Troppi soldi ci sono di mezzo perché Uber ceda a quelle che sono le legittime richieste dei conducenti di taxi che si riassumo nel voler rispettare le leggi in essere e impedire che la stessa utenza venga messa in difficoltà da guidatori improvvisati e non controllati.
Tanto è pessima la considerazione del lavoro altrui da parte del colosso statunitense Uber che, nella sua campagna di promozione sul web, arriva ad offendere chi svolge quella professione usando frasi decisamente discutibili del tipo: “Migliore, più rapido e più intelligente di un taxi“.
Domande, invece, ricorrenti poste ai sostenitori di Uber (o similari) a cui non vengono mai date risposte:
Una volta prenotata la corsa di Uber con la app i soldi versati vengono accreditati in un paese statunitense?
Se sì, vi sembra naturale che una società statunitense faccia lavorare in tutto il mondo e non versi le tasse nel paese dove viene esercitato il mestiere di autista per questa società?
Una volta fatto questo, domandatevi perché i guidatori, che si prestano alla logica di Uber, vengano pagati con mesi di ritardo?
Chi intasca, nel frattempo, gli interessi maturati dell’enormità di soldi di chi ha utilizzato Uber?
La uberizzazione del lavoro, sempre più debole, frammentato e meno soggetto ad essere tutelato, non è un’invenzione dei lavoratori ma dei capitalisti. I tassisti sono una categoria, volente o nolente, proletarizzata che, però, ha preso consapevolezza nel vedere come le multinazionali siano ingorde di far denaro ad ogni costo, “pagando“, spesso, politici accodiscendenti ai loro interessi.
Infatti, Shangai in Cina, ad esempio, quando si sono accorti della slealtà delle società Hailo e Uber di entrare nel mercato cinese stanno approntando decisioni per costringere gli sviluppatori di app di dirottare le domande dei passeggeri verso le compagnie di radiotaxi locali.
Se persino la Cina arriva a tanto vuol dire che le ragioni dei tassisti non sono poi così fuori luogo.
Non vi pare?
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