di Felice Besostri
L’attuale ipotesi di riforma costituzionale proposta dal governo Renzi impatta, fra le altre cose, con problemi di procedura delle modifiche costituzionali che hanno una storia, che è utile richiamare.
È un fatto che man mano che ci si allontanò dall’approvazione della Costituzione, le previsioni dell’articolo 138 Costituzione (che regolano appunto la procedura per le modifiche costituzionali) furono tradite dalle prassi e nei regolamenti parlamentari.
Il problema giuridico si sentì meno nell’epoca del proporzionale, quando la convenzione costituzionale era quella di non procedere a revisione senza disporre preventivamente dei due terzi nella seconda deliberazione di ciascuna Camera. Come dire che all’epoca c’era una attenzione al problema politico del consenso democratico e parlamentare alle modifiche costituzionali, che col tempo è andato smarrendosi.
Fino ad arrivare ad oggi quando esso appare addirittura ingigantito. Tanto più in un quadro in cui i sistemi disproporzionali in vigore vedono minoranze assolute che esprimono strette maggioranze parlamentari e che si ritengono autorizzate ad imporre (con la metà più uno dei componenti di ciascuna Camera) alterazioni sostanziali all’equilibrio dei poteri immaginato dai padri Costituenti.
Per questo appare assai opportuno tornare a ragionare, se non riscoprire la ragione della procedura aggravata (cioè più complessa rispetto a quella delle leggi ordinarie) puntualmente prevista dall’articolo 138. Secondo questo infatti, non si tratta di una mera ripetizione del voto di approvazione in blocco (con la maggioranza assoluta) di un testo già lavorato definitivamente con la procedura ordinaria (anche priva della necessità di alcuna maggioranza qualificata).
Una interpretazione testuale e logica porta infatti a concludere che la Costituzione esclude le troppo sbrigative norme previste per la ordinaria navette; in particolare esclude quelle che ammettono la possibilità di modificare il testo in discussione solo nelle parti che non abbiano già avuto una approvazione eguale nelle due Camere. Al contrario, essendosi davanti proprio alla necessità di quattro consecutive approvazioni dell’identico testo, persino distanziate nel tempo, la procedura ordinaria (la cui finalità è quella di una rapida approvazione) è intrinsecamente incongruente e lesiva dell’aggravamento previsto per le sole modifiche costituzionali, delle quali finisce per lo svuotare proprio il significato normativo.
La procedura costituzionale si sviluppa nella seguente maniera: anche un solo emendamento deliberato dall’una Camera su di un testo trasmessole che Essa esamini per la prima volta, rimette l’altra Camera nelle condizioni di potere emendare a sua volta tutto il testo rinviatole. Sarà, ciascun ramo, padrone di aderire – con la più ampia libertà – al testo ricevuto, senza alcun limite alla ammissibilità di alcuna proposta emendativa. Ciò, almeno, fintanto che il testo ricevuto non sia identico a quello precedentemente trasmesso.
Una prima conclusione che si può trarre è dunque che per scongiurare una vasta, profonda e dirompente rottura in fieri della Costituzione del 1947, dovrebbe essere necessario tornare al senso del 138, secondo Costituente e Costituzione.
Richiamare alcuni lontani passaggi parlamentari può essere illuminante.
Nella seduta della Camera del 10 aprile 1957, durante la discussione di modifiche regolamentari in materia di legislazione costituzionale, di fronte alla richiesta di soppressione (nell’ambito delle norme regolamentari proposte) della frase che richiamava il «testo approvato dal Senato in prima deliberazione», il relatore, per la Giunta del Regolamento, onorevole Tesauro, non solamente accolse tale proposta, ma intervenne sostenendo ben altro: “La Carta costituzionale richiede due deliberazioni sulla stessa materia. In altri termini, richiede che per due volte ciascuna Camera sia posta di fronte al problema del modo come deve disciplinare una determinata materia, ma non richiede affatto che le due deliberazioni debbano essere sullo stesso identico testo”.
Ancora nella seduta del Senato del 4 marzo 1958, durante la discussione della legge costituzionale di modifica dei criteri di elezione e di composizione del Senato, fu ricordato: “Così l’articolo 138 della Costituzione, come gli articoli 107 e seguenti del Regolamento della Camera, che ne sono l’applicazione, si riferiscono sempre a leggi in prima o seconda deliberazione, mai ad articoli in prima o seconda deliberazione. Infatti sarebbe assurdo ritenere che, in una stessa legge, possano essere contenuti articoli in un diverso grado di deliberazione […] perché ogni legge, tanto più in materia costituzionale, è e deve essere un tutto organico”. Pertanto tutto il disegno di legge che era stato ritrasmesso, con alcune modifiche apportate dalla Camera, doveva essere sottoposto nuovamente ad una prima deliberazione.
Ora nella III legislatura venne invece introdotta, innovando nei regolamenti dei due rami e calpestando la Costituzione, la preclusione a qualunque attività emendativa sulle parti di un testo costituzionale approvate in maniera conforme. Secondo le Giunte del regolamento delle due Camere ciò non avrebbe comportato “effetti irrimediabili”: se una Camera ritiene di non potere approvare il disegno di legge nel testo già adottato in prima lettura, essa può sempre respingerlo, restando comunque salva la possibilità di iniziare un nuovo procedimento di approvazione di un testo diverso, decorsi sei mesi dalla data di reiezione. A questo risultato paradossale si giunse, senza neppure pienamente coglierne la valenza ridicola: si era infatti sottoposto ad una tale torsione il «dispositivo di riflessione» dell’articolo 138, da appiattire la procedura di legislazione costituzionale sulle norme regolamentari riguardanti quella ordinaria (che tra l’altro, almeno fino alla introduzione dei regolamenti del 1971, prevedevano espressamente di contenere gli emendamenti alle parti non conformi solo “di norma”, come spiegò bene l’onorevole Ambrosini il 2 febbraio 1949). Quindi, oltre il danno dello svuotamento del senso del 138, la beffa di allungare i tempi, al di là delle motivazioni ufficiali di efficienza del procedimento, frustrando la possibilità, sempre da perseguire, di non vanificare completamente, nei limiti del possibile ed augurabile, il lavoro parlamentare già svolto.
La navetta è diventata così una camicia di Nesso per il Revisore costituzionale. Il punto è che era progressivamente cambiata la qualità della classe dirigente. Le forze politiche sentivano ormai il bisogno di assicurarsi i due terzi non più preventivamente, facendo “nascere bene” il testo nelle concertazioni interpartitiche, ma in corso d’opera, negoziando direttamente coi parlamentari chiamati a votare il testo (così da assicurarsi i due terzi necessari ad evitare un divisivo referendum). Nel drammatico 1993, Spadolini a giugno non esitò un istante a violare la navetta pur di “riaggiustare” il testo sull’articolo 68, inviatogli dalla Camera nella parte oggetto di mera soppressione. Lo stesso Napolitano che nel maggio aveva dichiarato inammissibile un emendamento aggiuntivo di Gerardo Bianco, si trovò nel luglio a dichiarare ammissibile l’aggiunta approvata dal Senato.
La ricchezza dello “spirito costituzionale” è andata inaridendosi quando, in luogo della mediazione politica per assicurarsi preventivamente i due terzi, ci si è affidati esclusivamente alle preclusioni regolamentari. Come in altri momenti della cosiddetta Seconda Repubblica, ci si è rivolti al Regolamento per supplire al deficit di legittimazione democratica: la rimeditazione del testo è stata vista come un rischio, invece che come un’opportunità.
La cosa è tanto più evidente con il testo attualmente in discussione, che contiene molte disposizioni eterogenee e tali da investire parti diverse della Costituzione. L’alternativa, che sarà la stessa dell’eventuale referendum confermativo, non può essere tra prendere e lasciare, tanto più che su molte parti vi è un vasto consenso.
Addirittura la via di fuga sarebbe un “dai” al posto di un “nei”: la cruna di un ago attraverso la quale può passare solo il cammello del governo. Tanto più che a reggere il gioco, c’è chi nel 2004 condivise la scelta della Presidenza di ammettere al voto emendamenti del governo su testi identicamente approvati dalle due Camere. Se la Presidenza del Senato vuole allontanare da sé il sospetto di parzialità a favore del Governo, accolga la richiesta avanzatale per iscritto tre mesi fa da due senatori e riapra la navetta per tutti: se ne gioverà la qualità del testo, la sua sostenibilità politica e, probabilmente, anche quella referendaria. Perché il 138 – anche in questo – va letto nel suo verso giusto: il popolo è chiamato a condividere lo spirito costituente delle Camere, non a consacrare l’appello plebiscitario di un Capo.
28 luglio 2015