G.C.-
“Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo.”
Era questo, secondo Pippo Fava, lo “spirito del giornalismo”, espressione che diede il titolo anche a un suo articolo, quello in cui presentava la nuova linea editoriale del Giornale del Sud, di cui era divenuto direttore. Era la primavera del 1980: Fava era già stato caporedattore all’Espresso Sera, aveva già lavorato per la radio, per il teatro, era stato sceneggiatore, drammaturgo, scrittore. Aveva firmato interviste ai boss di Cosa Nostra, rendendosi così una figura chiave di quel panorama dell’antimafia che ancora zoppicava a definirsi, in assenza di una presa di coscienza generale sull’esistenza stessa della criminalità organizzata.
Pippo Fava andava controcorrente e comprendeva la pericolosità del fenomeno mafioso che, sapeva perfettamente, esisteva e impregnava tutto il substrato culturale siciliano. Riconosceva le infiltrazioni del cancro criminale all’interno della politica, delle istituzioni, dell’imprenditoria e del potere: per questo era un giornalista scomodo e, sotto la sua direzione, il Giornale del Sud, procedette per un percorso di coraggio e giustizia.
Finché Fava non si scontrò con poteri troppo grandi. Finché, cioè, la testata non finì nelle mani di nuovi “ambiziosi, astuti, pragmatici” imprenditori dediti all’editoria: erano Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo e Salvatore Costa. I primi due, nello specifico, potevano vantare frequentazioni con il capomafia Nitto Santapaola.
Iniziarono anche le intimidazioni e le minacce: almeno in un’occasione, la pubblicazione della prima pagina del Giornale del Sud venne censurata -in quell’edizione si denunciava alcune attività illecite del boss Ferlito- mentre, in un’altra circostanza, venne organizzato un attentato con una bomba contenente un chilo di tritolo. Non per questo, Fava si fermò e, di lì a poco, venne licenziato. Il Giornale del Sud stesso chiuse.
Ancora una volta, il potere criminale aveva tentato di schiacciare la giustizia e la verità. A fronte della perdita del lavoro, il giornalista decise di ricominciare da capo e, fiancheggiato dai suoi pochi collaboratori, cronisti giovani, a cui insegnare il mestiere, fondò una cooperativa, la Radar, con l’intento di intraprendere una nuova avventura editoriale. Nel novembre del 1982, i loro sforzi vennero ripagati: in quell’anno, infatti, uscì il primo numero de I Siciliani, storica rivista a cui, oggi, si ispirano pressoché tutte le pubblicazioni antimafia.
Attraverso esso, Fava e la sua redazione tornano a denunciare la grande criminalità: quella che, come spiegò lui stesso, aveva appigli nelle istituzioni, che inquinava la società civile, che attraverso rapporti e amici di amici riusciva a comandare la Sicilia e non solo: “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia”, raccontava infatti in un’intervista a Enzo Biagi. “I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante…”
Proprio nel tentativo di denunciare questa “onnipresenza” criminale, su I Siciliani Fava pubblicò l’inchiesta che, probabilmente, gli costò la vita: “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”. In essa, l’intellettuale metteva in luce le attività criminali di quattro imprenditori di Catania (Carmelo Costanzo, il già citato Gaetano Graci, che pure tentò di acquistare il giornale, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro) e di altri personaggi che, in quel periodo rappresentavano il potere, come Michele Sindona e, appunto, Nitto Santapaola.
Era troppo, per Cosa Nostra. Fava aveva dimostrato di non voler cedere, di voler continuare con quella che reputava una missione: raccontare la verità, tutta la verità, denunciare i meccanismi deleteri che si celavano dietro gli ingranaggi economici, politici e imprenditoriali. Raccontare cosa fosse, davvero, la mafia. E testimoniare come si potesse distruggere: attraverso la libertà stessa di parlarne, squarciando i veli omertosi e di succubazione che ricoprivano tutto.
Per questo, il 5 gennaio del 1984, nella sua Catania, dove si era trasferito nel ’43 e dove fino a quel momento aveva lavorato, Pippo Fava venne eliminato. Stava andando a prendere la nipote a teatro, non fece in tempo: fu raggiunto da cinque proiettili calibro 7.65 mentre si trovava ancora a bordo della sua auto. Freddato in mezzo alla strada, in un palese agguato mafioso, che il successivo processo decretò esser stato organizzato da Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori. Condannati all’ergastolo furono anche Aldo Ercolano come esecutore e il reo confesso Maurizio Avola.
Non così fu inizialmente per le istituzioni: sulle prime, come spesso accade nei delitti di mafia, infatti, si parlò di un omicidio passionale. Così fu per la stampa, per gli inquirenti e, ovviamente, per la politica, secondo cui, a Catania, la mafia non esisteva. Non era mai esistita. Fava era morto per “questione di femmine”. Oppure, come sostenne il sindaco della città, il democristiano Angelo Munzone, per problemi di soldi: l’omicidio sarebbe maturato nel contesto delle difficoltà economiche in cui versava I Siciliani e rifiuta di indire una cerimonia pubblica per i funerali di Fava. Così, alla funzione, parteciparono giusto i parenti e gli amici. Tra le istituzioni, soltanto il questore di Catania, alcuni membri del Pci e il presidente della Regione siciliana, Santi Nicita.
E i collaboratori, ovviamente. Gli stessi che nel numero successivo all’omicidio, salutarono così il proprio direttore:
“Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…
Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe».
Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale.
Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte.
Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato.
Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza.
Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a…
Ma forse non gliene hanno dato il tempo.
E questo è tutto.
Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.
Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni.
Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi.
Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli,
tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?”