In memoria di Salvatore d’Albergo
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RIFLESSIONI SULLA RICOSTRUZIONE DEL PARTITO COMUNISTA
Compagne e compagni della Costituente comunista, portiamo a voi il contributo dei militanti delle Sezioni Comuniste Gramsci-Berlinguer di Pisa e Milano, elaborato anche sulla base di un testo di Giovanni Chiellini, dell’Associazione Salvatore d’Albergo–il Lavoratore, associazione dedicata al compagno Salvatore d’Albergo, recentemente scomparso, che aveva promosso e sottoscritto l’appello per la ricostruzione del Partito comunista.
Noi crediamo che la ricostruzione del Partito comunista, che l’Appello ritiene necessaria e urgente, debba muovere dall’analisi puntuale sui perché del fallimento dell’esperienza della “rifondazione” comunista seguita alla fine del PCI e dal riconoscimento che l’opportunismo, col quale alla Bolognina si fece discendere dalla fine dell’URSS la fine del PCI, generò anche l’espediente di un partito finalizzato a non far nascere un nuovo Partito Comunista, rifiutandosi in tal modo il patrimonio ideale accumulato dal PCI attraverso l’esperienza di un settantennio di lotta politica, approdata all’altissima sintesi berlingueriana, capace anche di ottenere il massimo del consenso popolare ed elettorale al suo programma.
La costituzione del nuovo Partito Comunista fu scientemente rinviata, dai gruppi dirigenti di allora, andando in cerca di una identità culturale e programmatica, la definizione della quale era rimessa tutt’al più al confronto teorico comunque confinato nei diversi strumenti di comunicazione, incomunicanti quanto le diverse correnti di affiliazione (cossuttiani, ingraiani, ex socialisti, magriani, demoproletari, trotskisti, ecc. ecc.) dominanti all’interno dell’associazione, che del PRC fu il preludio
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È potuto così accadere che tali correnti, trapassate nel nuovo contenitore volutamente non progettuale, anziché misurarsi sul terreno della lotta politica e sociale portando alla verifica della prassi le loro diverse posizioni, si siano scontrate e divise in funzione delle alleanze elettorali di governo – centrale, regionale e locale – con “sinistre” subalterne al PD oppure di opposizione, ma di un movimentismo estremista e inconcludente, non capendo che la nascita di Forza Italia e del PD rientravano nel progetto della loggia massonica P2 di costruzione di un sistema politico bipolare antidemocratico, che richiedeva l’eliminazione del PCI. Finendo per perdere, a causa di quelle scelte, radicamento sociale e dilapidando anche l’originario alto residuo di consenso elettorale comunista.
Tale propensione elettoralistica continua a dominare l’iniziativa dei cosiddetti partiti comunisti, anche da ultimo polarizzati dal problema delle alleanze per le elezioni regionali del 31 maggio scorso, con esiti forse non estranei alla recente ripubblicazione su il Manifesto del 21.6.2015 dell’Appello e all’indizione dell’incontro “costituente” del 12 luglio.
Dobbiamo analizzare in modo scientifico, senza fare sconti a nessuno, quanto è accaduto a Enrico Berlinguer e quali sono state le tappe intermedie che la P2 si è data dopo la sua morte – dalle dimissioni da segretario, a sua insaputa, di Natta, al golpe della Bolognina, alla nascita del PDS e PRC. Politiche tutte all’insegna delle continue spaccature a sinistra, esattamente l’opposto di quanto fatto dai comunisti dal Congresso di Lione in poi: nascita del PdCI e dei Comunisti Unitari, poi del PCL e infine del PCd’I.
Questa analisi deve servire per segnare una netta cesura con gli errori e con i gruppi dirigenti che li hanno determinati, dimostrandosi in linea con gli obiettivi politici della loggia P2, che era composta da oltre 2400 iscritti di cui sono emersi solo 962 nomi, restando quindi la maggior parte dei piduisti nell’ombra, collocati in tutti i settori della società a lavorare al progetto eversivo di eliminazione del PCI, condizione necessaria per modificare la nostra Costituzione e trasformare la Repubblica democratica italiana in una Repubblica autoritaria ed élitaria, subalterna all’imperialismo angloamericano e alla Nato. La masso-borghesia, per realizzare il suo programma tramite la P2, ha fatto ricorso alla strategia della tensione e agli omicidi selettivi compiuti dalle organizzazioni terroristiche: da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, alle stragi di Brescia, di via Fani con il rapimento di Moro e alla Stazione di Bologna.
Nessuna delle formazioni politiche nate dopo la morte di Berlinguer, ha mai costruito una battaglia contro il progetto della P2 che facesse chiarezza su tutta questa violenza anticomunista, anzi molti dei dirigenti di quei partiti si sono dati da fare per realizzare gli obiettivi contenuti nel Piano di rinascita: vedi Pisapia (PRC) e il suo progetto di riforma della Giustizia che prevedeva la separazione delle carriere e l’eliminazione del 41 bis; oppure Franco Russo (PRC) e la sua proposta di riforma della Costituzione del 2007, che prevedeva di modificarne 22 articoli e abrogarne due. Vedi il voto di Diliberto (PCdI) a favore della guerra contro la Jugoslavia nel secondo governo D’Alema. Va da sé che un nuovo Partito Comunista deve mettere tra le sue priorità anche il raggiungimento della verità politica e giudiziaria su tutte le vicende di stragismo e terrorismo che hanno insanguinato la nostra storia appena passata.
Se quindi finalmente all’Appello si vuole dare seguito, si deve avvertire che la rinascita dell’opzione comunista e la ricostruzione di un Partito “degno di tale nome” impone ormai lo sviluppo di una discussione per scelte programmatiche inequivocabili e modalità organizzative suscettibili sia di legare il partito ai lavoratori dipendenti e ai ceti interessati a un’alleanza con essi, sia di garantire una vita interna effettivamente democratica attraverso la pratica del centralismo democratico e del rispetto dello Statuto di cui ci doteremo (che può essere quello del PCI degli anni che vanno dal 1972 al 1975, integrato con l’assoluto divieto di appartenere a società segrete come la massoneria).
Il programma.
Il programma comunista non può che muovere da un’esplicita collocazione nell’alveo teorico e pratico del PCI di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, a partire dalla costruzione del “partito nuovo” che fu prima protagonista dell’antifascismo militante nella clandestinità, nel carcere, all’estero e poi dell’intero processo costituente apertosi con la caduta del fascismo e la Resistenza, caratterizzato dal compromesso che portò alla formazione dei governi di unità nazionale, i cui capisaldi furono l’abrogazione del sistema corporativo, il suffragio universale e la scelta antimaggioritaria del principio proporzionale puro per l’elezione dell’Assemblea Costituente e dei rinati Consigli degli enti locali, nonché la devoluzione al referendum popolare della questione istituzionale concernente la forma monarchica o repubblicana.
Si giunse così al rifiuto dei modelli del costituzionalismo massonico-liberal-democratico come quello anglosassone o della Repubblica di Weimar, e alla scelta di una Repubblica democratica fondata sul lavoro – e non sul censo o la proprietà terriera -, volta alla costruzione dell’eguaglianza, che ammette il diritto di sciopero, l’autonomia sindacale nonché il pluralismo dei partiti suscitato dal pluralismo sociale; cioè di una forma di Stato di democrazia economico-sociale implicante una forma di governo, articolato in autonomie regionali e locali, indirizzato (e non meramente controllato) dal Parlamento e dalle assemblee elettive, cui spetta il ruolo centrale in quanto rappresentative della sovranità popolare.
La Costituzione del 1948 va inquadrata come un programma transitorio – che Togliatti definì “democrazia progressiva” – di lotta politica democratica per il superamento degli assetti socio-economici-istituzionali del capitalismo, mediante l’introduzione di “elementi di socialismo” (dirà Berlinguer), ad iniziare dalla definizione della funzione sociale della proprietà e dell’impresa e dall’apertura dei servizi pubblici alla “gestione sociale”
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Era tuttavia scontato che lo scontro prodottosi su questi principi in sede costituente, nel quale rimasero soccombenti le forze politiche espresse dai gruppi economici e sociali del capitalismo dominante, sarebbe continuato. E infatti il contrattacco ai principi innovativi della Carta del 1948 si è protratto, con fasi alterne segnate dalla capacità di resistenza del movimento operaio e democratico, fino alla fase presente nella quale su tutti i terreni – economico, sociale e politico – si configurano, dopo la morte di Berlinguer, arretramenti gravissimi dovuti alla mancanza di un’autonoma proposta comunista capace di aggregare e indirizzare le masse popolari nella lotta sociale e politica per difendere e insieme rilanciare la Costituzione e le riforme ottenute con la sua applicazione.
La difesa e il rilancio della Costituzione del 1948 sono, secondo noi, elementi politici centrali su cui incardinare il nuovo Partito Comunista: in questa crisi economica di sovrapproduzione sarebbe particolarmente utile mettere in campo una lotta per realizzare i contenuti degli articoli 41, 42, 43 della Carta, per arrivare alla programmazione economica e all’autogestione operaia delle fabbriche.
Rifacendoci così “al miglior patrimonio politico e ideologico dell’esperienza storica del PCI”, che è stata anche un’esperienza con grande portata internazionale e la migliore interpretazione del marxismo nel nostro paese e in tutto l’Occidente.
Questo non vuol dire che il PCI fosse perfetto, ma c’è un deficit di analisi tra i comunisti del dopo PCI sul prendere atto che dentro quel Partito si sia verificato un golpe, che comprendeva la morte di Berlinguer, l’estromissione di Natta e la costruzione di Rifondazione, una specie di riserva indiana dove contenere i comunisti rimasti, gestiti da gruppi dirigenti che non erano frutto della tradizione gramsciana e togliattiana (esclusi pochi compagni), ma rappresentanti del pensiero debole trotskista, toninegriano, cossuttiano, ingraiano, ecc. Tutti sostenitori della teoria che la nostra Costituzione fosse borghese e quindi non fosse da difendere, formando con la destra un fronte anticostituzionale e anticomunista.
La stessa logica anticostituzionale e anticomunista, ma esposta in modo diverso, veniva esplicata nel PCI occhettiano – poi ridottosi a PDS, DS, infine PD – e nella CGIL, sempre più confinati nel collaborazionismo delle politiche concertative, col risultato di rendere subalterne ed esposte al richiamo corporativo e localistico della destra leghista le masse dei lavoratori, che invece andavano chiamate alla lotta per la programmazione democratica, con la quale fronteggiare la crisi di sovrapproduzione che la classe dominante governa tutelando “spontaneamente” la massimizzazione del profitto e dell’interesse finanziario, ai danni del salario e della spesa pubblica.
Si aggiunga che tali politiche sono state il terreno favorevole ad arretramenti autoritari, perché ai conflitti intersindacali e alla frammentazione dalla quale nacquero COBAS e CUB, le “confederali” CGIL, CISL, UIL risposero arroccandosi nel loro potere di “aprire tavoli” di concertazione
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e contrattazione riservati ai soli sindacati “più rappresentativi”, con una violazione “maggioritarista” del principio costituzionale del pluralismo sociale, posto esplicitamente in chiave proporzionale dell’art. 38 a presidio della democraticità – anticorporativa – dei processi che vedono coinvolte le forze sociali. (Pensa a ciò Landini quando auspica l’allargamento della rappresentanza?).
Il “maggioritarismo” è stato inculcato nelle masse popolari grazie all’azione di Occhetto e dei dirigenti a lui collegati, con un’operazione mediatica martellante atta a far passare quello che era uno dei punti fondamentali del progetto del Piano di rinascita della P2. Occhetto, spingendo sugli slogan “riformismo forte” e “alternanza”, ha portato al successo il referendum del 1993 che aboliva di fatto il sistema proporzionale introdotto con la legge elettorale che dal 1948 – fortificata dalla sconfitta della “legge truffa” del 1953 – garantiva la democraticità della forma di governo, secondo il modulo di una Repubblica parlamentare e non presidenziale coerente con gli articoli 3, comma 2 e 49 della Costituzione, fondata sul pluralismo politico realizzato e realizzabile solo attraverso la rappresentanza integralmente proporzionale e non maggioritaria dei partiti
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A completare l’iperbole autoritaria della P2 sulla forma di governo, sopravviene il crescente “presidenzialismo” dei presidenti della Repubblica i quali, nell’instabilità trasformistica indotta dal bipolarismo pseudo-stabilizzatore, hanno dato a questa figura un ruolo governante a scapito della funzione centrale di indirizzo politico del Parlamento
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Quelli appena descritti sono gli esiti di uno scontro sociale e politico che vede soccombere il lavoratori dipendenti e in generale i ceti popolari, privati dello stimolo di un programma comunista sperimentato e aggiornato nei contenuti delle politiche delle pace e del disarmo, della produzione e del consumo, delle “qualità” cioè da assumere come prioritarie per indirizzare le lotte dei popoli e delle classi dominate verso una soluzione emancipativa della crisi.
Per uscire dall’incoscienza storico-teorica che ha sortito la frantumazione e l’inerzia dei comunisti, necessita oggi liberarsi da ogni residuo di opportunismo e riaprire il dibattito sulla figura e l’opera di Berlinguer, che costituisce il frutto più maturo della esperienza originale fondata sulla filosofia della prassi, avviata da Gramsci e continuata da Togliatti e Longo, a partire dal Congresso di Lione del 1924 e dai “fronti popolari” del 1936, sino alla “svolta di Salerno” e al “compromesso storico”.
Per questo bisogna in primo luogo rifiutare l’immagine sacralizzata di un Berlinguer moralizzatore della politica, come se la “questione morale”, da lui sollevata, fosse separabile dal “compromesso storico” o dalla “austerità” e non fosse la continuazione della tradizionale strategia del PCI di attacco alla borghesia, con analisi e proposte miranti a cogliere il nuovo emergente dallo scontro e a fronteggiarlo, strategia che viene “rottamata” dal golpe della Bolognina nel 1989.
E’ di quella strategia che va ripresa la sperimentazione e l’aggiornamento, avendo chiaro che essa è attuale non solo in rapporto alla situazione italiana, ma più in generale in rapporto alla crisi attuale da cui i gruppi politico-finanziari del capitalismo mondiale, suscitando nuovi immani conflitti, pretendono di uscire indirizzando gli investimenti verso il lusso più sfrenato della classe dominante, sempre più ristretta, la cui ricchezza – a differenza di quanto accadeva negli anni dei consumi di massa – non è più il benessere ideologicamente offerto quale esempio a cui dovrebbero tendere i ceti dominati, ma ostentazione di potenza assoluta sui vinti.
E mentre tutto ciò mette sempre più a nudo la valenza ideologica del liberismo e del mercato, le forze sociali schiacciate e le forze politiche di opposizione non colgono l’occasione di indicare obbiettivi “austeri” sui quali rilanciare la lotta per una programmazione democratica a livello italiano, europeo e mondiale.
Ci pensa la Chiesa a coprire questo spazio lasciato vuoto: per esempio con l’enciclica Laudato si che muovendo dalla catastrofe ecologica in corso rinnova l’appello lanciato nel 2009 da Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in veritate a “eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale”.
È chiaro l’obiettivo della Chiesa di conquistare egemonia anche nell’area della diaspora comunista, oltre a recuperare quei cattolici che negli anni ’60 e ’70, grazie alle politiche di Togliatti e di Berlinguer si erano spostati sulle posizioni indicate dal PCI, vedi il largo consenso ottenuto nelle battaglie sul divorzio e sull’aborto, che si erano tradotte nell’avanzata elettorale nelle regionali del 1975 e nelle politiche del 1976.
Il Partito e la sua vita interna.
Al di là della generica locuzione “forma partito”, che pretende di ricomprendere i partiti operai e i partiti borghesi, va ricordato che solo dal 1848, con il Manifesto del partito comunista, si può parlare di partito politico, dovendosi prima di allora parlare di articolazione in fazioni politiche dei gruppi dirigenti delle sole classi dominanti, rimanendo esclusa la classe operaia, per motivi di sangue o di censo, dall’organizzazione statuale monoclasse.
E’ per condurre la lotta politica contro e nel cuore di tale Stato che viene fondato il Partito Comunista, per contrastare il quale la classe dominante – fin lì sempre rivestita dei simboli dello Stato unico, sacrale interprete della volontà generale – è costretta a mostrare la propria “parzialità” fondando partiti politici non confrontabili con quelli del proletariato.
Nato ne “l’italietta democratica” che scivolava verso il fascismo, quale soggetto di un rivoluzionario programma di trasformazione in senso socialista della società e dello Stato, il Partito Comunista divenne il principale soggetto politico della classe operaia che, nelle particolari condizioni dell’Italia, sotto la guida di Togliatti, nella lotta clandestina e poi aperta e militare contro il nazi-fascismo, operò per la costruzione di uno Stato pluriclasse – tale è il modello statuale fondato sulla Costituzione del 1948 – nel quale le masse proletarie possono lottare democraticamente per le riforme di struttura, grazie al sistema elettorale proporzionale che ne garantisce la forte presenza dentro le istituzioni.
In tale democrazia “progressiva” il PCI si è autotrasformato da partito solo di quadri in partito di massa e di quadri, organizzato capillarmente nei luoghi di lavoro – dove il lavoratore apprende e comprende il processo produttivo e matura una coscienza alternativa – e nei quartieri popolari – dove facendosi “classe generale” i lavoratori costruiscono l’egemonia culturale e politica per guidare le istituzioni democratiche in direzione di riforme che introducano elementi di socialismo. Un percorso iniziato dalle lotte operaie degli anni ’60 con la nascita dei Consigli di fabbrica, che si saldano poi con le lotte di quartiere iniziando un processo di espansione della democrazia, al centro del quale venivano posti i problemi della nostra classe, che si facevano arrivare nelle istituzioni, a partire dai Consigli di zona.
Abbiamo bisogno, in questa fase di grande arretramento, di un soggetto politico in grado di formare quadri capaci di far crescere il Partito a una dimensione di massa. Un partito che voglia rappresentare i lavoratori e i ceti popolari deve essere di massa, così da poter affermare la propria autonomia dal vero partito della borghesia, cioè la massoneria, che è egemone nello Stato e dal sindacato che opera nello stesso spazio sociale. Dovrà perciò autofinanziarsi pur rivendicando il diritto di godere di sedi pubbliche e di accesso al servizio pubblico radio-televisivo.
Da qui si deve muovere per affrontare i problemi di una nuova organizzazione politica dei comunisti, consapevoli che la loro “diversità” – rivendicata e difesa fino all’ultimo da Berlinguer – è condizione di esistenza e il suo contenuto è l’autonomia ideale e materiale dallo Stato e dal sindacato, realizzabile nell’esercizio dell’autonomia statutaria che, nel quadro delle norme costituzionali, incontra il solo divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista.
Non serve quindi una legge sui partiti, da più parti invocata, che, in violazione dell’autonomia statutaria costituzionalmente garantita, imponga “le primarie”.
In uno Stato che riconosce la pluralità sociale e politica il partito del proletariato è un’associazione di diritto privato con rilevanza costituzionale composta dai propri iscritti e non di soli eletti, la cui vita interna è permanente e non intermittente, come quella dei partiti statunitensi che da tempo si vogliono scimmiottare.
Circa la democrazia interna, è da respingere la critica al centralismo democratico, perché l’alternativa delle correnti – generate dallo scontro per l’appropriazione degli apparati statuali di potere – contrasta con la natura di classe del partito, ne offusca la spinta rivoluzionaria, lo espone all’infiltrazione massonica e alla conseguente corruzione.
Per quanto detto prima sul ruolo della loggia P2 a cui la massoneria internazionale ha delegato il compito eversivo di far sparire il PCI e la democrazia dal nostro paese, è fondamentale dare corso a un lavoro di studio e di lotta sull’articolo 18 della Costituzione che vieta le associazioni segrete, in quanto fondamentale per capire il funzionamento della dittatura dei capitalisti loro tramite..
Questa lotta dei comunisti deve svolgersi parallelamente a quella sulla difesa intransigente della Costituzione del 1948 arrivando, essendo ormai necessario, a una denuncia alla magistratura per attentato della stessa, articolo 283 del codice penale, da parte di tutti coloro che da quando è stato scoperto il Piano eversivo della P2 hanno continuato, in tutti gli schieramenti politici e nelle realtà sociali, a tradirla, nonostante il giuramento ad essa espresso.
Circa la “disciplina” degli iscritti, necessita rilevare con forza che una clausola statutaria compromissoria che escluda il ricorso al giudice ordinario porrebbe lo Statuto in una posizione di incostituzionalità, non potendo un cittadino compiere atti di disposizione di un diritto soggettivo pubblico che proprio la Costituzione vuole incondizionato.
Sezioni Comuniste Gramsci-Berlinguer di Milano e Pisa
Roma, 12 luglio 2015