Foto: Dijsselboem Jeroen
E, poi, dicono che uno si butta a sinistra…
Sì, è il caso di riconfermarlo. Perché in tempi di crisi, dove i capitalisti chiedono ai già poveri di fare ulteriori sacrifici, viene da arrabbiarsi (per non dire altro) perché a sostenere queste politiche sono esponenti che provengono da Stati europei (Olanda) che coprono gli evasori fiscali.
Infatti, come leggerete qui sotto, nello Stato a monarchia costituzionale (sic!) Olanda sono consentite queste operazioni di copertura ai capitali che invece di essere messi a disposizione della collettività, per reinvestirli in servizi e beni pubblici, prendono il “volo“.
Si sono chiesti pesantissimi sacrifici a paesi come la Grecia e non si è voluto mettere mano ad una delle vere cause delle povertà del mondo. Veramente singolare!
Troppo comodo chiedere sacrifici a chi ha già poco e non vedere, invece, chi “scappa con il bottino” sotto il naso.
Avevamo, in diverse occasioni su questo sito sottolineato l’importanza di avere giustizia sociale sostanziale e non formale, invece, di sentirci dire da un giornale (che proviene da un altro paese a monarchia parlamentare – sic!) come, nel 2007, ‘The Economist’ che l’Olanda si sarebbe classificata 3ª nella lista dei paesi più democratici del mondo. Grazie per la lezione ma invitiamo a guardare più in là del naso…
Naso che porta nelle tasche dei “soliti noti” visto che la proprietà del suddetto quotidiano, stando a quanto riportato da Wikipedia, appartiene a “Sir Evelyn Rothschild [che] è stato presidente dell’Economist dal 1972 fino al 1989 e ne detiene al 2007 la quota di controllo, insieme al FirstMark Communications International LLC e al quotidiano britannico The Daily Telegraph. Il 12 agosto 2015, Exor la holding della famiglia Agnelli, è diventata il primo azionista del settimanale economico inglese passando dal 4,7% al 43,4%.”
Una risposta al degrado che stiamo andando incontro, forse, c’è e sarebbe quella di avere un Partito Comunista Europeo che sia capace di vincolare gli Stati a formulare una Costituzione sociale nel Continente come quella italiana del 1948… Allora sì che dopo la musica cambierebbe.
MOWA
L’Olanda predica austerity, ma è il più grande paradiso fiscale al mondo
di MAURIZIO RICCI
Ottanta delle 100 più grandi aziende mondiali vi tengono una società che non è niente di più di un indirizzo su una cassetta delle lettere. Bermuda? Giamaica? Oppure le isole inglesi della Manica, Jersey o Guernsey? Niente affatto. Più vicino e più comodo. Basta arrivare ad Amsterdam. L’Olanda, il paese spesso più duro della Germania nel predicare austerità e disciplina di bilancio e nel deprecare il lassismo dei paesi mediterranei è, probabilmente, il più grande paradiso fiscale al mondo. Dal primo gennaio ha assunto la presidenza di turno della Ue e le parole del suo governo hanno, per questo, un peso anche maggiore. Ma la prossima volta che il suo ministro delle Finanze, Jeroen Dijsselbloem, come fa spesso, rimbrotta Tspiras e il governo greco perché esitano a riformare il proprio sistema fiscale, qualcuno dovrebbe ricordargli che la compagnia mineraria canadese Gold Eldorado non paga tasse in Grecia, grazie alla copertura fiscale olandese. Oppure, quando dall’Aja accusavano le banche cipriote per il riciclaggio di fondi russi qualcuno avrebbe dovuto far notare che, negli stessi mesi, studi legali olandesi tenevano, all’ambasciata nazionale in Ucraina, appositi seminari su come sfuggire alle tasse riparando in Olanda.
La cosa, del resto, nelle linee generali è nota. La Commissione europea ha appena definito illegali gli sconti fiscali che il governo dell’Aja ha concesso a Starbucks. E lo stesso Parlamento olandese ha chiesto al governo di adoperarsi per evitare
che il paese venga definito un paradiso fiscale. Ma le dimensioni del fenomeno sfuggono. Eppure, fanno impallidire non solo il Lussemburgo di Juncker, ma anche Bermuda e Jersey, i paradisi fiscali per definizione. Le cifre le racconta ora un economista olandese, David Hollanders, sul sito socialeurope.eu. Ad Amsterdam, ad esempio, hanno uffici anche i Rolling Stones e gli U2, ma, soprattutto, hanno, come loro, la cassetta delle lettere circa 12 mila società per un controvalore fiscale di 4 miliardi di euro. Nessun altro paese al mondo ha un valore societario così alto, riferito a dei puri e semplici indirizzi postali. Del resto, fra quelle 12 mila, c’è il Gotha della finanza globale: ottanta delle maggiori aziende mondiali e quasi metà delle 500 compagnie della classifica di Fortune. Chi si è stupito perché la Fiat, nella sua nuova incarnazione Fca, ha posto il quartier generale a Londra, ma la sede sociale a Amsterdam, adesso sa perché.
Cosa offre, infatti, l’Olanda alle 12 mila società? La prima cosa, come in Lussemburgo, è la possibilità di concordare un trattamento fiscale speciale direttamente con il ministero delle Finanze. Questi accordi sono rigorosamente segreti: neanche i parlamentari ci possono mettere il naso. La trovata geniale, però, riguarda le royalties, il meccanismo che crea ricchezza in particolare per i giganti di Big Tech, i quali incassano in questo modo sull’utilizzo dei loro software e delle loro piattaforme. Ma le royalties riguardano in generale il pagamento di tutti i diritti per lo sfruttamento di un marchio o di un format produttivo o commerciale (i caffè di Starbucks, ad esempio). Il punto chiave è che, in Olanda, le royalties non vengono tassate. Le società come Google, dunque, dall’Italia o dalla Germania, pagano royalties appositamente gonfiate alla propria “controllante” olandese, ottenendo così il risultato di abbassare i profitti a bilancio e le relative tasse sul fatturato realizzato in Italia o in Germania. Le royalties, poi, quando tornano nelle casse della società-madre (per esempio a Google in California) non possono essere più tassate, perché hanno già formalmente pagato le imposte in Olanda. Anche se l’aliquota era zero. Verrebbe voglia di chiedersi cosa direbbe Dijsselbloem se Tsipras suggerisse di applicare lo stesso schema, nella riforma fiscale greca.
(09 gennaio 2016)