di MOWA
A qualcuno, nel passato, probabilmente sarà venuto spontaneo fare l’analogismo tra l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro e quello del presidente statunitense John F. Kennedy, perché, in entrambi gli assassinii, sono state appurate (e accertate) le responsabilità su chi fossero i veri responsabili, un mix di soggetti sia esterni alle istituzioni che fra coloro che avrebbero, invece, dovuto tutelarli.
L’approfondimento e l’analisi di come si siano svolti, veramente, i fatti è dovuta ad alcune persone, giornalisti, politici, testimoni, poliziotti… insomma, agli onesti che hanno contribuito ed evitare che una verità scomoda a qualcuno prendesse piede e che, quindi, la ricostruzione dei fatti venisse affossata.
Infatti, quelle uniche verità appurate sono state ottenute, anche, attraverso la lealtà di poliziotti che hanno tirato dritto nonostante, in quegli omicidi, fossero coinvolti pezzi consistenti di apparati istituzionali. Ed è grazie anche a costoro se, oggi, abbiamo a disposizione elementi validi che ci permettono di fare riflessioni più dettagliate su come siano andate le cose, quali interessi vi fossero di mezzo e quali attori furono protagonisti.
Battere chiodo sulle contraddizioni è la cosa più importante per far cadere l’insabbiatore di verità.
Nel caso Moro, ad esempio, siamo pieni di contraddizioni, infatti, sono presenti vecchi e nuovi soggetti che cercano di insabbiare verità, decisamente, scomode a qualche cointeressato.
Una delle persone che ha mantenuto, fede al giuramento fatto alle istituzioni prima di essere integrato nel corpo delle forze dell’ordine è, sicuramente, l’ispettore Enrico Rossi.
Dopo aver tentato in tutti i modi di arrivare a conclusioni investigative corrispondenti alla verità sull’assassinio dell’onorevole Aldo Moro, questo ispettore, ha eseguito, alla lettera, le procedure standard per evitare che venissero commessi errori che avrebbero inficiato il lavoro sin lì svolto.
Infatti l’ispettore Enrico Rossi, che fu assegnato per diversi anni all’antiterrorismo, prima di rendere pubbliche le sue indagini sui componenti dell’Honda presente durante il rapimento dell’onorevole Moro e l’uccisione della sua scorta, ha preteso di essere sentito sia dai Pubblici Ministeri che in Parlamento.
Da come si sono avvicendate le cose, con continui stop and go (tantissimi e che, sicuramente, non sono terminati) l’indagine si complica ulteriormente come si intuisce nella breve intervista fatta da Sky all’ispettore Rossi, il quale lascia trapelare che i detrattori della verità sono sempre lì in agguato a mettere sabbia nell’ingranaggio… cosa che, tra l’altro, Rossi ha riscontrato continuamente quando era in attività prima di andare in pensione. Anzi, oggi che l’ispettore è in pensione, forse, quegli stessi detrattori hanno paura che riveli altri particolari che prima non poteva rendere pubblici perché in attività.
L’ispettore, nell’intervista a Sky (riprodotta sotto), solleva inquietanti dubbi sul ruolo di figure come l’autore (probabile componente della fatidica Honda) della lettera consegnata, qualche anno fa, al quotidiano la Stampa il quale dichiara di “operare alle dipendenze del colonnello” del Sismi (anch’esso, stranamente, in loco il giorno dell’agguato a Moro), Guglielmi. Ricordiamo che Camillo Guglielmi era responsabile della struttura (sconosciuta al Parlamento italiano) Gladio e che questa utilizzava personale sia civile che militare.
Come si possono conciliare passione, detenzione di armi, due brevetti di volo (1° e 2° grado) dell’autore della lettera con la sua attività professionale?
La cosa si aggrava quando le pistole (una Beretta e una Drulov) ritrovate in casa dall’autore della lettera non vengono (attenzione!), periziate e conservate come richiesto dall’ispettore Rossi, ma distrutte.
Sorprendente, poi, il decesso dell’autore della lettera, avvenuto pochissimi mesi dopo la perquisizione fatta in casa sua ad opera dalle forze dell’ordine e che ha permesso il ritrovamento di forti indizi sul caso Moro.
La storia (non solo italiana) ci insegna che troppi sono i decessi che avvengono, tra coloro che prendono parte a “strane operazioni sotto copertura” e che, quindi, ahimè!, non hanno più modo di dire la loro su chi altri sia responsabile o come siano andate realmente le cose per rimettere la barra a dritta.
Aldilà delle loro contradditorie dichiarazioni, un’altra cosa è certa: i brigatisti rossi hanno saputo infinocchiare un sacco di creduloni ed erano tanto pericolosi per i paesi socialisti di allora che la stessa Stasi – XXII dipartimento (servizio segreto dell’ex DDR) – aveva avuto mandato (come si evince dagli archivi dei documenti Jabresplan 1980 des Leiters der Abteilung XXII) dal Comitato Centrale del partito di considerare le Brigate Rosse (insieme alla lista di altre) un’organizzazione ostile per quell’area geografica, di tenerla sotto osservazione ed arrestare, al confine, gli appartenenti a tale organizzazione qualora avessero tentato di entrare nella Germania dell’Est; costoro erano tanto pericolosi per la DDR che, nelle schede personali su Mario Moretti (BR), Rita Algranati (BR), Cesare Casimirri (PAC) – per citarne qualcuno – compilate dalla ZAIG (Zentrale Auswertung und Informationsgruppe) il maggior organismo d’analisi e coordinamento della Stasi, era scritto: “Nota riguardante persone appartenenti alla categoria dei soggetti particolarmente pericolosi”.
Una verità tanto nota nei paesi dell’Est di chi fossero le Br che il caricaturista Otto Damm pubblicò, negli anni ’70, su una rivista della DDR, una vignetta che ritraeva un caporione fascista, con un nodoso bastone, semi-nascosto tra le quinte di un teatro, mentre tirava un filo che collegava all’altro capo del sipario una pistola sparante alla quale era appeso uno svolazzante cartello con scritto “Rote brigaden”. La didascalia era eloquente: “Le BR non sono comuniste, ma fascisti laccati di rosso, marionette del nemico imperialista, per screditare il comunismo.”