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Simone Pieranni
Cosa sta succedendo nel mondo del lavoro in Cina? Da un lato si assiste a un calo della manodopera, dall’altro a una diminuzione delle assunzioni in uno dei settori traino dell’economia, quello tecnologico. Infine ci sono gli aumenti, un vero e proprio raddoppio, degli scioperi e delle lotte dei lavoratori.
In Cina durante lo scorso anno, secondo l’Ufficio Nazionale delle Statistiche cinese (Nbs), il numero di lavoratori di età compresa tra i 16 e i 59 anni è sceso della cifra record di 4.87 milioni, a fronte di un calo di 3,71 milioni nel 2014.
Di questo fenomeno si è occupato anche il Wall Street Journal, secondo il quale si assiste anche ad un calo dei lavoratori migranti. «Il numero di persone che in genere lascia le loro città di origine per cercare lavoro in altre città è sceso lo scorso anno per la prima volta in 30 anni. La popolazione immigrata è diminuita di 5,68 milioni a 247 milioni di persone alla fine del 2015, secondo il Nbs».
Si tratta di una contrazione che sta facendo aumentare i costi del lavoro «erodendo un vantaggio competitivo che ha stimolato i settori manifatturieri e di esportazione per decenni in Cina».
Si tratta di un allarme lanciato con largo anticipo dai demografi, cui la dirigenza cinese ha provato a porre un freno, forse tardivo, attraverso la riforma della legge del figlio unico.
«Con i lavoratori che diventano più rari, diventano anche più esigenti, spingendo per salari più alti e maggiori vantaggi. Le proteste nel mondo del lavoro sono salite nel mese di dicembre a un record di 422 eventi, stando alla ong con base a Hong Kong China Labour Bulletin».
Lo scorso anno il gruppo ha contato 2.774 manifestazioni sul lavoro, molte delle quali legate a dispute salariali, il doppio rispetto al 2014.
Un’indagine annuale delle imprese in Cina, da parte della Camera di Commercio Americana in Cina, ha dimostrato che il 54 per cento delle società statunitensi riportano i costi del lavoro come una delle loro più grandi sfide per operare nel paese.
La fabbrica del mondo, dunque, sembrerebbe percorsa da conflitti e cambiamenti di natura storica. Analogamente nel mondo delle alte tecnologie si osservano fenomeni rilevanti: come riportato dal South China Morning Post, «le aziende tecnologiche leader in Cina – in precedenza propagandate come fonte di nuovi posti di lavoro – stanno assumendo meno persone, alimentando le preoccupazioni circa la disoccupazione, mentre il paese continua a tagliare l’eccesso di capacità nei settori tradizionali».
Il management della Tencent, con sede a Shenzhen, ha ordinato un blocco delle assunzioni. L’azienda ha specificato di «aver interrotto l’assunzione da parte delle agenzie di Risorse Umane tre mesi fa. Recluta personale sia autonomamente sia attraverso società di risorse umane».
La mossa della Tencent, insieme a quelle di Baidu e Alibaba, ha alimentato i timori in merito alla diffusa disoccupazione.
E il mondo del lavoro è scosso da una feroce campagna del governo contro le ong.
Come scrive Ivan Franceschini nel report Made in China, (in collaborazione con Tommaso Facchin e Laura Battistin e scaricabile su www.iscos.eu) «le ONG del lavoro sono percepite come una minaccia da un sindacato in forte crisi di legittimità, tanto più in quei casi – ancora relativamente rari, ma sempre più comuni – in cui queste realtà promuovono strumenti di lotta quali la contrattazione collettiva».
Il report fa anche un punto sulla situazione dell’anno appena passato, attraverso l’analisi dei dati statistici forniti da Pechino: «Se il reddito medio ha continuato a crescere, toccando i 2,864 yuan, un aumento del 9.8 per cento rispetto all’anno precedente, i dati sulla tutela dei diritti rimangono preoccupanti.
Nel 2014, il 40.8 per cento dei migranti lavorava più di otto ore al giorno, con l’85.4 per cento che superava le 44 ore settimanali previste dalla legislazione sul lavoro. Solo il 38 per cento aveva firmato un contratto di lavoro. Il tasso di partecipazione agli schemi previdenziali rimaneva bassissimo: il 26.2 per cento pagava l’assicurazione contro gli incidenti sul lavoro; il 17.6 pr cento l’assicurazione sanitaria; il 16.7 per cento il fondo pensione; il 10.5 per cento l’assicurazione per la disoccupazione; il 7.8 per cento il fondo per la maternità; il 5.5 per cento il fondo cumulativo per la casa.
Oltre 2 milioni di migranti si sono trovati con salari non pagati, per una media pro-capite di 9,511 yuan, un problema particolarmente diffuso nel settore edile».
27-01-2016
[Scritto per East online]