di Antonio Gramsci *
Piccola borghesia
Gli avvenimenti del 2-3 dicembre sono un episodio culminante della lotta delle classi. La lotta non fu tra proletari e capitalisti (questa lotta si svolge organicamente, come lotta per i salari e per gli orari e come lavorìo tenace e paziente per la creazione di un apparecchio di governo della produzione e delle masse di uomini che sostituisca l’attuale apparecchio di Stato borghese); fu tra proletari e piccoli e medi borghesi.
La lotta è stata, in ultima analisi, per la difesa dello Stato liberale democratico dalle strettoie in cui lo tiene prigioniero una parte della classe borghese, la peggiore, la più vile, la più inutile, la più parassitaria: la piccola e media borghesia, la borghesia “intellettuale” (detta “intellettuale” perché entrata in possesso, attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di piccoli e medi titoli di studio generali), la borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città usurai nelle campagne.
Questa lotta si è svolta nell’unica forma in cui poteva svolgersi: disordinatamente, tumultuosamente, con una razzìa condotta per le strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una invasione di locuste putride e voraci. Ma questa lotta, indirettamente sia pure, era connessa all’altra lotta, alla superiore lotta di classi tra proletari e capitalisti: la piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, divenuta oggi la “serva padrona” che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale e trovarsi contro l’avversario specifico: la classe dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e di scambio. La guerra ha messo in valore la piccola e media borghesia.
Nella guerra e per la guerra, l’apparecchio capitalistico di governo economico e di governo politico si è militarizzato: la fabbrica è diventata una caserma, la città è diventata una caserma, la nazione è diventata una caserma. Tutte le attività di interesse generale sono state nazionalizzate, burocratizzate, militarizzate. Per attuare questa mostruosa costruzione lo Stato e le minori associazioni capitalistiche fecero la mobilitazione in massa della piccola e media borghesia. Senza che avessero una preparazione culturale e spirituale, decine e decine di migliaia di individui furono fatti affluire dal fondo dei villaggi e delle borgate meridionali, dai retrobottega degli esercizi paterni, dai banchi invano scaldati delle scuole medie e superiori, dalle redazioni dei giornali di ricatto, dalle rigatterie dei sobborghi cittadini, da tutti i ghetti dove marcisce e si decompone la poltroneria, la vigliaccheria, la boria dei frantumi e dei detriti sociali depositati da secoli di servilismo e di dominio degli stranieri e dei preti sulla nazione italiana; e fu loro dato uno stipendio da indispensabili e insostituibili, e fu loro affidato il governo delle masse di uomini, nelle fabbriche, nelle città, nelle caserme, nelle trincee del fronte.
Bene armati, ben pasciuti, non sottoposti a nessun controllo, nella possibilità di soddisfare impunemente le tre passioni che i pessimisti reputano originarie e insopprimibili della natura umana: la passione del potere assoluto sugli altri uomini, la passione di possedere molte donne, la passione di possedere molti quattrini per comprare piaceri e lusso, queste decine e decine di migliaia di corrotti, di poltroni, di dissoluti si tengono stretti al mostruoso apparato militare-burocratico costruito durante la guerra. Vogliono continuare a governare le masse di uomini, ad essere investiti di una assoluta verità sulla vita e sulla morte delle masse di uomini; organizzano pogroms contro i proletari, contro i socialisti, tengono le piazze e le vie sotto un regime di terrore.
Le elezioni parlamentari hanno mostrato che le masse di uomini vogliono essere guidate e governate da socialisti, che le masse di uomini vogliono una costituzione sociale in cui chi non produce, chi non lavora, non mangia. Questi signori, che continuano a prelevare sul reddito della produzione nazionale e sul credito estero dello Stato una taglia di un miliardo al mese, che gridano sui tetti la loro passione nazionalista e si fanno mantenere dalla patria, che per mantenerli nell’ozio, nel lusso, nel piacere si vende agli americani, questi signori, interroriti per l’imminente pericolo, hanno organizzato subito i pogroms, contro i deputati socialisti. E dalle officine, dai cantieri, dai laboratori, dagli arsenali di tutte le città italiane, subito, come una parola d’ordine, appunto come succedeva in Russia e in Polonia quando i cento Neri tentavano scatenare pogroms gli ebrei, per annegare in una palude di barbarie e di dissolutezza ogni piccolo anelito di libertà, subito gli operai irruppero nelle vie centrali della città e spazzarono via le locuste piccolo-borghesi, gli organizzatori di pogroms i professionisti della poltroneria. E’ stato questo un episodio, in fondo, di “liberalismo”.
Si era formato un modo di guadagno senza lavoro, senza responsabilità, senza alee; oggi questo modo di guadagno ha anch’esso le sue alee, le sue preoccupazioni, i suoi pericoli. Lotta di classe, guerra di contadini. Il caso ha voluto che le giornate di sciopero e di gravi tumulti in tutta l’Italia superiore o media coincidessero con lo scoppio spontaneo di una insurrezione di popolo in una zona tipica dell’Italia meridionale, nel territorio di Andria. L’attenzione che si è prestata all’insurrezione del proletariato delle città contro quella parte della casta piccolo-borghese che ha acquistato durante la guerra una fisionomia militaristica, e ora non vuol perderla, e contro la polizia, ha deviato gli sguardi da Andria, ha impedito che si desse l’esatto rilievo agli avvenimenti di laggiù, che essi fossero apprezzati nel loro giusto valore.
Noi speriamo di poter fornire ai nostri lettori importanti dati di osservazione diretta delle cause e dello svolgimento dei fatti, e ci limitiamo per ora a notare come il caso, facendo coincidere le due sommosse, abbia fornito quasi un modello di ciò che dovrà essere la rivoluzione italiana. Da una parte il proletariato nel senso stretto della parola, cioè gli operai dell’industria e dell’agricoltura specializzata, dall’altra i contadini poveri: ecco le due ali dell’esercito rivoluzionario.
Gli operai di città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali lo svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella fabbrica, cellula dello sfruttamento del lavoro; gli operai di città guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la liberazione, al centro di irradiazione del movimento di riscossa: perciò il loro movimento è sano, è forte e sarà vittorioso. Gli operai sono destinati ad essere, nella insurrezione cittadina, l’elemento estremo e ordinatore a un tempo, quello che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via; essi rappresentano sin d’ora l’intervento nella rivoluzione delle grandi masse, e personificano in modo vivente l’interesse e la volontà delle masse stesse.
Nelle campagne dobbiamo contare soprattutto sull’azione e sull’appoggio dei contadini poveri, dei “senza terra”. Essi saranno spinti a muoversi dal bisogno di risolvere il problema della vita, come ieri i contadini di Andria, dal bisogno di lottare per il pane, non solo, ma dallo stesso continuo bisogno, dal pericolo sempre incombente della morte per la fame o per il piombo, saranno obbligati a far pressione sulle altre parti della popolazione agricola, per costringerle a creare anche nelle campagne un organismo di controllo, il consiglio dei contadini, pur lasciando sussistere le forme intermedie di appropriazione privata del terreno (piccola proprietà), farà opera di coesione e di trasformazione psicologica e tecnica, sarà la base della vita comune nelle campagne, il centro attraverso il quale gli elementi rivoluzionari potranno far valere in modo continuo e concreto la loro volontà. Oggi bisogna che anche i contadini sappiano quello che vi è da fare, che l’azione loro getti radici profonde e tenaci, aderendo come quella degli operai, al processo produttivo della ricchezza.
Come gli uni guardano alla fabbrica, gli altri debbono incominciare a guardare al campo come alla futura comunità di lavoro. La sommossa di Andria ci dice che il problema è maturo: è il problema, in fondo, di tutto il Mezzogiorno italiano, il problema della effettiva conquista della terra da parte di chi la lavora. Il nostro Partito ha l’obbligo di porselo e di risolverlo. La conquista della terra si prepara oggi con le stesse armi con le quali gli operai preparano la conquista della fabbrica, cioè formando gli organismi che permettano alla massa che lavora di governarsi da sé, sul luogo del suo lavoro. Il movimento degli operai e quello dei contadini confluiscono naturalmente in una sola direzione, nella creazione degli organi del potere proletario.
La rivoluzione russa ha trovato appunto la sua forza e la sua salvezza nel fatto che in Russia operai e contadini, partendo da punti opposti, mossi da sentimenti diversi, si ritrovarono riuniti per uno scopo comune, in una lotta unica, perché entrambi si convinsero alla prova di non potersi liberare dall’oppressione dei padroni, se non dando alla propria organizzazione di conquista una forma che permettesse di eliminare direttamente lo sfruttatore dal campo della produzione. Questa forma fu il Consiglio, fu il Soviet. La lotta di classe e la guerra dei contadini unirono in tal modo le loro sorti in modo inscindibile ed ebbero un esito comune nella costituzione di un organismo direttivo di tutta la vita del paese.
Da noi il problema si pone negli stessi termini. L’operaio e il contadino debbono collaborare in modo concreto inquadrando le loro forze in uno stesso organismo. La sommossa li ha trovati uniti e concordi. Il controllo della fabbrica e la conquista delle terre debbono essere un problema unico. Settentrione e Mezzogiorno debbono compiere insieme lo stesso lavoro, preparare insieme la trasformazione della nazione in comunità produttiva. Deve apparire sempre più chiaro che soltanto i lavoratori sono oggi in grado di risolvere e in un modo “unitario” il problema del Mezzogiorno; il problema dell’unità che tre generazioni borghesi hanno lasciato insoluto, verrà risolto dagli operai e dai contadini collaboranti in una forma di politica comune, nella forma politica nella quale essi riusciranno ad organizzare e a rendere vittoriosa la loro dittatura.
* “L’Ordine Nuovo”, 6-13 dicembre 1919