di MOWA
Vengono, ancora, i brividi nel sentire uno che si definisce comunista (pardon: di sinistra), come Nichi Vendola, fare battute e ridacchiare al telefono (intercettato dalla magistratura) con Girolamo Archinà sulla vicenda dell’inquinamento (emergenza benzo-a-pirene) dell’ILVA di Taranto.
Vengono maggiormente i dubbi sulla sua appartenenza alla causa dei proletari quando apostrofa il suo interlocutore dicendo: “Dica a Riva che il presidente non si è defilato”.
Perché è stata pronunciata quella frase mentre era in corso una battaglia politica sul versante della tutela della salute e la difesa di migliaia di posti di lavoro?
E soprattutto, perché quella telefonata al referente dell’ILVA?
Oggi che è rinviato a giudizio per concussione aggravata in concorso (in specifico, “la concussione è disciplinata dall’ Art. 317 c.p. ed è commessa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità” e, quindi, “nella concussione il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, abusando della sua qualità, costringe qualcuno a dare o promettere una qualche utilità”) sostiene di “andare a processo con coscienza pulita”, di sentirsi a posto ma, poi, precisa che sarebbe “insincero se dicessi, come si usa fare in queste circostanze, che sono sereno.”
Ma se uno è innocente sarebbe furioso per essere stato, ingiustamente, coinvolto… altro, “che sono sereno.”
Il vendolian-pensiero gioca probabilmente sulla memoria delle persone, nella speranza che abbiano dimenticato quella vergognosa telefonata (intercettata dalla magistratura), quando scrive sulla sua “pagina twitter” (sic! su come è caduta in basso la politica) “di aver cercato di costruire un doveroso equilibrio tra diritto alla salute e diritto al lavoro: ma non credo che questo sia un reato.” Infatti, il reato è la concussione aggravata in concorso per aver fatto pressioni al direttore dell’ARPA (a sua volta a giudizio per favoreggiamento personale) che aveva il compito di controllare e che, invece, indusse con le sue scelte ad “«ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva”. Pena, se non avesse eseguito le “indicazioni”, la riconferma del suo mandato lavorativo.
Vendola non ricorda, forse, i fatti precedenti del gruppo industriale ed, esattamente, di Caronno Pertusella, quando “nel lontano 1975, il fondatore del gruppo fini’ in carcere accusato di omicidio colposo in seguito a un incidente sul lavoro. E soprattutto, forse, non ricorda le parole di Emilio Riva che decise la serrata dell’impianto dicendo: “Finche’ non esco io, la fabbrica resta chiusa e senza lavoro”. Si becco’ all’epoca del fascista e dello sfruttatore” dagli operai.
Altro che telefonata al referente dell’ILVA.
Altro che “equilibrio tra diritto alla salute e diritto al lavoro” (scritto da Vendola su twitter) con un siffatto capitalista.
Per la politica il riferimento imprescindibile è l’art. 54 della Costituzione il quale sancisce che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.
Ora, si possono capire i giochi vendoliani della sua “auto-promozione” alla candidatura di vice-sindaco nella Roma (pre-intra-post) criminale.
Quella povera Roma che, oggi, ha un sindaco (Marino) tanto sostenuto da ambienti massonici, quegli stessi “fraterni” ambienti, che prediligevano Vendola in pole position in altre occasioni.
Allora ci chiediamo quali siano gli altri motivi che spingono Vendola alla candidatura di vice-sindaco a Roma?
Uscire dal terreno paludoso che gli si è creato intorno e trovare nuovi lidi dove far dimenticare il passato ma non lasciare, mai, e poi mai, la poltrona che crea tante, anzi, tantissime, altre opportunità.
E, poi, dopo ciò, uno non dovrebbe buttarli via dalla sinistra?
“Ma mi faccia il piacere” diceva il comico Totò, e, dunque, come dargli torto?