrolio.
L’Unione, dal canto proprio, ha fatto di tutto nell’ultimo periodo per preparare il terreno delle importazioni di idrocarburi non convenzionali. Ha stracciato tutti i regolamenti che si era data per limitare l’inquinamento, come la direttiva sulla qualità dei carburanti e quella sulla qualità dell’aria. Un regalo all’industria automobilistica da una parte, alle multinazionali dell’energia fossile dall’altra. Si andrebbe così verso l’armonizzazione nella concessione delle licenze di estrazione: i Paesi contraenti sarebbero obbligati a rimuovere ogni ostacolo che inibisca la libera circolazione dei combustibili fossili (ogni comunità che reagisca alla costruzione di oleodotti, leggi Keystone XL, o a nuovi pozzi, leggi Basilicata, è avvertita).
Interessante in questo quadro è notare la predisposizione del nostro Governo a anticipare le avances americane e a offrirsi come l’approdo (hub) europeo del gas. Federica Mogherini, alto rappresentante Ue per gli affari esteri e certo non estranea alle posizioni italiane al riguardo, ha fatto pressioni a dicembre sul segretario di Stato americano John Kerry per inserire il capitolo sull’energia nel Trattato e, con esso, aprire un canale di importazione per lo shale gas americano. Mogherini ha sostenuto che un capitolo sull’energia nell’accordo di libero scambio potrebbe rappresentare “un punto di riferimento per il resto del mondo” in fatto di mercati energetici.
Per i biocombustibili, il TTIP, attraverso l’armonizzazione delle normative europee in ambito energetico, incentiverebbe l’importazione di biomasse americane che non rispettano i limiti di bilancio di emissione di gas a effetto serra e altri criteri di sostenibilità ambientale.
Per le rinnovabili si profila il divieto assoluto di “domestic content nelle energie alternative” (quindi addio ad ogni connessione tra sviluppo locale e green economy), con stretti limiti alla possibilità in uso in Europa di incentivare le fonti naturali. In particolare, l’articolo O della bozza al comma a) vieta ai Governi di far valere “requisiti relativi al contenuto locale” nei programmi per le energie rinnovabili. Tradotto dal burocratese, significa abolire la corsia preferenziale per favorire chi produce e consuma sul posto energia rinnovabile.
Nei carburanti da autotrazione sono differenti i limiti inquinanti e anche qui il rischio è un accordo al ribasso. Assai critica è la discussione che si è aperta sulla qualità dei carburanti, che impone in Europa di assicurare una riduzione delle emissioni dei gas serra nell’intero ciclo di vita dei combustibili impiegati nel settore dei trasporti. Fin dalla sua adozione Shell, BP, Exxon Mobil, Chevron e gli altri big del petrolio hanno fatto pressioni per annacquare i suoi effetti. L’UE sinora ha sostenuto un “peso CO2” diverso per ciascun carburante in base all’origine/metodo di estrazione della materia prima. E’ su queste basi che il petrolio non convenzionale (ad esempio quello estratto dalle sabbie bituminose in Canada), che in seguito al processo di estrazione emette più anidride carbonica di quello convenzionale, viene penalizzato e fin qui rifiutato.
L’articolo D al punto 2, stabilisce che i Governi, in materia di energia, abbiano la possibilità di mantenere obblighi relativi all’erogazione dei servizi pubblici solo finchè la loro politica non è più onerosa del necessario. Diventerebbe quindi praticamente impossibile accordare ai più poveri e ai più deboli una “tariffa sociale” ribassata del gas o dell’energia elettrica. Prezzo di mercato per tutti, senza se e senza ma! (ma Renzi ci ha già pensato e la tariffa di maggior tutela per gas e elettricità cesserà per decreto tra un anno e mezzo).
Qualche riflessione conclusiva
In nome della competitività, dunque, si calpestano le capacità fisiche del pianeta, si ignorano le disastrose conseguenze sul clima, si ipoteca il futuro per un immediato piatto di lenticchie. Strano come questa enorme partita ancora non susciti allarme e reazione nell’opinione pubblica.
La rivoluzione Shale è sopravvalutata e potrebbe nel medio periodo rivelarsi strategicamente non solo poco risolutiva, ma addirittura perniciosa, dato che i vincoli climatici e finanziari di lungo periodo potrebbero risultare per questa tecnologia esiziali. In quanto rivaluta le riserve energetiche degli Stati Uniti precedentemente in grave crisi, fornendo ad essi una posizione di rilievo assoluto in un mercato tuttavia molto complesso, risulta ovvio che i produttori americani cerchino mercati di sbocco. Ma quale interesse può avere l’Europa – e il mondo intero – per un calcolo senza senso, se si parte dal bilancio energetico e dall’obiettivo di produrre sempre più elettricità consumando sempre meno risorse naturali, emettendo sempre meno anidride carbonica ed altri inquinanti. Questo dovrebbe essere l’obiettivo della politica energetica, preda ancora della retorica di una insuperabile contesa fra rinnovabili e fossili. E’ un discorso che in Italia, in una paradossale insicurezza energetica, dovrebbe rappresentare il nerbo di una politica industriale per sfruttare al massimo le proprie risorse naturali rinnovabili in un orizzonte che unisca lavoro, ambiente, clima e politica estera.
Non sembra che la classe dirigente mondiale – e italiana in particolare – sia all’altezza di una simile sfida. Basta ricordare che un esperto stimato come Alberto Clò, in una intervista ad un quotidiano nazionale, accusa l’Europa di “aver inseguito le farfalle delle rinnovabili”, “promuovendo una strategia illusoria di de-carbonizzazione delle fonti di riscaldamento e finendo per riversare su gas ed elettricità oneri non di mercato, legati agli incentivi per le “energie pulite”. Mentre, a suo dire – e delle sue fonti di ispirazione – “è certificato che nel lungo termine la crescita delle richieste energetiche potrà essere soddisfatta per l’80-85 per cento solo dai combustibili fossili”. Un po’ il contrario di quanto abbiamo provato qui a sostenere e documentare. Ma tant’è, perché se, a giudizio di Panebianco, l’obiettivo della politica energetica è quello di “spingere Teheran e Mosca a più miti consigli”, allora le grandi questioni dell’uguaglianza sociale e climatica, dell’accesso non dissipativo alle risorse naturali, del diritto alla pace come premessa ad una vita dignitosa, della democrazia come risorsa e potere di decisione saranno sempre fuori portata.
Ma al di là di tutto deve essere chiaro un vizio d’origine dei negoziati al centro della nostra riflessione. Il TTIP ripercorre la strada del NAFTA, del WTO, di decenni di Washington Consensus, di globalizzazione al servizio delle multi nazionali, riproponendo una ricetta ormai obsoleta. La libertà intesa come possibilità di fare ciò che economicamente risulta più conveniente, così da favorire solo gli oligopoli della ricchezza e danneggiare chi purtroppo non ha reddito sufficiente per difendere i propri diritti elementari. L’astrazione del mercato è un danno per il pianeta, l’economia deve rientrare nell’ecosistema perché le leggi della fisica non sono negoziabili. Questo andrebbe ricordato ai negoziatori del TTIP. E’ urgente sempre più un trattato sulla biosfera, che gli ultimi sussulti della geopolitica imperniata sulla guerra (militare, economica, sociale) vorrebbero allontanare nel tempo. L’appuntamento di Parigi a Dicembre potrebbe dare una chance a questo percorso nuovo, socialmente ed ambientalmente desiderabile, ma forse impraticabile se da qui ad allora si concludessero TTIP e TTP, due trattati che rappresenterebbero un nefasto canto del cigno di un liberismo che stiamo già ora pagando duramente.
Aprile 2015