Esce il nuovo libro inchiesta di Sergio Flamigni «Il terrore, un’ arma contro l’avanzata del Pci»
di Vindice Lecis
VINDICE LECIS. Il patto di omertà tra le Br e istituzioni è stato garantito da un complice silenzio sui misteri della Repubblica “confessati” da Moro ai suoi carnefici. A partire dall’esistenza di Gladio. Lo scopo principale era quello, in sintonia con ambienti “atlantici”, di impedire al Pci di accedere al governo del Paese. Cinque commissioni parlamentari d’inchiesta (ora è al lavoro anche una sesta), cinque processi e alcune istruttorie archiviate. Sappiamo molto del rapimento e dell’omicidio di Moro e della sua scorta. Ma non abbastanza. «Conosciamo verità parziali, troppi aspetti sono rimasti nell’ombra a partire dalla questione più importante: la regia del sequestro e la rete di complicità operative sulla quale le Br hanno potuto contare», commenta Sergio Flamigni. Parlamentare del Pci dal 1968 al 1987, Flamigni è uno dei maggiori conoscitori della vicenda Moro, alla quale ha dedicato otto libri. Membro delle commissioni parlamentari d’inchiesta su Moro, Loggia P2 e Antimafia ha anche promosso un Centro di documentazione mettendo in rete (www.archivioflamigni.org) un’immensa mole di documentazione originale a disposizione di tutti. Nel suo nuovo libro, Patto di omertà. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro: i silenzi e le menzogne della versione brigatista (Kaos, 307 pagine, 18 euro), torna all’attacco della versione ufficiale contenuta nel memoriale dell’ex br Valerio Morucci, confezionato in carcere e benedetto dalla Dc per codificare una verità e salvare un segreto, quello di Gladio.
Patto di omertà tra le Br e chi in particolare?
«Il presidente Giovanni Pellegrino, nelle conclusioni della Commissioni stragi, ha scritto che c’è stato un silenzio pattuito tra istituzioni e brigatisti. Un patto che ha impedito l’accertamento della verità. Nel mio ultimo libro, parto da quella valutazione per verificarla e porre degli interrogativi, smontando il memoriale Morucci-Cavedon. È dall’inizio degli anni Ottanta che si cerca di mettere in gioco una verità di comodo, ufficiale, buona per il ministero degli Interni, per i servizi segreti e per le Br stesse».
La sua tesi è che il rapimento e l’omicidio Moro partono da lontano.
«Nel 1974 Moro, allora ministro degli Esteri, accompagnò il presidente Leone in un viaggio negli Usa, che, appena una settimana, prima avevano ammesso di aver favorito il golpe fascista in Cile contro Allende. Moro in quel viaggio affrontò un drammatico incontro con Kissinger, allora segretario di Stato, che gli ribadì la più ferma contrarietà all’ingresso del Pci nel governo. Nel suo memoriale dalla prigione, Moro scriverà che il nuovo orientamento pro arabo dell’Europa non piaceva agli Usa. Le Br di Moretti cominciano a progettare il sequestro del leader Dc nella seconda metà del 1975. Nello stesso periodo la loggia massonica P2 adotta la strategia del Piano di rinascita, in radicale opposizione alla Dc di Moro e naturalmente al Pci».
La situazione politica si evolve e nel 1976 il Pci arriverà al 34,4%, vicino al “sorpasso”.
«Nasce allora la teoria degli equilibri più avanzati e le minacce all’Italia si fanno più esplicite. Quando si riunisce il G7 a Portorico, al momento di discutere la situazione italiana, Moro viene platealmente allontanato. L’agenzia Ap scrisse che Usa, Germania, Francia e Gran Bretagna avevano raggiunto un’intesa per non concedere aiuti economici all’Italia qualora nel governo di Roma fosse entrato il Pci».
Le Br come si rapportano in questo scenario?
«Le Br sono lo strumento esecutivo del delitto, e hanno potuto contare di complicità o ne sono stati inconsapevoli ausiliari. Le sanguinarie Br di Moretti agiscono in piena consonanza strategica con l’allarmismo atlantico e la strategia deòlla P2».
Su via Fani e il resto cosa c’è ancora da sapere?
«Molto. Non sappiamo ancora, ad esempio, quanti fossero i killer in via Fani, i luoghi dove venne tenuto prigioniero Moro durante i 55 giorni, di quale apparato fu la regia dell’operazione del falso comunicato del lago della Duchessa e della scoperta del covo di via Gradoli. Ma non conosciamo ancora in quale luogo fu ucciso, e perché il cadavere fu abbandonato in via Caetani, nel centro di Roma».
Un patto del silenzio ben custodito per anni…
«Certo, un patto d’omertà per bloccare la divulgazione di aspetti decisivi. Perché ad esempio i terroristi hanno censurato le rivelazioni fatte da Moro durante la prigionia?».
A cosa si riferisce?
«Alla rivelazione dell’esistenza di Gladio anzitutto. Tra gli enigmi, non sappiamo dove siano le registrazioni audio e gli scritti originali di Moro, i verbali e gli appunti del comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza e quelli dei comitati di crisi che si riunivano al ministero degli Interni. E poi c’è la questione di via Montenevoso, il covo Br di Milano: perché non vennero verbalizzati tutti i documenti trovati nell’appartamento? Certamente per ragioni di Stato. Moretti mi confermò personalmente, in un colloquio in carcere, che ne mancava una parte perché “imboscata dai servizi segreti”».
Che cosa mancava?
«Quella parte del memoriale in cui si parla della strategia antiguerriglia della Nato, dei reparti di guerriglia e controguerriglia che rivelavano l’esistenza di Gladio. Per questo si deve chiedere quale ruolo ebbe questa struttura e gli apparati Nato durante il sequestro. Perché le Br accettano il volere dei servizi e osservano il segreto di Stato? Rigoroso silenzio anche su Andreotti e la Cia, i casi Barone, Sindona, Caltagirone e Giannettini, i finanziamenti alla Dc, la nomina di Medici alla Montedison e la situazione della stampa. Un patto d’omertà tra Moretti e settori dello Stato durato dodici anni, sino al 1990, quando verranno trovate, occultate in via Montenevoso, le fotocopie dei manoscritti di Moro. Dodici anni di segreto».
Gladio non doveva essere nominato e coinvolto?
«Sì, evidentemente è una delle prove del patto di omertà. Ma torniamo in via Fani. Nel libro spiego che al momento della strage si stagliava l’ombra di Gladio. Cito circostanze: le due auto presenti sulla scena, sul lato destro la Austin Morris blu della Immobiliare “Poggio delle rose” in odore di servizi segreti e su quello sinistro la Minicooper del gladiatore Tullio Moscardi, già sabotatore di Stay-behind. Al numero 109 aveva sede la Impresandex, società vicina ai servizi e di proprietà della sorella di un colonnello addestratore Gladio a Capo Marrargiu. Che dire della presenza nei pressi di via Fani, al momento della strage, del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, istruttore di Gladio. Inoltre le perizie balistiche stabiliranno che furono sparati 31 proiettili di fabbricazione speciale identici ai quelli occultati nei depositi Nasco di Gladio».
Di questo i Br non parlano.
«Certo. Morucci e Moretti hanno sempre negato che in via Fani, ad esempio, si fosse sparato dalla parte destra perché hanno negato la presenza della famosa moto Honda. Io affermo che le Br in via Fani dovevano svolgere un ruolo solo ausiliario rispetto ad altri killer professionisti. Non uccidere Moro e massacrare invece la sua scorta sotto il tiro incrociato è roba da professionisti. Curiosamente i mitra di tutti i brigatisti si incepparono. In via Fani fu usato invece almeno il mitra di un killer estraneo alle Br e sparò il maggior numero di colpi. Quell’arma non è stata ritrovata».
Dunque le Br furono uno strumento?
«La procura generale di Roma, l’11 novembre dello scorso anno, ha scritto che le modalità della strage “non sono quelle ricostruite sulla base della ricostruzione di Valerio Morucci e sostanzialmente confermate da Mario Moretti”. Sia per quanto riguarda il numero dei brigatisti, ben più di 9 o 12, sia sugli altri partecipanti all’operazione, che potevano essere “agenti destabilizzanti infiltrati da strutture segrete paramilitari con funzioni di congiunzione tra gerarchie politiche e gerarchie militari unite nella lotta al comunismo”. Parole chiare. Così come si ritiene la presenza del famoso Camillo Guglielmi, gladiatore, “non casuale”».
29 settembre 2015