Foto: Pensionati davanti a un ufficio della banca centrale ad Atene, il 29 giugno. (Yannis Behrakis, Reuters/Contrasto)
Christian Raimo, giornalista e scrittore
Non so quanti di voi abbiano letto questo documento. È la proposta di intervento presentata dal premier greco Alexis Tspiras all’Eurogruppo qualche giorno fa e corretta con vari tagli e sottolineature in rosso da Christine Lagarde, Jeroen Dijsselbloem e altri.
È un testo significativo. Segna una strategia che un premio Nobel per l’economia come Paul Krugman non si fa scrupolo a definire non solo ricattatoria ma semplicemente folle.
C’è il premier eletto democraticamente di un paese che s’impegna a riformare radicalmente la spesa pubblica ma anche a cercare di far ripartire un minimo l’economia. Ci sono delle persone non elette da nessuno che gli chiedono di abbattere lo stato sociale e di prolungare la situazione di dipendenza del paese dal credito estero. Nero su bianco.
Molti tra i commentatori, in questi giorni, sostengono che Tsipras e il suo ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, sono dei capricciosi testardi. Ma a leggere questo e altri documenti è evidente il perché, ad esempio, non cedano sull’abbassamento delle pensioni minime: con un tasso di disoccupazione al 26 per cento, le pensioni sono spesso la rete di protezione delle famiglie senza reddito da lavoro. E lo stesso discorso si può fare sull’iva, i salari pubblici o sugli altri capitoli di spesa.
I negoziatori greci finora hanno retto l’estenuante prolungarsi delle trattative di Bruxelles; hanno accettato aumenti delle tasse, riduzioni dei salari, ristrutturazione radicale dell’economia; hanno assistito a tentativi di colpi di stato soft, con l’Eurogruppo che negoziava parallelamente con le opposizioni in Grecia.
Di fronte a quest’ultima umiliazione, però, hanno alzato le mani.
Tsipras ha pensato di non avere il mandato popolare per trattare ancora, e ha indetto un referendum per domenica prossima, il 5 luglio, con un discorso molto bello, che finisce con parole che non riguardano solo la Grecia.
In questi tempi difficili, tutti noi dobbiamo ricordare che l’Europa è la casa comune di tutti i suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è, e rimarrà, parte integrante dell’Europa, e l’Europa parte integrante della Grecia. Ma un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza una bussola. Chiedo a tutti voi di agire con unità nazionale e compostezza, e di prendere una decisione degna. Per noi, per le generazioni future, per la storia greca. Per la sovranità e la dignità del nostro paese.
Dopo questo discorso l’Eurogruppo è stato ancora più punitivo. In prima battuta ha dichiarato che non avrebbe esteso l’attuale programma di aiuti alla Grecia oltre il 30 giugno, mettendo a rischio la tenuta delle banche greche, condannando di fatto la Grecia al default e generando il panico. Poi ha radicalizzato lo scontro, togliendo anche la liquidità di emergenza. Il risultato sono banche chiuse per una settimana e gli sportelli dei bancomat da cui non si possono ritirare più di 60 euro.
Leggiamo sui giornali della crisi greca almeno da quattro anni. Dalla vittoria di Syriza, il partito di Tsipras, abbiamo assistito allo stillicidio dei negoziati, sperando che non solo servissero per arrivare a una soluzione, ma che si mostrasse la strada per un’altra Europa. Adesso, di fronte all’umiliazione del popolo greco, perché non sentiamo che questa umiliazione tocca anche noi?
Perché molti giornalisti trattano questo tema con indifferenza se non con sarcasmo? Perché non si è sentito nemmeno un sussurro di solidarietà da parte dei politici italiani, nemmeno di quelli che nel governo fino a pochi mesi fa elargivano abbracci, baci e regali a Tsipras?
Perché non ci sembra che questa sia una fondamentale battaglia democratica? Perché non siamo allibiti e furiosi di fronte a un’oligarchia che chiede la demolizione dei diritti sociali e del welfare di un paese? Perché non ci indigniamo di fronte agli articoli che spiegano come cautelarci per le nostre vacanze se abbiamo prenotato quindici giorni a Mykonos? Perché non troviamo rivoltanti copertine come questa che titolano “Case da comprare e vacanze di lusso: le occasioni di un paese in saldo”? Perché non occupiamo la sede dell’Unione europea, come hanno fatto qualche giorno fa, come gesto di solidarietà, attivisti e sindacalisti a Dublino?
La decisione della corte suprema degli Stati Uniti di legalizzare i matrimoni omosessuali ci ha toccato come se fossimo parte di un’unica grande nazione planetaria. Perché invece l’umiliazione dei greci e il rischio di una crisi spaventosa non sembrano riguardarci? Perché non scendiamo in piazza? Perché non sentiamo che quel referendum è un’ultima tragica scelta anche nostra, tra due idee di Europa? Perché non ci battiamo per costruire un’Europa che non sia solo l’espressione di un trattato economico? Cosa vorremmo succedesse nel resto d’Europa se fossimo noi nella situazione del popolo greco? Perché non ci ritroviamo davanti alle ambasciate e ai consolati greci?
29 Giu 2015