Questa è la sintesi della relazione introduttiva di Angelo Ruggeri al Seminario della Comunità di ricerca “fenomenologia e società”, Piazza S. Fedele, Milano tenutasi qualche anno fa ma ancora molto attuale su come si dovrebbe intendere la democrazia. Relazione che dovrebbe essere letta insiema ad altra recente premessa.
MOWA
di Angelo Ruggeri
Democrazia delegata/diretta e processo di democratizzazione
Nell’ultima seduta nell’impegno di chiarire le forme del potere è emerso che la democrazia ha acquisito significato reale attraverso il diffondersi del fenomeno organizzativo che si è venuto ad aggiungere al fenomeno preliminare della scelta dei candidati per le Assemblee elettive: nel senso che dalla nascita e dallo sviluppo del capitalismo la regolazione della vita dei cittadini si è sviluppata sempre più attraverso l’esercizio di competenze attribuite a una serie di apparati dello stato.
Ciò significa che va tenuto conto del rapporto che c’è tra democrazia formale (elezione delle Assemblee elettive) e processo di democratizzazione dello stato e di socializzazione del potere, attraverso la forma di stato di democrazia sociale che comporta sia la socializzazione di ogni ambito di rapporti di potere sia il rovesciamento delle forme di governo di tipo liberal-borghese per introdurre il primato del parlamento contro il predominio dell’esecutivo iscritto in tutte le forme di governo di democrazia formale, storicamente affermatesi prima e dopo il suffragio universale (maschile, e poi anche femminile)
L’unica alternativa teorica mai approfondita, soprattutto dai giuristi, era quella della Comune la quale a differenza dalla concezione liberale presenta l’idea di un potere di intervento dell’assemblea elettiva sia per la nomina che per la revoca di tutti gli organi necessari (anche amministrativi) all’attuazione delle scelte politiche di competenza dell’asemblea, introducendo rispetto alla democrazia borghese e al divieto del mandato imperativo, il principio di intervento diretto: principio così rivoluzionario da essere bandito dalla cultura dominante soprattutto in sede di interpretazione dei sistemi di governo.
Essendo stato suggerito, su tali premesse, di approfondire il problema del rapporto tra democrazia delegata e diretta nella fase attuale, a miglior chiarimento occorre quindi rimettere in causa i processi storici in cui all’interno dei rapporti istituzionali ha fatto il suo ingresso sempre più decisivo la questione sociale, si che si sono venute distinguendo e contrapponendo forme di governo e forme di stato, senza che per altro nessuna forma di organizzazione del potere si mostri sin qui incline a spostare l’asse del potere dall’alto verso il basso, essendosi implicitamente assunto nelle teorie giuridiche convergenti come modello caratterizzante la liberal-democrazia, il sistema britannico e quello statunitense (pur nelle loro specifiche differenze).
Tutto questo ha trovato come terreno di sedimentazione la responsabilità oltre che dei gruppi di potere monopolistico, anche della cultura – legatasi ai vincoli della tecnologia con conseguenti riflessi di mutamento degli apparati di stato sempre più intrecciati con il potere tecnologico e intrisi dei condizionamenti delle scienze – particolarmente della filosofia e delle scienze sociali, che hanno quel ruolo determinante che si manifesta in quelli che allusivamente sono stati chiamati gli “apparati ideologici di stato” capaci, nel falso rapporto tra ideologia e cultura, di deviare l’esercizio del potere, in quanto tendendo ad autonomizzarsi dalla politica hanno eluso un tipo di impegno teorico volto a contrastare il dominio dall’alto in tutte le forme di organizzazione del potere: non solo nell’organizzazione autoritaria e reazionaria ma anche in quella di democrazia formale.
Così, nel secondo dopoguerra, segnato da un “bipolarismo” ideologico che governava il mondo con il terrore nucleare, è avvenuto che i protagonisti di tale inedito bipolarismo da una parte in nome della democrazia sostanziale e socialista hanno sottovalutato l’edificazione contestuale di nuovi principi di democrazia formale; e dall’altra in nome della democrazia formale hanno perseverato ad adeguare alle vicende in atto quel sistema che ha solo l’apparenza di una valorizzazione della democrazia formale e sostanziale, con istituti spuri (ed originati dai più vari regimi) di c.d. “solidarietà sociale”.
Per cui tutte le forme organizzate del potere – in qualunque emisfero e qualunque tradizione sociale riflettano – presentano in forma diversa un’identica idoneità a governare, perché il governare è ovunque inteso come funzione sostitutiva di pochi a molti, come restringimento anziché come allargamento “della” e “alla” società, come arroccamento di centri e grandi centrali di potere di vertice “dietro” le forme apparenti della democrazia.
In tal modo hanno teso a prevalere sempre gli esecutivi sulle assemblee in nome del falso presupposto che il potere di indirizzo politico spetti ai governi e non ai parlamenti, in base all’idea che il nucleo di fondo del potere di governare come potere di determinare l’indirizzo politico sia il detenere “in esclusiva” il potere di iniziativa: termine col quale si usa legittimare o la preminenza (nei regimi autoritari liberali) o l’esclusiva (nei regimi totalitari) del potere governativo.
Così arrivando di fatto a mistificare la c.d. divisione dei poteri propria della democrazia formale, perché il potere esecutivo in verità risulta essere, ed è, il potere dominante delle istituzioni in qualunque forma di governo – presidenziale o parlamentare o pluripartico o bipartitico o a partito unico.
Con la conseguenza di fare ovunque dei governi non degli “esecutivi” ma delle variabili indipendenti dalla società e dallo stesso Parlamento dove, come testimoniano le recenti legislature italiane, nessun provvedimento sfociato in legge è di iniziativa del Parlamento che ora, nel presente, si trova a ratificare solo provvedimenti di iniziativa dei governi, per la ragione che il potere di iniziativa che la Costituzione prevede in capo persino ad ogni singolo membro di una Assemblea, è tornato ad essere esclusiva del governo, e di ogni esecutivo di ogni istituzione anche locale e regionale (il che non è meno, ma più grave, perché è nell’ambito territoriale che in tal modo si acuisce la contraddizione tra quello che è il luogo di vita e di lavoro di tutti e una conformità istituzionale capace di corrispondervi, per cui è anzitutto nel “locale” che si può e si deve dare il primato alle assemblee elettive come rappresentanza propriamente sociale del territorio da qualificare nella sede centrale dello stato).
Così finendo con l’omologare in termini di effetti reali i regimi autoritari e reazionari con i regimi di tipo democratico, in base all’assunto ideologico che trascende le stesse forme differenziali di stato e di governo.
II
Quel che si vuole trascurare è che nei passaggi di fase dello stato capitalista dalla metà dell’800 fino ad oggi, il potere esecutivo è invece andato via via alimentandosi di una serie di apparati di stato e potenziandosi sempre più come somma di apparati di vertice, facendo perno sull’istituzione-governo intorno a cui esiste un sistema che viene chiamato “stellare” di poteri pubblico-privati, che è volto ad usare la legge e che come forma di comando delle istituzioni ha creato degli intermediari nei rapporti tra potere politico e potere finanziario attraverso Enti (formalmente pubblici, ma gestiti con criteri privatistici) la più parte dei quali all’inizio degli anni ‘70 venivano chiamati “gli Enti inutili” mai comunque aboliti nonostante il sopravvenire delle Regioni, e sfuggenti ai rapporti di controllo del Parlamento e per molti aspetti anche ai rapporti di direzione dei governi (coperti dalle irresponsabilità dei Comitati interministeriali: Cipe, Cipi, Cip, ecc. appositamente istituiti).
Le vicende del c.d. “stato sociale” hanno fatto si che la democrazia mantenga come suo punto teorico chiave la sempre più allargata composizione degli organi destinati a prendere le decisioni in merito all’organizzazione del potere nelle sempre più complesse articolazioni sovrappostesi nello stato contemporaneo, dovendosi riconoscere sotto le pressioni della “questione sociale” che essa non può più limitarsi all’uso delle schede per eleggere i rappresentanti del popolo in sede nazionale e locale, perché sempre più la questione dell’organizzazione diviene l’epicentro dell’organizzazione sociale ed economica dello stato in cui diritti “economici e sociali” (e non solo sociali) a qualificare i diritti individuali e civili a cui prevalentemente si riferisce la democrazia delegata o rappresentativa che sono due facce di una stessa cosa, convergenti tra loro, rispetto a cui il punto che le riguarda è il fatto che il popolo elegge chi lo rappresenta, ma poi c’è un corpo di persone che decide e chi ha votato è estraniato: donde l’importanza di introdurre il mandato imperativo.
L’alternativa che ha accompagnato la dialettica sociale e politica si è sempre posta storicamente tra un burocratismo sovrastrutturale soverchiante il potere popolare (“stato persona”) e in cui il Parlamento svolge un ruolo effimero di mera platea – come il caso Bankitalia e delle “Autorità indipendenti” ha recentemente ha dimostrato che è prevalentemente tornato ad essere) e una democrazia organizzata sulla sovranità del popolo, “stato comunità” perché volto ad estendere tramite il processo di democratizzazione, la democrazia dal solo ambito politico all’ambito economica e sociale, volgendo sempre l’uso della legge non solo per i rapporti individuali ma per quelli economico-sociali, come aggettiva la Costituzione italiana senza scindere democrazia politica, economica e sociale tramite cui il Parlamento è coerentemente titolare del potere di direzione politica, ciò che in Italia solo dal 71 al 75 ha potuto farsi strada in aderenza al modello di governo “parlamentare” inedito, tra le aspre difficoltà erette dalla “convention ad excludendum” sia da “sinistra” che da “destra”.
In concreto, è lo sviluppo storico che, allargando il suffragio, ha fatto entrare in campo il nuovo soggetto sociale precedentemente delegittimato, che è così diventato attivo e non è più passivo, dando con ciò vita a un nuovo tipo di legislazione non più regolativa dei soli rapporti civili ma di mediazione degli interessi in conflitto configurando una nuova organizzazione istituzionale (della democrazia) con apparati al servizio della sovranità popolare e non più al servizio dei poteri forti (dello stato).
Lo stesso Bobbio a proposito di “Democrazia rappresentativa, democrazia diretta”, occupandosi di “regole del gioco” non ha potuto eludere il fatto che esiste il problema della democrazia rispetto ai rapporti organizzati, dicendo che il potere vero è quello che la democrazia ancora non è in grado di affrontare, ma tralasciando di analizzare come questo potere può essere “aggredito” con la democrazia, ha riconosciuto con spirito per altro rinunciatario che la democrazia non ha ancora scalfito i due grandi centri di potere discendente e gerarchico che sono l’impresa e la pubblica amministrazione, cioè i principali e reali luoghi e centri di potere generale, riconoscendo cioè che esiste il problema di cosa fare per colpire i centri di potere che riguardano lo stato e l’impresa e in genere gli apparati amministrativi.
Un problema che nonostante la globalizzazione e pur entro le difficoltà che essa ha creato, rimane sempre aperto come problema di controllare il potere finanziario ed economico che è bensì transnazionale, ma attraversando gli stati nazione sopravvissuti e non estinti possono essere con la stessa trasversalità sottoposti a critica e controllo da parte delle forze democratico sociali conseguenti e non rinunciatarie rispetto al loro ruolo storico come prova la diffusione iperbolica della povertà in tutto il mondo.
Ovvero resta la necessità di contrapporre ad una visione fondata sulla centralità del potere dell’esecutivo quella della centralità del potere di base e popolare, fondato sull’organizzazione di una democrazia sociale e una partecipazione di massa permanente (come quella di cui è testimone l’esperienza vissuta in Italia negli anni 60-70 che è per ciò importante rivedere) in un rapporto coerente con le autonomie istituzionali e le Assemblee elettive della Repubblica,
in quanto non basta vedere la questione dell’antagonismo esecutivo-popolo, ma occorre individuare le forme di un potere reale del Parlamento per avere il quale – siccome non è un potere in sé – occorre un corretto rapporto tra democrazia e scienza per dare coerentemente rilievo alle questioni istituzionali come questioni non formali ma di riforme anzitutto teorico-politica e sociali ed economiche, mettendo in rapporto le due culture o scienze tecniche e naturali con quelle sociali.
Perché l’introduzione della democrazia oggi mancante negli interventi – dalle grandi opere infrastrutturali alla politica economica in generale – che richiede, tra l’altro, che quanto attiene più direttamente ai contenuti delle varie forme di potere (le culture tecniche) e quel che attiene più direttamente alle questioni delle forme e uso del potere (le scienze sociali), non vengano settorializzati e tra loro separati (si veda in proposito anche lo schema introduttivo sul Libertà negativa e libertà positiva di d’Albergo-Gioiello)
In definitiva, quindi, i nostri approfondimenti debbono tenere conto delle vicende più recenti dalle quali è emerso un tentativo di ritornare alla democrazia liberale contrapponendo alla democrazia organizzata quella che non va confusa con la democrazia diretta in quanto erroneamente catalogata come democrazia referendaria nel duplice senso sia antiparlamentaristico e tradizionalmente più recentemente antipartitico.
Infatti nella democrazia referendaria “diretto” è solo il giudizio espresso nella opzione tra un Si e un No a un quesito che non è predisposto dal popolo ma da uno dei vari centri di potere di vertice. Sicché è evidente come non arricchisca il concetto di democrazia la contrapposizione tra le decisioni delle assemblee elettive da cui il popolo si fa rappresentare e la valutazione espressa come singoli da ciascun cittadino nell’atto di esprimere l’opzione referendaria in modo diretto e oltretutto non autonomo.
In tutt’altra prospettiva si pone invece la nozione di democrazia diretta che nel suo significato reale tiene conto del passaggio dalla liberal-democrazia alla democrazia-sociale, in cui il mercato perde autonomia e viene sottoposto a controllo con strumenti di democratizzazione costituiti a loro volta da apparati di tipo nuovo, non collocati al vertice dell’organizzazione del potere ma strettamente collegati con la base sociale, affinché si possa tramite la loro azione far corrispondere strettamente gli obbiettivi politici di uno stato in trasformazione e le forme concrete di conseguimento di tali obbiettivi.
Con meccanismo cioè idonei a intrecciare democrazia politica, economica e sociale, sui versanti dei bisogni di tutti i gruppi organizzati: compresi quindi i soggetti deboli, la cui debolezza si radica appunto nella estraniazione che tale tipo di soggettività subisce dalla democrazia liberale appunto perché si limita ad eleggere i parlamenti e di li ad estrarre i governi elaboratori esclusivi degli indirizzi legislativi con il passivo sostegno degli stessi gruppi parlamentari di maggioranza.
Tutto ciò naturalmente acquisisce il massimo di caratterizzazione alternativa autoritaria e antidemocratica, se tra le forme della democrazia liberale si esaltano il presidenzialismo, il premierato e il cancellierato, secondo una tendenza oggi prevalente in nome della europeizzazione perseguita in forme di neo-centralismo federalistico che si limita ad esaltare la formazione di gruppi di dirigenti nazionali e locali coinvolti in un processo di concertazione coi centri di potere dello “stato federale” in senso stretto, poiché come è stato riconosciuto lo “stato federale” altro non è che uno “stato unitario composto”, col quale si moltiplicano le classi dirigenti e non si sostanzia il c.d. avvicinamento dei cittadini allo stato (vedesi Ruggeri, “Leghe e leghismo. L’ideologia, la politica, l’economia dei ‘forti’ e l‘antitesi federalista al potere dal basso”, Quaderni del Centro “Il Lavoratore”).
Nel senso, quindi, che come per ogni strumento istituzionale che come tale non è mai neutro, senza una valutazione del tipo di forma di stato e di forma di governo nel cui ambito è previsto lo strumento referendario, non è possibile dare una spiegazione coerente a quella che in modo acritico, e alimentando giudizi simbolici, si chiama democrazia diretta con singolare convergenza da sinistra e da destra, con un enfasi tanto più ingiustificabile quanto più si eviti di collocare l’istituto referendario, nel contesto dei rapporti tra le forme di stato e le forme di governo, previste nei diversi “modelli di costituzione” – e da loro modifiche istituzionali e costituzionali – nel cui contesto si specificano caratteri ed effetti del referendum la cui valutazione comporta che si tenga presente:
a) quali sono i soggetti abilitati all’iniziativa referendaria;
b) quale tipo di referendum i vari soggetti mirano a porre in essere;
c) rispetto a quali tipi di atti l’intervento referendario può essere posto in essere;
d) quale potere effettivo, in quanto potere “diretto”, il popolo esprime nel segno della democrazia “diretta” giustapposta o contrapposta alla democrazia “delegata”.
III
ll quadro teorico di riferimento tiene conto del passaggio dallo stato liberale pre-fascista allo stato democratico sociale sulla base della Resistenza e del ruolo dei movimenti e dei grandi partiti di massa nella storia, nella quale rimane tutto il suo valore nonostante la modifica della Costituzione che rappresenta una “cesura” storica, una svolta non solo rispetto al fascismo ma anche rispetto allo Stato liberale pre-fascista, dove non solo votava la metà del corpo elettorale ma anche questa metà partecipava alla politica solo al momento del voto, priva di strumenti di controllo e quindi subalterna alle clientele e al notabilato economico e politico del maggioritario, bipolarmente ripartiti in destra e sinistra storica. Un modello autoritario su cui ha potuto innestarsi il regime fascista come regime del “capo del governo” e del primato nazionale dell’iniziativa economica privata.
Oggi, nel momento in cui discutiamo, ci troviam0 di fronte al rilancio di un tale sistema – centrato sul primato del capo del governo quanto alle forme di comando e sulla uninominale personalizzazione maggioritario della politica – riproduttivo dei principi propri del sistema di Usa e Gran Bretagna, come anche di una variante tecnica del presidenzialismo come il cancellierato, che da Bismark in poi, passando per la Repubblica presidenziale di Weimer, prosegue la tradizione storica dell’autoritarismo tedesco.
Il metodo proporzionale – che divenne subito dall’indomani della Liberazione, la regola per tutti i tipi di votazione e cambiò il volto delle assemblee elettive, fino a che in nome della “governabilità” si reintrodusse nel 93 il maggioritario –, nacque con una brevissima applicazione negli anni 20, conquistato dopo decenni di lotte dei socialisti e dei popolari pur privi persino di omogenea presenza sul territorio nazionale, forti ognuno in certe regioni, municipi o settori produttivi come, in buona parte, anche oggi vediamo che si confà al maggioritario (vedi carte elettorali di I. Diamanti) reintrodotto dal fascismo che, assieme alle più elementari libertà, spazzò via il proporzionale proprio temendo che anticipasse il passaggio alla democrazia non solo politica ma anche economica e sociale.
La Resistenza, la Repubblica antifascista e la Costituzione dettero un colpo ai limiti della democrazia liberale, e dal 1944, milioni di cittadini non solo sono tornati a fare politica alla luce del sole, ma si sono organizzati in formazioni politiche e sociali con caratteri e dimensioni di massa inedite nell’Europa Occidentale, nel modello di Costituzione italiana portatore di un “nuovo tipo di stato”, fondato sul lavoro e sulle autonomie istituzionali, sociali e religiose, nell’ambito del nesso stringente tra democrazia politica e democrazia economica e sociale quale sua vera e propria grande novità storica.
Per cui anche quando la C. afferma l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e nei diritti politici e civili, pone contemporaneamente il problema del superamento dei limiti ed “ostacoli” che alla attuazione di questi principi fondamentali vengono dalla struttura del capitalismo, dalle disuguaglianze organiche esistenti in quella che si enfatizza come “società civile”. Per cui la C. non si limita ad aggiungere diritti a diritti, nuovi diritti sociali ai diritti di libertà e alla uguaglianza giuridica come se gli uni possano concepirsi e realizzarsi senza gli altri. Ma enuncia una connessione, inscindibile, affermando che senza un intervento nella vita economica e sociale non si garantisce nemmeno l’eguaglianza formale; ovvero non si realizza “il pieno sviluppo della persona umana”, se non si attua il diritto dei lavoratori a partecipare alla “organizzazione politica, economica, sociale del Paese” (art.3), si che la democrazia politica stessa viene come nello stato liberale mutilata.
Questo spiega perché quando i dossettiani avvertirono la necessità di fissare costituzionalmente la priorità della persona rispetto allo stato, in sintonia con Togliatti si fece l’importante precisazione che il tema dei diritti e dei doveri del cittadino “sarebbe alquanto limitato se da questi diritti e doveri dovessero essere esclusi quelli di natura economico-sociale”, tenendo conto che “la Costituzione dovrà apparire un tutto organico” (Prima e Seconda Parte, cioè principi e organizzazione dello stato e della Repubblica). Convenendosi con TOGLIATTI, nell’indicazione “dello sviluppo ampio e libero della persona umana come fine della democrazia”, sulla premessa teorica di DOSSETTI introno ad un “marxismo che non si ispira ad un materialismo volgare, ma ad un materialismo raffinato, di carattere superiore, che non rifugge da questa visione integrale dell’uomo”.
Per ciò come il leader comunista aderirà alla formula proposta da La Pira (accolta nell’art.3, secondo comma), secondo cui il compito della Repubblica è di rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia; a sua volta Dossetti è d’accordo con Togliatti di inserire il principio che lo stato interviene per coordinare e dirigere l’attività produttiva per fini di interesse collettivo (art.41, terzo comma); mentre in intesa tra LA PIRA-TOGLIATTI si arriva alla formulazione secondo cui il lavoro, oltre ad essere fondamento di tutta la struttura sociale, è fondamento della stessa Repubblica, intesa più che come “stato” burocratico come “comunità”, donde la coniazione della nozione “stato-comunità”, come giustapposizione alla tradizionale categoria concettuale di “stato-apparato” (o”persona”). Si che in tale puntualizzazione, la fondazione dei nuovi diritti come “diritti sociali” rispetto a quelli civili e politici propri delle costituzioni liberali, comporta una lettura congiunta e non separata dei diritti ricollegabili e a rapporti “etico-sociali” e a “rapporti economici”.
In tale contesto il superamento del modello di Weimer è testimoniato dal fatto che decisiva non è la nazionalizzazione né il ruolo della sicurezza sociale in quanto fatto in nuove forme elemosiniere ma, al contrario, decisivo è il controllo del processo idi accumulazione mediante l’intervento del potere politico e sociale di partiti, sindacati e parlamento, anche in virtù di un diritto di sciopero senza limiti (invece che limitato come è stato col voto dell’ultimo Pci e del Psi alla fine degli anni ‘80), la cui efficacia sociale si trasforma in concorso alla democratizzazione con le riforme di competenza del Parlamento.
Per questo occorre ripercorrere gli anni 60 e 70, quando via via si è aperta la lotta per la democratizzazione dello stato, per la pubblicizzazione delle Partecipazioni Statali e il controllo pubblico dell’energia, estendendosi la democratizzazione anche alla scuola e all’università – e poi via via a tutti i campi della pubblica amministrazione – che comprende anche la ricerca scientifica, sulla base di una committenza democratica per una organicità di rapporti fra la cultura e l’organizzazione democratica dello stato. Mentre oggi dicendo che la classe operaia non c’è più, si vuole dimenticare o fare dimenticare che dal ‘68 in poi emerse il fatto per cui la classe operaia è il soggetto centrale che sollecita per tutti un nuovo potere, come provano le lotte che i tecnici fecero all’inizio degli anni ’70, per dilatare sull’onda delle lotte studentesche, una grande battaglia sociale e politica destinata ad incidere sui rapporti tra tecnica e politica.
Le forze democratiche hanno esteso la battaglia dagli enti economici a tutti gli apparati pubblici, individuando nella scuola e nella sanità la necessità e la possibilità di una articolazione dei bisogni della società sul territorio, con le USSL – sociali sanitarie – istituzioni di tipo nuovo con cui si voleva coinvolgere nel Servizio Sanitario Nazionale i vertici ministeriali sino ad allora centralizzati.
E la democrazia organizzativa, a partire dalla sanità e nel passaggio alla scuola, ha fatto emergere che una visione giuridica del potere si supera con la creazione del lavoro di gruppo e della interdisciplinarietà delle culture e, quindi, dell’Assemblea dei lavoratori, in cui tutti – dai consigli alle zone territoriali, ai quartieri alle stesse strutture interne di sindacati e partiti, ecc. – devono essere coinvolti nei processi di elaborazione delle decisioni e più in generale delle leggi, sia al livello locale e regionale si a al livello statale.
Così ha potuto maturare la “democrazia organizzativa”, con rivendicazioni di potere non solo salariale anche dei sindacati, rivendicando quelli che allora non a caso si chiamavano “contratti riforma”, mettendo in discussione le gerarchie e dovie l’articolazione delle competenze veniva considerate funzionale ad un progetto programmatorio con una partecipazione di massa in cui la popolana poteva risultare più sensibile e colta di notai o degli avvocati “specialisti” indisponibili alle trasformazioni prodotte dalla cultura democratica-sociale.
Se questo oggi è appannato o non esiste più non è perché è fallito, ma è perché i protagonisti di quella stagione via via hanno abiurato l’ideologia antifascista, passando per la prima fase degli anni 80 intitolata al craxismo sino al processo demolitorio degli anni 90 affermatosi in un paese irretito nell’irresponsabilità della logica omologratice del bipolarismo e di una antidemocratica concezione delle modernizzazione che a suo tempo aveva già concorso all’insaturazione di un regime del capo del governo.
Non si è cioè appannata per difetto teorico, ma perché all’interno di tali forze c’è stato un prevalere delle parti e componenti efficientiste, di un efficentismo non finalizzato alla preminente efficacia democratica del funzionamento dello stato, di cui il punto determinante è stata l’introduzione di un meccanismo spurio e di dubbia costituzionalità come la legge c.d. “finanziaria”, introdotta annualmente dal 1979 in poi e classificata tra le nuove norme della contabilità dello stato, per cui i costituzionalisti stessi non l’hanno mai esaminata sotto il profilo del diritto pubblico.
Una legge di bilancio che ha iniziato a ridurre drasticamente i finanziamenti per il sociale, a incominciare da quelli per la sanità – fino al punto da vanificare e bloccare la riforma sanitaria, prima storica riforma democratica della pubblica amministrazione -, usando l’artificio dell’art.81 C. secondo cui non si può con la legge di bilancio modificare le leggi di spesa, “chiamandola”, anziché “legge di bilancio”, legge finanziaria anticipatrice di bilancio, all’ombra del c.d. tecnicismo e con l’aggravante poi che tuttavia con la legge finanziaria che doveva ridurre il disavanzo, lo ha invece aumentato.
Così hanno colpito tutto il sistema delle autonomie locali e regionali con cui aveva cominciato a prendere corpo effettivamente una riforma “politica” dello stato, in corrispondenza e coerenza con la riforma dei regolamenti parlamentari e l’avvio di una esperienza di centralità del Parlamento che superava i principi che regolavano dal 1922 il sistema parlamentare proprio dello stato liberale e contrastante quindi con quello democratico-sociale della Costituzione.
E’ in tale fase che il referendum è stato introdotto nel nostro sistema istituzionale, proprio per contrapporsi al Parlamento, usato prima per contrastare le riforme su ogni terreno e poi culminando nel referendum antiproporzionale che ha consentito a destra e sinistra di avviare le stesse revisioni della Costituzione.