di VITTORIO GIOIELLO
La prima fase della segreteria berlingueriana
Enrico Berlinguer viene eletto vicesegretario del partito ( ma con compiti, di fatto, di segretario, a causa dell’invalidità che aveva colpito Luigi Longo) al XII Congresso nel febbraio del 1969.
Il Congresso viene aperto da una relazione del segretario Luigi Longo, ma – contro le consuetudini – il discorso conclusivo fu affidato a Enrico Berlinguer.
Da oltre un anno la società italiana era pervasa dai movimenti cominciati nel ’68.
Il gruppo dirigente del Pci fu colto di sorpresa sul significato politico e culturale generale e non soltanto settoriale che assunse il movimento degli studenti.
Il carattere universale di quella stagione stava ad indicare che c’era una radice politica e culturale comune: l’emergere, in forme nuove e con nuovi contenuti rivendicativi, di una generale domanda di libertà e di liberazione.
Però va sottolineato che il Pci – a differenza, per esempio, del Pcf, che attribuiva all’opera di “gruppuscoli” insignificanti le prime lotte degli studenti – ebbe sin dall’inizio la preoccupazione (più volte sottolineata da Enrico Berlinguer) di non restare estraneo alle sollecitazioni che venivano dalle lotte studentesche.
E’ al riguardo rimasto giustamente famoso l’incontro – reso pubblico attraverso un articolo su “Rinascita” (Il movimento studentesco nella lotta anticapitalistica, Rinascita, 3 maggio 1968) – che il segretario del Pci Luigi Longo ebbe nella primavera del ’68 con alcuni dei più noti dirigenti delle lotte studentesche.
Ma, soprattutto, il Pci seppe capire tempestivamente che il movimento innescato dagli studenti poteva contribuire a dare nuove forme e nuovi contenuti alla stagione di lotte operaie che si annunciava in vista delle scadenze contrattuali del 1969.
Si può dire, in sostanza, che nonostante le gravi difficoltà iniziali il Pci riuscì nel complesso a trarre vantaggio dalla grande svolta del ’68.
E’ però vero, anche, che un settore non marginale del partito rimase fermo su una posizione di netta chiusura: è nota ad esempio la critica molto severa di estremismo e massimalismo che Giorgio Amendola rivolse sino alla fine alle posizioni prevalenti nel movimento degli studenti.
Gli anni settanta, quindi, si aprono in una situazione di acuta tensione sociale e politica determinata sia dalla radicalità del ciclo di lotte studentesche e operaie, ma anche dalla radicalizzazione di posizioni eversive.
Vi è la sensibile crescita di voti al Movimento sociale nelle amministrative del ’70 e nelle politiche del ’72; la mobilitazione della cosiddetta “maggioranza silenziosa” a Milano; soprattutto la ricomparsa del sovversivismo di destra di cui la sommossa di Reggio Calabria costituisce l’episodio più drammatico e clamoroso.
Fa la sua comparsa la “strategia della tensione” con la strage di p.zza Fontana a Milano nel dicembre 1969 e comincia a manifestarsi il cosiddetto “terrorismo rosso”, che giunge ad intrecciarsi e a trovare punti di contatto con la strategia della tensione e con il sovversismo di destra.
E’ in questo clima di forti tensioni sociali e politiche che Berlinguer apre a Milano il XIII Congresso del Pci, che si conclude con la sua elezione a segretario.
(Il giorno stesso dell’apertura del congresso è, a Milano, una giornata di guerriglia urbana, con ripetuti scontri fra una manifestazione della “maggioranza silenziosa” e gruppi di estrema sinistra e con pesanti interventi della polizia. In un dei giorni successivi, mentre il Congresso è in corso, giunge la notizia di un uomo trovato morto su un traliccio dell’alta tensione a Segrate: è Giangiacomo Feltrinelli).
Al centro della sua relazione Berlinguer pone il problema di come dare nuovo impulso alle grandi lotte cominciate nel ’68-’69 sino ad assicurare ad esse uno sbocco sul piano politico e governativo, ma evitando, al tempo stesso, che la spinta a sinistra favorisca per contrapposto il coagularsi di fenomeni di reazione di massa, che mettano in pericolo le stesse istituzioni democratiche.
E’ il primo annuncio, in sostanza, di quella che Enrico Berlinguer enuncerà, di lì a poco, come la strategia del “compromesso storico”. In realtà il tema del “compromesso” è praticamente già posto da Berlinguer nella sua relazione al Congresso:
“In un paese come l’Italia una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le tre grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica. Di questa collaborazione l’unità della sinistra è condizione necessaria, ma non sufficiente. La natura della società e dello Stato italiano, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l’acutezza di grandi questioni sociali ma anche politiche e ideali (la questione femminile, contadina, meridionale), la profondità delle radici del fascismo e quindi la grandiosità stessa dei problemi da fronteggiare e risolvere, impongono una simile collaborazione”.
Compromesso storico e alternativa democratica sono le due proposte politico-strategiche che aprono e chiudono la stagione di Enrico Berlinguer come segretario del Pci.
La proposta della strategia del “compromesso storico” viene formulata da Berlinguer nella parte conclusiva dei tre articoli intitolati “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” pubblicati su “Rinascita” del 24 settembre e del 5 e 12 ottobre 1973.
E la proposta vuole essere la ripresa e il rilancio della politica togliattiana di “unità democratica”. Non a caso Berlinguer indica come obiettivo della sua politica la realizzazione di una “seconda tappa” della rivoluzione democratica e antifascista, tesa a fronteggiare la crisi italiana riprendendo il cammino interrotto nel ’47 e portando a compimento quel rinnovamento dello Stato e della società di cui la Costituzione aveva indicato le linee fondamentali.
E la proposta servì indubbiamente a sbloccare la situazione politica, avviando un trend particolarmente positivo per il Pci.
Le grandi lotte nella fabbrica e nella società che caratterizzarono l’Italia dei primi anni settanta; lo sviluppo di movimenti giovanili, femminili e ambientalisti; alcune importanti riforme avviate in Parlamento (a partire dallo Statuto dei lavoratori); la vittoriosa battaglia nel referendum sul divorzio; infine il grande successo nelle amministrative del ’75( 32.05% dal 27,21% delle politiche del ’72)): queste furono alcune delle tappe che portarono il Pci prima alla conquista di tante regioni, comuni e province e poi all’ulteriore affermazione elettorale nelle politiche del 1976 (34.4%).
Le conquiste degli anni ‘70
Una premessa: il ’68/’69 è stato un processo complesso in cui rimane dominante il ruolo della classe operaia, con sollecitazioni, però, che sono venute con una presa di coscienza di forze sociali nuove e diverse dal movimento operaio, cioè quello che è stato il movimento studentesco. E di lì il ruolo nuovo di democrazia scoperta da tecnici e da intellettuali.
Avvenne sempre più alla consapevolezza di masse anche diverse dalla classe operaia l’effetto di degradazione, attraverso le forme di dominio intrinseche al capitalismo, di tutti i processi sociali, prodottosi in un campo che non era solo quello dei rapporti immediatamente produttivi come quelli della fabbrica, o di chi nella fabbrica è considerato per tradizione il solo soggetto, il lavoratore degli ultimi gradi, quello chiamato operaio-massa; ma tutti possono essere coinvolti. Tanto più per effetto della rivoluzione tecnologica.
Il discorso sulla rivoluzione tecnologica non è nato a metà degli anni ’70, il fenomeno si era iniziato a manifestare negli anni ’60 (c’è tutta una letteratura di allora sulla cibernetica, sull’informatica) e il PCI prese coscienza del valore di questi elementi di novità, che si presentavano sul terreno sociale allargando il campo dei soggetti interessati, che hanno scoperto con una nuova coscienza, di classe, il carattere di dominio del capitale capace, persino, di inglobare la scienza e la cultura.
Il ’68/’69 ha manifestato una forma di coscienza nuova della lotta operaia da parte di soggetti sociali nuovi, coscienza nuova che senza la C. non avrebbe avuto la forza che ha manifestato.
All’inizio degli anni ’70 abbiamo avuto un passaggio decisivo nella direzione di attuare la C.; si sono poste le condizioni per attuare i fini istituzionali sul terreno economico-sociale.
Le novità sono state determinate da questo: che attraverso le lotte che anzitutto avevano l’obiettivo salariale (i limiti delle battaglie salariali sono quando sono solo salariali, ma non possono che essere anzitutto salariali) ma in una crescita di consapevolezza già nata negli anni ’60 [sarebbe interessante leggere gli scritti di Togliatti sul centro-sinistra (CLUSF- Istituto Gramsci sezione di Firenze, 1975)] che non basta la lotta salariale ma ci vuole una lotta per modificare il sistema di potere che produce il salario. Per passare dal salario monetario al salario reale si passa a forme di organizzazione diversa della produzione e a forme di intervento democratico sulla produzione.
Nasce una questione che è fabbrica e stato, nel territorio, a pendant di una tematica affrontata negli anni ’60 e che negli anni ’70 esprime tutta la sua forza dirompente che è la tematica della programmazione democratica dell’economia.
Si è posta una questione nuova che è quella sul sistema di accumulazione e sull’intervento organizzato dello stato sul sistema di accumulazione.
Negli anni ’70 si è riusciti ad aggredire la questione del coinvolgimento delle PP.SS. e del sistema bancario nel controllo democratico, in quello che con un’espressione diventata corrente si è chiamato governo democratico dell’economia.
Nello stesso momento in cui si poneva il problema di conseguire riforme sul terreno del sociale per trovare una coniugazione coerente tra controllo del sistema di accumulazione e anche, però, di una acquisizione da parte del movimento democratico di nuove forme di consumo sociale.
E le battaglie sono state nello stesso tempo, e tutte, sulla base di un punto di svolta decisivo.
Dopo una grande minaccia di sciopero generale, all’inizio degli anni ’70, per la forza che aveva il movimento operaio in quel momento, i governi del tempo, finalmente dopo una pressione trentennale, hanno fatto entrare in campo le regioni.
Le regioni, così come sono riuscite a ridurle in questi anni, anche nelle regioni di sinistra, sono uno strumento di governo amministrativo. Ma nel disegno dei comunisti, inscritto nella C., le Regioni erano uno strumento politico di trasformazione generale del sistema sociale e istituzionale. Sono nate nel ’71 con questo segno, nella svolta complessiva determinata dalle lotte sociali. Allora la regione aveva importanza per questo, perché era previsto come strumento politico, non di amministrazione solamente, il punto chiave è autonomia delle regioni nella programmazione economica nazionale. Quindi una soggettività che attivasse gli enti locali, a loro volta, sul terreno di un impegno per la programmazione democratica dell’economia.
Il territorio veniva inteso come luogo di aggregazione sociale e politica per affrontare insieme i problemi di governo dell’economia e di quello che poi è cominciato a chiamarsi stato sociale (badate che fino ad allora di stato sociale non si parlava, perché si parlava di stato assistenziale, criticando le forme che, prima della riforma sanitaria del 1978, sono state tutte di governo burocratico).
E nacque il fenomeno della partecipazione, che fu l’asse d’incontro tra forze culturali diverse: cattoliche, socialiste e comuniste. La partecipazione come potere (qualcuno parlava di contropotere) nella consapevolezza che solo con la partecipazione sociale e politica,- e quindi con la costituzione di Consigli di zona e Consigli di quartiere come punti di riferimento di una battaglia istituzionale per coinvolgere tutti gli apparati nazionali, statali – si può obbligare il sistema di potere, finanziario anzitutto (pensate che si discuteva addirittura di coinvolgere la Banca d’Italia dentro ad un processo diverso, di sviluppo di un ruolo che, come vedete, è considerato neutro, superiore allo stato stesso, quello del governo della moneta) a riforme di struttura.
E questo coinvolgendo in una nuova dialettica tutto il sistema delle PP.SS., quel nuovo meccanismo che era stato creato nel ’50. Sicchè il divorzio, il diritto di famiglia e la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza sono tutte espressioni di vittoria democratica, perché è entrata in campo come soggetto la classe operaia.
Ed è del dicembre 1978 la sola e unica riforma amministrativa dello stato fatta in Italia: la Riforma sanitaria che però è stata quasi subito affossata. Affossata da subito tramite la legge finanziaria (1 gennaio 1979, un mese dopo la riforma sanitaria) che con l’assenso della destra di Napolitano precostituiva burocraticamente i tetti di spesa, con ciò subordinando ad essi i bisogni di salute e prevenzione che anzichè essere censiti – per poi con la programmazione sanitaria determinare le priorità di spesa – venivano cosi cassati.
Un inciso.
Oggi siamo di fronte alla enfatica esaltazione dei “diritti individuali” e delle “libertà fondamentali”, rimuovendo il fatto che i diritti poggiano (per non essere “cartacei”) sulla conquista di un “diritto” che valga a consolidare a un “potere sociale” antagonistico, attraverso lotte che sono anzitutto culturali, e che per tale tipo di obiettivo hanno sempre più bisogno di un intellettuale collettivo che esprima egemonia, senza più assumere il punto di vista dominante sulla “stabilità” del sistema globale ma perseguendo l’obiettivo di “trasformare” il mondo, cioè i rapporti di “potere”.
Non si dovrebbe, perciò, fare della questione che va sotto il nome di “bilancio partecipativo” la semplice legittimazione di interventi di nicchia come luogo della sola dialettica “locale”, su contenuti relativi alla sola spesa pubblica: mantenendo così estranei alla partecipazione i problemi sociali più complessivi che hanno come epicentro la produzione di “beni” prima che dei “servizi” e il ruolo del capitale industriale-finanziario.
Il rapporto con i cattolici
All’indomani del 20 giugno 1976 il vescovo di Ivrea, mons. Luigi Bettazzi, invia una lettera aperta al segretario del PCI, che, pur nel riconoscimento del mondo dei valori che è alla base della lotta dei comunisti italiani, avanza dubbi e perplessità sui residui di intolleranza laicista e sulle minacce che potrebbero derivare alla libertà religiosa dalla realizzazione di una società socialista.
Berlinguer risponde su Rinascita con un ampio scritto, mettendo in evidenza come l’art.2 dello Statuto del PCI, sancito dal V Congresso nel gennaio del 1946, stabilisca che “Possono iscriversi al Partito comunista italiano i cittadini che abbiano raggiunto il diciottesimo anno di età e che – indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche – accettino il programma politico del partito e si impegnino ad operare per realizzarlo, ad osservare lo Statuto, a lavorare in una organizzazione di partito…”, Berlinguer asserisce che:
“[…] si deve …a questo articolo 2 del nostro Statuto se, da un lato, abbiamo potuto costruire un partito che….fosse un partito ‘nuovo’, perché non solo profondamente di classe ma anche di massa….non settario, non integralista; e se, dall’altro lato, siamo stati e siamo sempre impegnati nella ricerca delle alleanze democratiche più ampie possibili e di una trasformatrice unità con forze sociali, politiche e ideali diverse da noi.
In considerazione di ciò, è forse esatto dire, per usare Sue parole, che il Partito comunista italiano come tale, e cioè in quanto partito organizzazione politica, professa esplicitamente l’ideologia marxista, come filosofia materialistica ateistica?…..risponderei di no.”
Questa affermazione non vuol certamente negare il valore del marxismo, ma mettere in evidenza che:
“[….] senza un marxismo…inteso e utilizzato criticamente come insegnamento, non accettato e letto dogmaticamente come un testo immutabile, sarebbero del tutto inspiegabili non solo le attuali posizioni del PCI, ma anche la stessa crescita della sua forza organizzata e dei suoi consensi elettorali.
E quindi:
“[….] nel Partito comunista italiano esiste ed opera la volontà non solo di costruire e di far vivere qui in Italia un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista; ma di volere anche, per diretta conseguenza, uno Stato laico e democratico, anch’esso dunque non teista, non ateista, non antiteista.”
Questa concezione dello Stato e dell’organizzazione dei comunisti è assolutamente opposta alla concezione che prevale in Occidente nei partiti borghesi, infatti:
“[…] non si può non riconoscere che nell’Occidente europeo, mentre permane il capitalismo – e cioè il sistema moderno discriminatorio per eccellenza sul piano economico, sociale e politico – esistono paesi nei quali si legifera sulla base di aperte pregiudiziali ideologiche (come è il caso della Germania federale) e che, per esempio, il Concordato del 1929, che regola in Italia i rapporti tra Chiesa e Stato, e di cui non si è ancora riusciti ad attuare la necessaria profonda revisione, considera la religione cattolica religione di Stato.”
Da qui ne discende il particolare obiettivo dei comunisti nella società italiana e cioè:
“Il nostro scopo è di lavorare insieme alle altre forze ed organizzazioni, che operano in campo sociale, educativo ed assistenziale, nel costante dialogo e nell’informazione reciproca, per giungere ad una appropriata regolamentazione che, senza violare i principi costituzionali, garantisca ai cittadini che in ogni situazione sociale siano assicurate condizioni fondamentali di efficienza e di democrazia. In conclusione, lo Stato democratico deve, in linea di principio, rispettare le iniziative autonome sul terreno sociale ma non può, per malinteso rispetto del pluralismo, rinunciare alle proprie funzioni”.
Sul termine “compromesso”
La formula del compromesso storico può essere compresa se viene considerata entro l’obiettivo fondamentale: la costruzione di un largo arco di alleanze sociali e politiche. Ogni alleanza comporta determinati compromessi: Lenin ce lo insegna. Si tratta di distinguere tra i diversi tipi di compromesso.
Vi è il compromesso che colpisce l’autonomia politica ed ideale del movimento operaio, che lo rende subalterno all’egemonia delle classi dominanti. Esso va respinto.
Vi è invece il compromesso che consente al movimento operaio, nella sua piena autonomia, di realizzare determinate alleanze, di spostare a proprio favore i rapporti di forza, di far convergere movimenti diversi verso obiettivi di progresso politico e sociale. Questo è il compromesso necessario e giusto, possiamo dire “rivoluzionario”.
Quando i partiti socialisti della II Internazionale, per conseguire l’obiettivo di determinate riforme politiche e sociali, rinunziarono a porre la questione del potere e non videro che la lotta per le riforme può conseguire risultati seri e durevoli solo se si unisce alla lotta per il potere, se viene ad incrinare il blocco politico dominante, essi scivolarono appunto verso compromessi che furono fatali alla lotta rivoluzionaria della classe operaia.
Il compromesso più grave fu, come è ben noto, l’appoggio dato da una serie di partiti socialisti alla propria borghesia imperialistica nella guerra del 1914.
Ma quando i bolscevichi rinunciarono, nell’estate del 1917, alla loro parola d’ordine della collettivizzazione della terra, per far propria la parola d’ordine dei socialisti-rivoluzionari – la terra ai contadini – scesero ad un compromesso che fu decisivo per la vittoria della classe operaia nell’ottobre e che in questo senso fu di portata storica.
Quando i comunisti cinesi realizzarono l’alleanza con il Kuomintang nella lotta antigiapponese, scesero sì ad un compromesso, ma esso fu decisivo per portare alla vittoria la guerra di liberazione e per attribuire una funzione dirigente nazionale al partito comunista.
Così ancora fu un compromesso l’alleanza dell’Unione Sovietica con potenze imperialistiche, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, nella guerra contro il nazismo; ma esso fu decisivo per sconfiggere la minaccia del fascismo nel mondo.
La vera debolezza che mina la strategia del compromesso storico è una debolezza di cultura politica nel leggere i processi economici e sociali in corso: nell’analisi prevaleva una lettura “catastrofista” della crisi capitalistica.
E anche questa volta era la destra del Pci che si poneva su questa strada. Emblematica di questa lettura è un saggio che Giorgio Amendola scrive nel 1973 su Critica marxista, n. 6 – “La classe operaia nel decennio 1961-1971” – con un’analisi sostanzialmente sbagliata rispetto ai processi reali di ristrutturazione capitalistica.
Berlinguer fu fortemente condizionato da questa lettura che, oltretutto, circolava largamente nel partito. Una simile analisi portava inevitabilmente ad un’impostazione programmatica riduttiva e subalterna: un’impostazione che dava la priorità agli obiettivi del risanamento finanziario rispetto alle riforme dell’economia, della società e dalla P.A.
Il movimento operaio doveva manifestare il proprio ruolo nazionale conducendo una politica di moderazione, di “concessioni senza contropartite”. Il nemico principale era da individuare nell’inflazione, per fronteggiare la quale era appunto necessario contenere le rivendicazioni salariali.
Di qui la scelta di sostituire l’abbandonata politica di programmazione dello sviluppo economico con la programmazione “finanziaria”, facendo del “risanamento” il pretesto del “rovesciamento” di linea insita nelle rivendicazioni delle riforme sociali e amministrative risalenti addirittura alla fase “costituente”, oltre che alla normativa costituzionale sui “diritti sociali”.
E’ utile, a questo punto, una riflessione sui caratteri della crisi.
Alle radici dell’attuale crisi capitalistica
La crisi economico-finanziaria che sta sconvolgendo oggi il mondo, e conseguentemente la “politica”, attesta che è inevitabile riproporre in termini, ovviamente aggiornati, il modello teorico marxista, senza del quale le forze dominanti continuerebbero a giocare alternativamente sul liberismo alla Hayek e sull’interventismo alla Keynes, pur di perpetuare il dominio di classe.
E gli avvenimenti oggi in atto nel mondo richiamano la previsione di Marx della crisi generale:
“La cosa che più incisivamente fa sentire al borghese, uomo pratico, il movimento contraddittorio della società capitalistica sono le alterne vicende del ciclo periodico percorso dall’industria moderna, e il punto culminante di quelle vicende: la crisi generale.” [ K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del Capitale, libro I, p.28]
Ciò che fa pensare al carattere generale della crisi odierna è il fatto che essa non è riducibile a un fenomeno essenzialmente – e tanto meno esclusivamente – economico. La crisi affonda certamente le sue radici nella classica contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Ma è un fenomeno che riguarda la società nel suo insieme, e in quanto tale investe tutti gli aspetti della vita sociale. E, sia pure in forme e intensità diverse, la crisi tocca tutte le aree del mondo.
La crisi è crisi del rapporto tra politica e società, crisi culturale e morale.
E lo spostamento a destra è una componente di ciò che Gramsci chiamava fenomeno “organico”:
“Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate [….] contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare.”
Gramsci insiste sulla necessità di stabilire una relazione corretta tra l’aspetto “organico” e quello “congiunturale” di una crisi. A definire ciò che è “congiunturale” non sono semplicemente le condizioni economiche, ma proprio gli sforzi “incessanti e perseveranti” messi in atto per difendere e conservare lo status quo. Se la crisi è profonda – “organica” – questi sforzi non possono essere puramente difensivi. Saranno invece di natura formativa, tendenti a creare un nuovo equilibrio di forze, a mettere insieme un nuovo “blocco storico”, nuove configurazioni e nuove “filosofie” politiche, a ristrutturare profondamente lo Stato.
Quindi, lo “spostamento a destra” non è un riflesso della crisi: è, a sua volta, una reazione alla crisi.
Per avere una visione “organica” dei processi in atto va, quindi, indagato il nesso dialettico tra struttura e sovrastruttura, tenendo presente che è “l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita”. [A. Gramsci “Quaderni…”, Q8, pp.1077-78]
E l’attuale crisi, che come ogni crisi capitalistica è “crisi di sovrapproduzione” cominciò a evidenziare i suoi eccessi critici già dalla metà degli anni sessanta, allorché cominciarono a invertirsi le principali tendenze del capitalismo Usa.
Gli avvenimenti successivi – nel mondo intero – hanno tutti le loro lontane radici in quegli anni: la saturazione del mercato mondiale dovuta alla sovraproduzione, l’interruzione del ciclo di accumulazione del capitale internazionale, la disoccupazione di massa, l’inflazione generalizzata, la pletora di capitale monetario con la crisi del credito internazionale e i palliativi monetaristici, la caduta del tasso di profitto col conseguente inasprimento della concorrenza sul mercato mondiale fino a esiti protezionistici – sono tutte conseguenze di quella svolta.
Nel 70-71 il dollaro venne dichiarato inconvertibile e poi svalutato, aprendo la strada all’affermazione dello yen e del marco. In codesta situazione, la crisi del capitalismo mondiale, ancora guidato dagli Usa, impose nel 72-73 l’aumento indiscriminato dei prezzi di tutte le materie fondamentali. Si cominciò dalle materie prime e dai prodotti agricoli. La crisi delle fonti di energia e il cosiddetto shock petrolifero furono solo l’ultimo passo compiuto in quella gestione della crisi che avrebbe dato il via al processo di inflazione. Si posero le condizioni per una nuova spartizione del mercato mondiale: è a partire dagli anni 74-75 che il capitale multinazionale, per bocca del segretario di stato Usa, Henry Kissinger, cominciò a discutere di nuovo ordine economico internazionale. In codesto quadro si determinò e si sviluppò la crisi del credito internazionale e l’avventura dell’economia di carta con la speculazione borsistica e monetaria, espressasi attraverso l’offensiva teorica e pratica del neo-monetarismo. Negli anni 80 la sovrabbondanza di credito monetario favorisce il predominio delle banche sull’industria, del denaro sulla merce, della speculazione sulla produzione.
Tutto ciò non fu che il preludio del drastico processo di razionalizzazione economica, sociale e istituzionale. E la razionalizzazione ha il suo fulcro nella ristrutturazione del processo di produzione industriale, sul piano internazionale.
La nuova organizzazione del lavoro si colloca al centro dell’intero processo: la grande trasformazione dell’imperialismo transnazionale sta proprio nelle novità del processo di lavoro conseguente alla seconda grande rivoluzione industriale. Questa rivoluzione dell’automazione del controllo fa leva molto più sull’efficienza del lavoro vivo che sull’innovazione tecnologica.
La piena e assoluta ripresa di comando sul lavoro è il primo obiettivo che il capitale stesso mira a perseguire, come condizione necessaria per l’eventuale possibile rilancio del processo di accumulazione.
Tutto il lavoro vivo è disarticolato proprio in funzione di una sua ricomposizione per consentire al capitale di fruire di tutto il tempo dei lavoratori come tempo di lavoro e di pluslavoro effettivo.
La flessibilità del nuovo processo di lavoro è la parola con cui è stata caratterizzata questa realtà: una flessibilità doppia, del lavoro e delle nuove macchine che gli corrispondono. Per la prima volta nella storia dell’industria moderna, infatti, si dà la possibilità di simultaneità della doppia flessibilità di lavoro e di macchine.
La precarietà diviene un cardine del sistema, in corrispondenza della flessibilità del processo. Alla doppia flessibilità di lavoro e macchine si accompagna, necessariamente per il funzionamento del capitale, la flessibilità del salario.
La stessa articolazione della nuova organizzazione del lavoro – nelle forme dominanti della flessibilità e del precariato – va dalla filiere industriali informatizzate, decentrate attraverso il mercato mondiale, alla nuova funzionalità del lavoro a domicilio, alle diverse forme dell’esercito industriale di riserva e del nuovo pauperismo.
In questo disegno si inscrive anche la realtà italiana.
La controffensiva anticomunista
Non è un caso che quando maturavano le condizioni elettorali per la possibilità che i comunisti “governassero” non solo dal parlamento ma anche dai vertici dell’”esecutivo” centrale (oltre che da quelli regionali, provinciali e comunali, in numero dilagante) – le forze conservatrici e reazionarie in forma anche di potere “occulto” abbiano lanciato una controffensiva.
Va sottolineato come la controffensiva anticomunista – che per i tornanti degli anni ’80 e ’90 ha provocato progressivamente gli esiti devastanti che sono sotto i nostri occhi – abbia seguito due strade destinate a incontrarsi , nel senso che mentre le forze reazionarie hanno aperto il fronte delle “riforme istituzionali” volte a destrutturare la Costituzione del 1948, dal canto suo la cultura liberal-socialista impersonata da Bobbio ha innescato una più diretta e mirata polemica contro la stessa proponibilità di una strategia di “via al socialismo”.
1) Dalla “Trilateral” alla “P2”.
Il richiamo va a due documenti che nello stesso tornante degli anni 1973-1975 sono venuti a dar manforte a chi aveva da tempo interesse a destabilizzare la democrazia italiana per delegittimarne la costituzione e passare ad un ordinamento di tipo “autoritario”.
Il “rapporto della Commissione trilaterale” pubblicato nel 1975 ad opera di “un gruppo di privati cittadini” (studiosi, imprenditori, politici e sindacalisti di America del nord, Europa occidentale e Giappone) preoccupati della “crisi della democrazia”, dovuta nei fatti alla “pressione della domanda sociale” sulle istituzioni di governo “mentre le possibilità ristagnano”: sicché nel valutare gli eccessi di “partecipazione”, il documento denunciava che uno spirito di democrazia “troppo diffuso, invadente” può costituire una minaccia intrinseca a insidiare ogni forma di associazione, allentando i vincoli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità: e come “focus” della sopravvenuta insostenibilità del sistema, viene posta sotto accusa la minaccia che proviene “dagli intellettuali” e gruppi collegati, orientati a smascherare e negare legittimità ai poteri costituiti, mettendo in atto un comportamento che contrasta “con quello del novero pur crescente di intellettuali tecnocratici e orientati dalla politica”.
Questa lettura che diventa vera e propria teoria dominante, prefigurandosi come una nuova teoria generale, ha come obiettivo quello di produrre una sorta d’impotenza a leggere i processi storici nel loro reale svolgimento. E tende ad uniformare forme di stato e forme di governo della società all’interno delle categorie di “governabilità”, “stabilità” ed “efficienza” tipiche del pensiero conservatore.
Diverrà il punto di riferimento teorico del cosiddetto “nuovo corso” occhettiano.
2) Il secondo documento – il c.d. “piano di rinascita democratica” della “loggia massonica P2”, pubblicato a cura di Gelli (e poi anche agli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta”) – elenca tutte le proposte di “riforma istituzionale” che dovevano servire a “rivitalizzare” il sistema inquinato dalla presenza del “partito orientale” e dalla politica compromissoria della Dc.
Il “piano”, articolato in obiettivi e procedimenti entro programmi “a breve, medio e lungo termine”, prevedeva “ritocchi” alla Costituzione, senza intaccarne “l’armonico disegno originario” per operare in un contesto “ormai molto diverso da quello del 1946”, ciò che collima con lo spirito con cui è stato avviato il processo di “riforme istituzionali” della Commissione De Mita-Jotti e soprattutto della Commissione D’Alema, per quelli che una certa dottrina costituzionalista ha chiamato “adattamenti” costituzionali alla “nuova realtà sociale”.
Sul terreno strettamente politico e sociale, riguardante il ruolo dei partiti e dei sindacati, il “piano” ha proposto l’uso di strumenti finanziari per la nascita “di due movimenti, l’uno sulla sinistra e l’altro sulla destra”: situazione che si è poi venuta a creare, con la sola novità non preventivabile della presenza (significativa del revisionismo sia storico che giuridico) dei Ds e Pp da un lato, e della “berlusconiana” Forza Italia dall’altro lato, mentre per quanto concerne i sindacati si è puntato a un ruolo effettivo di un sindacato “collaboratore del fenomeno produttivo”, ciò che la “concertazione” di Cgil, Cisl, Uil ha perseguito, in una situazione garantita dalla “limitazione del diritto di sciopero” (intervenuta nel 1990 nel settore dei “servizi pubblici essenziali” con “obbligo di preavviso”, per il voto qualificante in commissione di socialisti e comunisti).
Sul terreno istituzionale, il “piano” puntava a modifiche “urgenti” dell’ordinamento giudiziario, con la responsabilità civile (per “colpa” dei magistrati) e l’introduzione nella normativa per l’accesso in carriera di “esami psico-attitudinali preliminari” “per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati” e “separare le carriere requirente e giudicante”; per quanto concerne il parlamento, il “piano” puntava a esaltare la preminente “funzione politica della Camera”, alla modifica dei regolamenti parlamentari per rovesciare la “tendenza assemblearista” dei regolamenti del 1971, e così introdurre le premesse della attuale separazione tra ruolo del governo e della sua maggioranza parlamentare e ruolo dell’opposizione. Passando alla previsione a “medio e lungo termine”, alla modifica della costituzione per stabilire che “il presidente del consiglio” è eletto dalla camera all’inizio di ogni legislatura e “può essere rovesciato soltanto attraverso l’elezione del successore”, cioè con la c.d. “sfiducia costruttiva”; prevedeva nuove leggi elettorali “di tipo misto” “uninominale e proporzionale” (con preferenza per il sistema tedesco).
Sotto la spinta di tale “piano” ha preso corpo negli anni ’80 quella involuzione democratica che ha visto degradare l’originalità dei Principi Fondamentali e della Prima Parte.
2) Il cosiddetto “nuovo corso” socialista e Norberto Bobbio
Un aspetto di cesura, rispetto all’analisi marxista, è la considerazione della necessità di passare dal “totalitarismo”, categoria entro cui viene identificata la storia passata, alla “rivoluzione liberale”.
A dare vita a questa operazione è Norberto Bobbio, il quale nella seconda metà degli anni ’70 muta radicalmente giudizio sul marxismo italiano, su Gramsci, sul Pci, rispetto al modo come egli stesso si era rapportato a tali questioni negli anni ’50.
Bobbio muta il giudizio sul Pci, del quale viene messo in discussione il carattere democratico, sia quello su Gramsci, la cui dottrina dell’egemonia viene considerata ora come una variante della dittatura del proletariato, sino a riproporre contro il Pci e il marxismo italiano la nozione di totalitarismo e, più in generale, una veduta della storia d’Italia incentrata sulla contrapposizione tra totalitarismo e liberalismo, nella quale è contenuta, seppure in nuce, la tematica della cosiddetta II Repubblica. E’ in questo contesto che nasce e si afferma Craxi, il quale ha contribuito ad accelerare e a rendere esplicita la crisi del sistema politico italiano. Basta pensare al ruolo svolto dal tema del “presidenzialismo” e a quello della “Grande Riforma”.
E’ in tale contesto culturale e politico che va collocata anche la nascita della destra, la formazione di uno spazio politico a destra.
E’ tutta una cultura, presidenzialista e antipartitocratica, che entra ora in contatto con la società.
Un ruolo fondamentale in tutto ciò lo ebbe, innanzitutto, Cossiga, il quale dal Quirinale rimise in circolo due capisaldi fondamentali della tradizione missina (la critica antipartitocratica connessa all’ipotesi di una riforma in senso presidenzialistico; la questione del superamento della pregiudiziale antifascista) che rilanciarono di fatto il paradigma neofascista.
E’ dentro questo contesto culturale e politico che va collocata la centralità di Craxi, prima, e poi la presidenza Cossiga, che innesta una fase di radicalizzazione che favorisce di fatto lo sviluppo della destra. Ma questo passaggio non sarebbe avvenuto senza la trasformazione del Pci in Pds, il modo in cui il Pci è uscito di scena, rimuovendo e condannando la sua storia.
La rottura con la società
E’ nel triennio della solidarietà nazionale che avviene una rottura tra la politica del Pci e società italiana. Iniziato con la vittoria del Pci (l’ “anomalia italiana”), il triennio si conclude non solo con la sua pesante sconfitta politica, ma soprattutto con il mutamento di segno politico-culturale che quella vittoria implicava e registrava.
Gerardo Chiaromonte , che con Giorgio Napolitano ha avuto un ruolo di primo piano nell’attuazione della politica di solidarietà nazionale, in un saggio del 1986 (“Le scelte della solidarietà democratica”) espone con chiarezza i dissensi della destra comunista.
Scrive Chiaromonte:
“L’atteggiamento e la posizione di Enrico Berlinguer in questo periodo non furono, a mio parere, sempre coerenti e prive di scarti. Al contrario, ritengo che certe posizioni, espresse dal segretario in articoli, discorsi, interventi a riunioni, abbiano aperto uno spazio a…..posizioni di chiusura, di esclusivismo, di settarismo”.
Tre i punti che Chiaromonte giudica negativi:
un primo punto riguarda “l’eccessiva insistenza” con cui Berlinguer sostenne “la necessità di puntare a una diversa qualità dello sviluppo”; un secondo punto di dissenso riguarda il modo con cui il segretario del Pci aveva posto la “questione morale” e il tema della “diversità comunista”; terzo punto “la eccessiva insistenza” con cui Berlinguer sottolineava la necessità che la linea del compromesso storico non si riducesse alla sola dimensione politica di vertice, ma necessitava di un “forte rilancio delle lotte sociali” e “della coscienza democratica di massa”.
L’ultimo Berlinguer: ai cancelli della Fiat, la questione morale, la difesa della costituzione
Ancora nell’agosto 1979 ( “Il compromesso storico nella fase attuale” su “Rinascita”) Berlinguer ripropone la sua idea-forza estendendone il significato ben al di là di alleanze politiche o di governo, ma avanzando una proposta di un’intesa “di portata storica” sui modi e sui fini dell’accumulazione e della produzione, indicando forme di “controllo diretto” della classe operaia sull’impiego delle risorse.
Sono i temi che lo porteranno a sostenere la lotta degli operai alla Fiat.
Il 1973 è l’anno nascita del microprocessore.
Ma è solo agli inizi degli anni ottanta che la diffusione della microelettronica diventa di massa, con il dilagare del personal computer e con l’introduzione su larga scala di sistemi di controllo di processo e di controllo informativo nelle unità produttive. L’introduzione dei sistemi Digitron e Robogate alla Fiat (1979 e 1980) è l’inizio della tendenza graduale ma inarrestabile alla ristrutturazione del ciclo.
L’espulsione dei 16mila dalla Fiat (e la relativa “marcia dei 40mila”) della fine del 1980 rappresenta il punto centrale ed emblematico della fase di ristrutturazione accelerata.
Nell’estate del 1980 gli operai si ribellano in massa, bloccano la produzione e i cancelli della fabbrica.
Vi è un’abbondante bibliografia che analizza quella vicenda (di particolare interesse è il libro di Pio Galli “Fiat 1980. Sindrome di una sconfitta”), ciò che – nell’economia di queste note – interessa è mettere in evidenza il carattere di svolta che si determina nell’iniziativa politica di Berlinguer: è il recupero della lotta di classe.
In un recente scritto sulla storia del Pci (“Il sarto di Ulm”) L. Magri si pone l’interrogativo:
[…] Perché, in una vertenza così compromessa in partenza, Berlinguer andò ai cancelli per sostenere gli operai senza riserve?”[…] Disse agli operai: ‘Spetta a voi decidere sulla forma della vostra lotta, a voi giudicare gli accordi accettabili. Ma sappiate comunque che il Partito comunista sarà al vostro fianco’ […] Era….l’affermazione rinnovata del carattere del partito, nazionale e di classe…..Erano…parole che esprimevano una scelta meditata e convinta, implicitamente autocritica.”
Venendo ai temi della moralità, è riferendosi al pensiero di Gramsci che l’ultimo Berlinguer, quello che rompe con la politica della solidarietà nazionale, fa della questione morale il cardine di una strategia politica che si rivelerà quasi profetica, prima del tempo.
La centralità della questione morale nasce, fondando la proposta politica di un’ alternativa democratica, nei giorni successivi al terremoto dell’Irpinia e della Basilicata del novembre del 1980. Nasce dopo aver visto le macerie del terremoto e quelle delle istituzioni colpevoli dei drammatici ritardi nei soccorsi denunciati dal Presidente Sandro Pertini: quelle macerie mettevano a nudo quanto ci fosse stato di un sistema politico e istituzionale corroso e malato.
E Berlinguer, in un’intervista, afferma in quei giorni che “il processo di distacco tra Paese e istituzioni” è arrivato ad un punto drammatico. “La questione morale esiste da tempo. Ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale, poiché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni”. Berlinguer teme che “lo scivolamento verso esiti oscuri e avventurosi prima o poi divenga inevitabile”. Vede il rischio – quale profezia quattordici anni prima della “discesa in campo” dell’uomo delle televisioni ! – che questa crisi si risolva “invocando un “uomo forte”, e “cambiando il carattere parlamentare della nostra democrazia”.
Il 28 luglio 1981 Enrico Berlinguer rilascia una celebre intervista al direttore de “la Repubblica” in cui sottolinea tematiche che oggi, a 30 anni di distanza, tornano ad essere drammaticamente attuali
Vi si afferma che i partiti sono soprattutto macchine di potere e di clientela; hanno scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente; sono senza idee e ideali, con programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”.
Analizzando la crisi capitalistica, Berlinguer prosegue:
“pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Ma siamo convinti che si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, della sfiducia, della disperazione.” [In “Conversazioni con Berlinguer”, Roma, Editori Riuniti, 1984, p.255]
E’ dalla negazione di questa strategia che nasce la “svolta” occhettiana.
E’ sempre Berlinguer, nella prefazione ai “Discorsi parlamentari di Togliatti”, a focalizzare il nesso tra questione morale e questione istituzionale:
“[….] la profonda esigenza di restituire alle istituzioni la funzionalità e il ruolo che spetta loro in una Repubblica democratica a base parlamentare viene distorta e tradita. Attraverso alcune delle ‘riforme’ di cui si sente oggi parlare si punta a piegare le istituzioni, e perciò anche il parlamento, al calcolo di assicurare una stabilità e una durata a governi che non riescono a garantirsele per capacità e forza politica propria.
[..] Anche la irrisolta questione morale ha dato luogo non solo a quella che, con un eufemismo non privo di ipocrisia, viene chiamata la Costituzione materiale, cioè quel complesso di usi e di abusi che contraddicono la Costituzione scritta, ma ha aperto anche la strada al formarsi e al dilagare di poteri occulti eversivi – la mafia, la camorra, la P2 – che hanno inquinato e condizionano tuttora i poteri costituiti e legittimi fino a minare concretamente l’esistenza stessa della nostra Repubblica.Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e di meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero anche formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni.”
E’ palese, quindi, l’opposizione di Berlinguer a qualunque ipotesi di cosiddette “riforme istituzionali”.
Il primo congresso dopo la morte di Berlinguer – il XVII – si svolge a Firenze nell’aprile 1986. In quel congresso verrà sancita l’appartenenza del Pci alla sinistra europea di cui si dichiara “parte integrante”. E’ la sanzione del prevalere della destra comunista che ha in Napolitano il suo esponente principale. Sono parole che vanno nella direzione auspicata dalla corrente migliorista: l’omologazione del PCI nell’ambito delle forze che si riconoscevano nell’Internazionale socialista, la fine della berlingueriana “diversità comunista”.
In una intervista a Critica marxista dell’aprile 1981 Berlinguer metteva in evidenza come:
“La difficoltà in cui si sono imbattuti i partiti socialdemocratici sta …in ciò: che la loro politica, illudendosi di essere “realistica e concreta”, nei fatti è diventata spesso adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi dell’impegno al cambiamento dell’assetto dato, li ha portati cioè all’offuscamento e alla perdita della propria autonomia ideale e politica dal capitalismo. La nostra diversità rispetto alla socialdemocrazia sta nel fatto che a quell’impegno trasformatore e a quella autonomia ideale e politica noi comunisti non rinunceremo mai.” [Intervento in “Atti del XVII Congresso”, Roma, Editori Riuniti, 1987, p.280]
Ciò che distingue il Pci dai partiti socialdemocratici europei sta dunque per Berlinguer nell’anomalia con cui i comunisti “stanno nella storia”: nel credere alla costruzione di una marxiana “società di liberi e di uguali”, ovvero alla possibilità di trasformare i rapporti sociali di produzione, in modo da rendere la società a misura d’uomo, facendo avanzare forme nuove di socialismo. Il Pci non deve omologarsi agli altri. Più democrazia e più socialismo devono essere gli ingredienti. Non solo l’una o solo l’altro.
Nella stessa intervista Berlinguer specifica quale concezione debba caratterizzare la “diversità” dei comunisti:
“La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo…., sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire una “società di liberi e uguali”, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la “produzione delle condizioni della loro vita”.
[in “Critica marxista”, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp.11,12]
E prosegue:
“Oggi, lo sforzo della classe operaia (e del partito) per affermare la propria autonomia ideale e politica rispetto alla società capitalistica, nasce dalla ripulsa dei “valori” dominanti. Per esempio, uno dei valori costitutivi e fondanti delle società capitalistiche è l’individualismo, la contrapposizione fra gli individui, la lotta di ciascuno contro tutti gli altri, di ciascun gruppo o corporazione chiusa in se stessa contro tutte le altre. La classe operaia, e noi comunisti, tendiamo ad affermare invece il valore della solidarietà di classe e della solidarietà di tutti gli oppressi e gli sfruttati. Con ciò è chiaro che noi apriamo una lotta, perché siamo convinti della necessità, della possibilità e della utilità generale di costruire rapporti nella società e nello Stato fondati sul ribaltamento di quel valore, di quella idea base del capitalismo, che è appunto l’individualismo.”
[idem. P.10]
Il prius della “diversità” di Berlinguer non stava, quindi, nell’etica, ma in una concezione della politica e degli obiettivi della politica.
Il grande valore della pace e il rapporto con i cattolici
E’ su questo tema che, soprattutto in occasione della installazione dei missili della Nato nel nostro paese, si è manifestata una forte iniziativa cattolica, indipendentemente dalla DC, anzi spesso contro di essa. Fondamentale è l’interlocuzione di Berlinguer.
Il testo più interessante è la lunga intervista concessa all’agenzia Adista (17 dicembre 1982).
Vi è un’attenzione nei confronti delle novità cattoliche, soprattutto della priorità data al tema della pace e del disarmo:
“E’ vero che da parte del Pci c’è oggi un’attenzione più desta e penetrante verso l’area cristiana e cattolica. Il motivo sta nel fatto che in alcune organizzazioni, in numerose comunità e anche in certi settori dell’episcopato e del clero italiano nell’ultimo periodo si è risvegliato – anche se non ha il vigore prorompente e le caratteristiche innovative degli anni del Concilio e immediatamente successivi – un processo di maturazione democratica e di apertura culturale, una diffusa aspirazione a misurarsi e a impegnarsi nei problemi gravi, anzi nei drammi che vivono il nostro paese e il mondo (la corsa al riarmo, la violenza, il terrorismo, la mafia, la corruzione, la droga); uno sforzo per rendersi ragione dei cambiamenti prodottisi nella vita sociale e nel costume e per influire su di essi; e per capire, anche, le novità politiche che malgrado tutto si fanno avanti, compresa la novità costituita dalle posizioni politiche e ideali da tempo espresse dal Pci e i loro più recenti sviluppi. In particolare ci pare di avvertire, nelle associazioni di ispirazione cristiana, e specialmente in quelle giovanili, il desiderio che si affermino una maggiore pulizia e coerenza morale nella vita pubblica e privata, una esigenza di risanamento dello Stato, delle istituzioni, dei partiti; ma soprattutto – ed è questa, io credo, la cosa più importante – un rifiuto intransigente della corsa al riarmo, una rivendicazione aperta e insistente della pace e della giustizia fra i popoli, una partecipazione convinta e attiva ai movimenti di massa, alle manifestazioni e alle marce per il disarmo, la distensione e la pace nel mondo”
La questione dell’innovazione tecnologica
Abbiamo accennato in precedenza come agli inizi degli anni ottanta la diffusione della microelettronica diventi di massa, con il dilagare del personal computer e con l’introduzione su larga scala di sistemi di controllo di processo e di controllo informativo nelle unità produttive. A fronte di questi processi vi è , nella sinistra, la rinuncia ad analizzare i meccanismi attraverso i quali l’innovazione tecnologica nasce, si diffonde, incide sull’occupazione e sul tempo libero, sulle condizioni di vita e di lavoro. Si sconfina, invece, in predizioni millenaristiche, come quelle della “fine del lavoro” o della “soddisfazione totale dei bisogni” attraverso l’automazione.
Sennonché, le contraddizioni del capitale non scompaiono in virtù delle “nuove tecnologie”. Il palliativo “tecnologico”, a lungo termine, le approfondisce: perseguendo ciascuno il proprio fine individuale (abbassare i costi e alzare i profitti), i capitalisti fanno cadere il tasso di profitto del capitale totale.
Inoltre, le tecnologie non sono neutre, ma si inseriscono in un modo di produzione determinato, in una fase concreta del suo sviluppo.
Occorre, perciò, rimuovere la falsa idea che l’innovazione tecnologica sia tale da rompere la continuità con la manifestazione organica del capitale industriale-finanziario emersa già agli inizi degli anni ’30.
E la questione è già presente in Berlinguer. In una intervista all’Unità del dicembre 1983 afferma:
“Mi pare… che sia assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche della informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica.”
Altro aspetto riguarda il carattere intrinsecamente “democratico” assegnato allo sviluppo delle comunicazioni in rete. Ancora una volta alla tecnologia viene assegnato un ruolo taumaturgico nel risolvere questioni di fondo della società, ruolo che viene oltremodo ingigantito dallo sviluppo di Internet: le tecnologie sarebbero in grado di per sé ad aprire la strada alla democrazia diretta.
Risulta chiaro che, via Internet, l’utente è libero di decidere con quali persone o cose vuole mettersi in contatto; bisogna tuttavia intendersi e si tratta di un punto cruciale nell’odierno dibattito sul rapporto informazione-democrazia: una cosa è la possibilità di un libero accesso all’informazione, tutt’altra la probabilità che i cittadini possano farne uso.
Nell’intervista precedentemente citata, Berlinguer sgombera il campo da tante illusioni sull’utilizzazione della “rete” come strumento di democrazia diffusa:
“La ‘democrazia elettronica’ limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone……io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi.” [in “Conversazioni….”, p.354]
Con queste note ci siamo sforzati di mettere in evidenza che non vi era nessuna “situazione oggettiva” che comportasse lo scioglimento del maggiore partito comunista d’occidente, che nelle analisi dell’ultimo Berlinguer, quello che, dopo l’esperienza negativa della “solidarietà nazionale”, rompe la camicia di forza che la destra del partito gli aveva stretto intorno, vi erano in nuce gli elementi teorici per affrontare la fase che si era aperta nella crisi capitalistica. E il “nuovismo”, su cui si è dislocato il gruppo dirigente che ha sciolto il partito, non ha alcun fondamento, se non quello legato alla “bramosia del potere”, giocata in modo del tutto subalterno alle classi dominanti.
E’ Gramsci che legge in modo corretto il rapporto tra conservazione e innovazione:
“In realtà, se è vero che il progresso è dialettica di conservazione e innovazione e l’innovazione conserva il passato superandolo, è anche vero che il passato è cosa complessa, un complesso di vivo e di morto [….] Ciò che del passato verrà conservato nel processo dialettico non può essere determinato a priori, ma risulterà dal processo stesso, avrà un carattere di necessità storica, e non di scelta arbitraria da parte dei cosiddetti scienziati e filosofi.”
[A.Gramsci “Quaderni del carcere”, Torino, Einaudi, 1975, Q.10, pp. 1325-26]