di Rita Bedon
La Cina ha conosciuto uno sviluppo economico che nel giro di trentacinque anni l’ha posta al primo posto nella classifica mondiale del PIL (lasciando da parte le controversie sul significato di questo indicatore), applicando nelle sue riforme il principio della “sperimentazione”. Ed ora anche nel settore finanziario introduce, nella SEZ (Special Economic Zone) di Shanghai, liberalizzazioni, per testarle, valutarle, e applicarle su più larga scala.
La Cina che conosciamo oggi è frutto di 35 anni di riforme economiche di tipo capitalistico e hanno avuto inizio nel 1979, dopo che nel dicembre del 1978 si era tenuta la riunione del Comitato Centrale del partito, in cui Deng Xiaoping riuscì a primeggiare mettendo da parte Hua Guofeng che aveva esercitato il potere dopo la morte di Mao Zedong e Zhou Enlai. L’approccio graduale delle riforme cinesi alla realtà economica esistente ha avuto alcuni innegabili vantaggi. Principalmente sono state evitate le enormi distruzioni di ricchezza, altrimenti inevitabili qualora le politiche adottate si fossero rivelate inefficienti, pian piano adattandole alle condizioni locali e poi a quelle nazionali.
La leadership cinese ha, in secondo luogo, istituito supporti politici seguendo l’evoluzione delle riforme, in modo da evitare conflitti e sommovimenti sociali nocivi alla complessiva manovra di riforma. In terzo luogo, sono state introdotte gradualmente nuove norme legali; inoltre i lavoratori, specie a livello direttivo, sono stati preparati ad affrontare la nuova realtà. In ultimo, l’apparato amministrativo del sistema pianificato è stato tenuto in funzione anche se le sue prerogative sono via via cambiate o diminuite d’ampiezza.
Le riforme adottate dalla leadership cinese sono state del tipo detto a meccanismo intermedio: per esempio, instaurare il doppio sistema dei prezzi, aprire le zone economiche speciali per attirare capitali stranieri e nuove tecnologie, autorizzare alcuni governi locali a introdurre legislazioni più orientate al mercato, decentrare le decisioni a livello locale. Il problema principale di una tale impostazione è stata quella di non riuscire ad evitare di creare periodicamente delle difficoltà nel funzionamento, a livello complessivo, dell’economia. Le autorità hanno dovuto affrontare tali difficoltà senza avere ancora gli strumenti adatti a livello macroeconomico e altri strumenti indiretti rimanevano inefficaci data l’incompletezza delle riforme.
Nel corso di questo lungo periodo, la leadership cinese ha intrapreso un’ampia modifica della propria struttura legislativa per permettere uno sviluppo più fluido del sistema economico. Fra tutte, nel primo periodo delle riforme, quella che riguarda l’assetto proprietario della terra e dei suoi prodotti: con tale riforma la famiglia contadina ritornava ad essere il nucleo centrale del sistema produttivo agricolo avendo essa la responsabilità della coltivazione di un dato appezzamento e dovendo consegnare una quota obbligatoria di raccolto allo stato, ma potendo disporre liberamente dell’eccedenza.
Ma l’intuizione è stata quella dell’introduzione delle SEZ (Special Economic Zone). Queste zone sono state istituite con l’intento di attrarre gli investimenti diretti esteri, sia permettendo la proprietà estera delle imprese, sia creando joint-venture in modo da importare capitali e tecnologie, lanciare l’esportazione e favorire l’occupazione. Sia la proprietà estera che le joint- venture sono state favorite nella legislazione fiscale in modo da far gravare di meno le imposte sui profitti e allentando le restrizioni all’importazione di macchinari e merci utili alla produzione.
L’evoluzione della politica economica cinese che ha portato questo paese a essere tra i primi in ordine di importanza economica a livello mondiale, nell’ultimo periodo ha dovuto affrontare con più determinazione la sua integrazione nel sistema finanziario globale. La piena convertibilità dello yuan (la valuta cinese) è una priorità per Pechino, e anche in questa prospettiva si pone lo sviluppo della nuova Zona Economica Speciale di Shanghai. Questa SEZ sarà come un banco di prova per gli esperimenti finanziari relativi alla convertibilità della valuta cinese, prima di essere sperimentata in altre parti della Cina. Gao Hucheng, il ministro del commercio, nella cerimonia di presentazione della nuova zona, ha dichiarato che il governo agirà nella SEZ di Shanghai “come in un campo sperimentale da cui trarre insegnamenti per condurre le riforme” e promuovere lo sviluppo economico a livello nazionale. Questa dovrebbe agire come piazza monetaria, dove lo yuan venga convertito liberamente e le attività di import-export rese più indipendenti dalle autorizzazioni delle autorità doganali.
Nelle intenzioni della leadership cinese lo yuan dovrà “internazionalizzarsi”, cioè rendere la valuta cinese utilizzabile nelle transazioni cross border* e introdurre tramite la piazza di Shanghai sempre più prodotti finanziari denominati in yuan. In pochi anni, nelle intenzioni dei governanti cinesi, le transazioni in yuan dovrebbero triplicare.
Lo yuan in questi ultimi anni ha scalato rapidamente la classifica delle valute utilizzate negli scambi internazionali, passando dal trentacinquesimo posto del 2010 al quattordicesimo del 2012; si prevede che nei prossimi anni dovrebbe arrivare al terzo posto delle valute usate nelle transazioni mondiali.
La leadership cinese dall’inizio delle riforme ha sempre adottato un modello di sperimentazione verso la liberalizzazione del mercato, che ancora oggi ritiene valido, anche, se, come nel caso di Shanghai, il focus si spostato dall’economia reale a quella finanziaria.
Note
* Una transazione cross-border comporta l’acquisto e la vendita di strumenti finanziari negoziati in mercati non domestici e/o la presenza di controparti residenti in Paesi diversi.
Agosto 13, 2015