Oggi a Pisa si discuterà su queste tesi congressuali.
MOWA
3° CONGRESSO DELLE SEZIONI COMUNISTE GRAMSCI-BERLINGUER
«Per molti immaginare un mondo basato sull’altruismo e la solidarietà è impensabile perché ingannevolmente convinti dell’innato egoismo dell’uomo. Noi da comunisti invece crediamo che l’uomo impara ad essere egoista in una società – basata sul capitalismo – che ha come fondamenti l’egoismo appunto, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l’utilizzo delle persone, come fossero merce, per proprio tornaconto; così come lo stesso uomo imparerebbe solo a grugnire se cresciuto in mezzo ai maiali.»
Mai come oggi il mondo si trova a far fronte contemporaneamente a diverse crisi: crisi economica, finanziaria, occupazionale, migratoria, ambientale, crisi energetica e in ultimo crisi delle forme di rappresentanza. Naturalmente tutte queste crisi sono il risvolto, il sottoprodotto inevitabile della crisi del sistema politico-economico che regge la stra-grande maggioranza dei paesi del mondo: il capitalismo. Crisi di sovra-produzione che poi diventa crisi finanziaria e via discorrendo… Se non riconduciamo queste problematiche alla loro causa sistemica perdiamo inevitabilmente di vista sia la loro effettiva gravità sia la loro eventuale soluzione. Appare chiaro che la soluzione non può certo venire rimanendo nell’alveo dell’attuale sistema economico. Poiché in un sistema che tutto mercifica compresi gli esseri umani stessi in nome del profitto tout court la soluzione non può essere contemplata. Le attuali crisi non possono essere risolte nell’ambito di una generica quanto palliativa ridefinizione del capitalismo stesso attraverso un processo infinito di adattamento violento ai suoi stessi fallimenti. Alle domande forti che il pianeta Terra e la società civile pongono ai governi nazionali e alle istituzioni sovranazionali vengono date risposte sempre più deboli e elusive. Ciò di cui c’è bisogno invece è di risposte forti capaci di guardare più in là della crisi. Risposte che abbiano la forza e la lungimiranza di ridefinire gli orizzonti per una trasformazione sistemica sostenibile. Nel passato il socialismo e il comunismo sono state una risposta forte di respiro globale, che ha messo in discussione i fondamenti del capitalismo riuscendo anche a sovvertirlo e a dimostrare concretamente che un’altro mondo fosse possibile. Purtroppo quelle esperienze hanno avuto il limite di non essere riuscite a spezzare definitivamente i rapporti di produzione basati sul lavoro salariato e sulla circolazione monetaria e sono crollate sotto il peso della burocrazia di stato. Un altro limite fondamentale di molti movimenti comunisti, traviati dal revisionismo sovietico post-staliniano, fu quello di non aver considerato la grande diversità umana, intesa in termini soprattutto socio-culturali. Si è cercato erroneamente di imporre delle teorie politiche rigide e preconfezionate, incentrate sull’idea anti-dialettica di “partito guida” (PCUS), basate su dogmi stantii, senza tener conto delle peculiarità politiche, economiche e culturali nazionali. In questo il PCI invece si dimostrò all’avanguardia – per questo si entrò in conflitto con l’apparato burocratizzato e revisionista dell’Unione Sovietica post-staliniana – rivendicando la teoria dialettica gramsciana della “via nazionale al socialismo”. Da qui dobbiamo ripartire!
Dal solco teorico-pratico tracciato dal PCI che fu di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, unico partito comunista in Occidente capace di attuare in modo proficuo, a livelli di massa, la lotta di classe, frutto di una forte egemonia politica e culturale nel Paese.
SUL P.C.I.
«La nostra diversità rispetto agli altri è che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per la trasformazione della società e alla costruzione di una società di liberi ed uguali. Si vorrebbero partiti di sinistra che si limitassero a correggere qualche stortura dell’attuale sistema: noi non siamo quel tipo di partito e non lo saremo mai.» (Enrico Berlinguer, 1981, sui 60 anni del PCI)
La nostra posizione come Sezione comunista è molto chiara: non è possibile ricostruire in Italia un soggetto comunista senza riallacciarsi organicamente con l’impianto teorico-pratico che fu del PCI fino a Berlinguer; facendo al contempo una profonda analisi di quelle che sono state – o meglio non sono state – le formazioni comuniste, sia in Italia che nel mondo, nate dopo la caduta del muro di Berlino. La liquidazione del PCI avvenuta sotto i colpi infami di una grigia nomenclatura burocratizzata che ebbe tra i suoi massimi esponenti Napolitano, Occhetto, Chiaromonte, D’Alema non fu determinata da una esigenza storico-politica-culturale generale ma da una esigenza parziale e opportunistica di una dirigenza, che dopo la morte di Berlinguer abbandonò gli ideali comunisti e democratici per abbracciare senza remore l’impostazione liberal-sociale prima, quella liberista poi, imponendo la svolta della Bolognina che sancì in modo verticistico, tra lo stupore e il rammarico di gran parte della base, il passaggio definitivo all’ideologia liberale col PdS, Ds, PD. Con gli opportunisti cossuttiani, mascherati dietro un anacronistico filo-sovietismo revisionista e intricati negli affari economici – con cooperative (Movincoop) che a Milano hanno fatto affari con Berlusconi – a rimorchio e a tenaglia contro la base comunista e Berlinguer. Lo stesso Cossutta subito dopo pose le basi di Rifondazione Comunista – mai comunista nel suo percorso politico, così come tutte le sue filiazioni: Pdci, Sel, Pc di Rizzo, etc. – per convogliare e segregare in una specie “riserva indiana” i comunisti che si sentivano, a ragione, traditi dalla nuova dirigenza del Partito comunista Italiano snaturato nei DS, e cooptando al suo interno gran parte di quei partitucoli, Democrazia proletaria su tutti, che a parole si ponevano alla sinistra del PCI, ma che nei fatti erano portatori di una cultura azionista di matrice mazziniana e radical borghese.
L’attuale segretario di Rifondazione Comunista, ad esempio, fu dirigente in Dp fin da giovanissimo ma non può essere certo definito comunista; al massimo valdo-keynesiano.
A questo scopo, per la buona comprensione di ciò che è accaduto al PCI nel suo percorso, dal secondo dopoguerra fino al suo dissolvimento, la nostra sezione, grazie all’opera di ricerca dei compagni Paola Baiocchi e Andrea Montella e col supporto editoriale della compagna Micol Carmignani ha scritto è pubblicato il libro: Ipotesi di Complotto? Le coincidenze significative tra la malattia dei segretari del PCI e lo stato di salute dell’Italia, che è la summa del percorso politico fatto negli anni come sezione comunista; percorso teso alla ricostruzione dal basso del Partito comunista. In questo libro denso di argomenti si affrontano con minuzia di particolari, con fonti accuratamente accertate e con temperamento storico, questioni molto spinose, ma cruciali, della politica italiana del secondo dopoguerra, che vengono messi insieme in un quadro generale coincidente e illuminante; ponendo come riferimento ineluttabile e centro della discussione il PCI di Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer. La tesi principale del libro verte su una congiura orchestrata dalla masso-borghesia internazionale e nostrana (P2) per far terminare una delle esperienze politiche più grandi, più proficue, e più democratiche che l’Italia e l’Europa intera abbiano mai visto. Tutto il marciume che è stata la Seconda Repubblica ha avuto come presupposto la sparizione appunto del PCI. Il partito che più di tutti ha lottato contro il fascismo sia durante il ventennio che durante la Resistenza e ha dato un grande contributo per redigere la Costituzione Antifascista che rimane una degli esempi più fulgidi di diritto sociale nel mondo. Negli anni a seguire, fino al suo scioglimento, ha lottato, organizzando operai, impiegati, studenti, disoccupati, per superare il capitalismo, seguendo una propria via democratica, e arrivare così al socialismo senza perdere di vista la società reale e il suo contesto storico-sociale.
Nonostante la sua triste e immeritata fine il PCI rappresentò, nei suoi limiti – dovuti alla eccessiva tolleranza nei confronti dell’ala liberale amendoliana – un importante volano di miglioramento della società italiana con importanti conquiste di natura sociale, nella scuola, nella sanità e nei diritti sociali in generale che a oggi rappresentano l’unico esempio di politica realmente progressista e socialmente riformista in Italia.
Anche le campagne per diritti civili quali aborto e divorzio il PCI fu determinante. Come fu determinante, in ambito dei diritti sociali, per l’approvazione del dirotto dei lavoratori e del sistema sanitario nazionale.
E’ molto utile capire questi passaggi in chiave odierna, al netto di sterili e infantili radicalismi anarco-rivoluzionari che molti partiti sedicenti comunisti scimmiottano. Poiché se ce un modo per iniziare un cambiamento consapevole dal basso questo consiste nel contrastare la subdola quanto invasiva propaganda borghese, e i suoi pericolosi radicalismi, riappropriandoci come classe (lavoratrice si intende) delle giuste categorie marxiste-leniniste sulle quali va innestata una prassi incentrata sull’organicità al movimento operaio, sull’unità e sull’organizzazione, con quest’ultima che deve avere come pilastro incontrovertibile il centralismo democratico.
SUL CENTRALISMO DEMOCRATICO
«In ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità nel basso, cioè per la primitività politica delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo territoriale egemone (fenomeno del piemontesismo nei primi decenni dell’unità italiana). Il formarsi di tali situazioni può essere estremamente dannoso e pericoloso negli organismi internazionali (Società delle Nazioni).
Il centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l’organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e «induttiva», sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini). Questo lavorio continuo per sceverare l’elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l’azione politica concreta, l’attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati. Le formule di unità e federazione perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista, mentre conservano il loro veleno nella concezione burocratica, per la quale finisce col non esistere unità ma palude stagnante, superficialmente calma e «muta» e non federazione, ma «sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica di singole «unità» senza nesso tra loro.» (A. Gramsci, Quaderno XIII, § 36 )
Ci sono state tante suddivisioni tra i comunisti nel mondo fin dalle origini del suo movimento. Le tante sigle e le tante suddivisioni in Italia possono essere inglobate fondamentalmente in due tendenze principali che si rifanno ai politici che le hanno teorizzate: Gramsci e Bordiga. La prima distinzione tra i due sta nell’interpretazione dell’ordinamento del partito. A tal proposito riteniamo che ciò sia cruciale nella vita e per la vita di un partito comunista poiché ne determina l’impostazione democratica, dalla quale discende tutto il resto: prassi e teoria. La differenza di ordinamento a cui ci riferiamo è quella tra «centralismo organico» e «centralismo democratico» che caratterizzò già il Congresso di Lione del partito comunista, con la contrapposizione tra Gramsci e Bordiga. Andiamo a vedere “nel dettaglio” cosa si intende per centralismo democratico e centralismo burocratico: il ‘centralismo democratico’ è connotato dall’essere, come dice lo stesso Gramsci, un “centralismo in movimento”, «cioè una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell’apparato di direzione che assicura la continuità e l’accumularsi delle esperienze.» Il «centralismo organico» (o burocratico), si fonda invece sul presupposto che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati a prescindere, e pertanto ‘devono’ averne il consenso, cioè deve verificarsi l’identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti. Questa impostazione può essere utile e necessaria in organismi la cui caratteristica predominante sia un sistema dottrinario rigidamente e rigorosamente formulato e che esercita quindi un tipo di direzione “castale” e sacerdotale, come è per la Chiesa cattolica, per la quale ogni forma di intervento dal basso sarebbe elemento disgregatore. Ma per altri organismi, scrive Gramsci: «è quistione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli anche se ciò provoca un’apparenza di disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva non si forma se non dopo che la molteplicità si è manifestata attraverso l’attrito dei singoli». Appare qui esplicita la critica alle tesi del II congresso (Roma) del partito comunista e alla concezione bordighiana, settaria, del partito. In quelle tesi si affermava che «coscienza e volontà» non si possono pretendere dai singoli militanti; esse risiedono nell’«organismo collettivo unitario»: in altre parole, come ebbe a scrivere Gramsci nel 1925 ricordando quelle tesi, «la centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il comitato centrale, anzi il comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo». Una concezione che non può avere altra conseguenza se non l’isterilirsi di ogni attività dei singoli, la passività delle masse del partito e «la ebete sicurezza» che tanto c’è chi a tutto pensa e a tutto provvede (lettera a Togliatti e Terracini del 9-11-1924). «Non si è concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualcosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell’ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all’azione». Le annotazioni di Gramsci si inquadrano in un orizzonte più ampio: non solo la concezione della democrazia in un partito, ma la concezione stessa del partito in rapporto alla società, il problema del rapporto tra partito e Stato, della dittatura del proletariato, del consenso, della egemonia. Come Lenin aveva dimostrato a proposito del partito rivoluzionario il «movimento» del centralismo democratico non è solo il risultato di costanti rapporti bilaterali fra vertice e base, ma proviene anche dal costante adeguamento alla situazione storica concreta, grazie all’estrema elasticità della sua struttura, che è nello stesso tempo estremamente salda, e che è in grado, attraverso l’attività pratica del suo «stato maggiore», di trasformare le informazioni che vengono dalla base in linea politica coerente, che sarà liberamente accettata e liberamente seguita da ciascuno. Ma nella concezione gramsciana, lo è anche perché, attraverso il centralismo, emerge il rapporto organico fra organizzazione e masse, cioè fra intellettuali e base . Per concludere: il centralismo burocratico ha perso l’elemento democratico organico dell’organizzazione. Consegue per esempio a un irrigidimento dei rapporti all’interno del partito; lo stato maggiore, non più collegato con la base, diventa allora una sfera autonoma, una «consorteria angusta che tende a perpetuare i suoi gretti privilegi». Questa «manifestazione morbosa», resa possibile dalla scarsa maturità politica della base, si traduce in una rapida degenerazione delle organizzazioni contaminate la cui sfera dirigente rappresenta ormai solo se stessa e agisce solo in funzione dei propri interessi. Il centralismo burocratico si fonda su una visione statica, dogmatica e meccanica della realtà, che si presenta come un dato immutabile e obbiettivamente compiuto. Mentre il centralismo democratico richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati; il centralismo burocratico finisce per dimenticare l’autentica unità concependola come un «sacco di patate», cioè, usando le parole di Gramsci, una «giustapposizione meccanica di singole “unità” senza nesso fra loro». Ad oggi è innegabile che il centralismo democratico sia la maggiore espressione di democrazia interna a un partito. Esso l’unico sistema che garantisce, se ben usato, in tutte le istanze politiche, sindacali e consiliari, garanzia di democraticità fintantoché la segreteria segue la base e viceversa. Il centralismo democratico quindi è caratterizzato da un osmosi dialettica tra vertice e base, che conferisce unità di intenti all’azione politica evitando il frazionismo. Oggi invece possiamo constatare amaramente come tutti i partiti, indistintamente, da destra a sinistra siano basati sul centralismo burocratico (nelle sue tante sfumature): i dirigenti emanano e la base stolida accetta. Noi da comunisti non potremo mai accettare questa visione anti-dialettica e autoritaria.
SUL REVISIONISMO STORICO
«Il sogno della democrazia è di innalzare il proletariato al livello di stupidità che ha già raggiunto la borghesia.» (G. Flaubert)
Per ottenere questo istupidimento di massa la borghesia o meglio la classe dominante porta avanti una certosina quanto inesorabile opera di falsificazione della storia, che va sotto il nome di revisionismo storico, dal quale discendono direttamente il revisionismo politico e culturale. Il revisionismo storico è un’azione proditoria nei confronti della storia, che non viene valutata più secondo parametri materialistico-dialettici, quindi scientifici, ma idealistici e addirittura metafisici. Il materialismo dialettico è la legge generale, l’alveo in cui dovrebbe muoversi il processo scientifico. In ambito comunista, il revisionismo, rappresenta il progressivo allontanamento dall’analisi e dalle categorie marxiane e leniniste; teorie che con Bernstein, a fine ottocento, danno via via sviluppo alla socialdemocrazia. Lenin a tal proposito scriveva: «Nel campo della filosofia il revisionismo si è messo a rimorchio della “scienza” professorale borghese. I professori “ritornano a Kant”, e il revisionismo si trascina sulle orme dei neokantiani; i professori ripetono le trivialità pretesche, rimasticate mille volte. Si è detto che le crisi sono oggi divenute più rare, meno acute, e che con ogni probabilità i “trusts” e i cartelli daranno al capitale la possibilità di eliminarle del tutto. Si è detto che la «teoria del crollo» verso cui marcia il capitalismo è una teoria inconsistente, perché le contraddizioni di classe tendono ad attenuarsi, ad attutirsi. Si è detto, infine, che non è male correggere la teoria del valore di Marx secondo gli insegnamenti di Böhm-Bawerk.[…] Per quel che concerne la teoria delle crisi e la teoria del crollo, per i revisionisti le cose sono andate ancor peggio. Soltanto per un brevissimo periodo di tempo e solo persone di vista ben corta potevano pensare a rimaneggiare i princípi della dottrina di Marx sotto l’influenza di alcuni anni di slancio e di prosperità industriale. La realtà ha dimostrato ben presto ai revisionisti che le crisi non avevano fatto il loro tempo: alla prosperità ha tenuto dietro la crisi. Sono cambiate le forme, l’ordine, la fisionomia delle singole crisi, ma le crisi continuano a essere parte integrante del regime capitalista.» Nonostante le continue e ripetute detrazioni, Marx, piaccia o no, rimane di grande attualità come nessun altro filosofo ed economista della storia dell’umanità, tant’è che siamo qui a parlarne; e lo stesso accadrà anche tra mille anni. Il revisionismo viene portato avanti in special modo dagli intellettuali che ne hanno più di altri “l’autorità” per farlo, ma viene favorito anche in modo subdolo attraverso la diffamazione di eventi e personaggi storici e politici praticata attraverso i media che in piccole dosi riescono ad insinuare il dubbio e la menzogna nell’opinione pubblica che poi viene definitivamente traviata dall’opera di revisione più articolata fatta dagli intellettuali al soldo dei potenti. Il comunismo per la classe dominante rappresenta l’unico vero nemico, l’unico procedimento realmente rivoluzionario capace di spazzarla via come ha già fatto; unico movimento nella storia. Per questa ragione il comunismo e i comunisti sono dipinti come caricature, perché in vero la borghesia ne ha una paura matta e cerca così di svilirli, diffamarli. Stalin diventa un dittatore sanguinario che fa il paio con Hitler, Lenin uguale, Marx un visionario e così via. Per questo è importante che ognuno di noi si informi adeguatamente sugli avvenimenti della storia e della attualità; spazzando via dalla nostra strada ogni falsificazione. Una grande rivoluzione sociale è possibile solo se ognuno di noi fa anche una piccola rivoluzione individuale.
SULL’ANTIFASCISMO
«Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dall’ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti.» (P. Togliatti)
Il fascismo non è un’opinione ma un crimine terribile contro la democrazia e la libertà, per questo non dovremo mai smettere di mobilitarci intorno ai principi della solidarietà sociale, della democraticità e del sano patriottismo che hanno caratterizzato la Resistenza partigiana, il più grande grande fenomeno popolare della nostra storia a cui dobbiamo la liberazione dal terribile spauracchio del nazi-fascismo. Prendere posizione contro ogni fascismo è un dovere per ogni cittadino che ami le libertà sociali e individuali e che rifiuti l’ideologia sistematica della violenza, del razzismo, dell’omofobia. La questione dell’antifascismo è cruciale e sempre più d’attualità non solo per porre un argine al proliferare sul territorio nazionale di gruppi “fascistoidi” che ammorbano il tessuto sociale e culturale, con i loro principi mortiferi, ma soprattutto perché gli intendimenti fascisti, caratteristici di una visione statuale aziendalistica, quindi individualistica, stanno permeando in modo subdolo l’impostazione dello stato, stravolgendone la democraticità di base. Lo vediamo dalle modifiche apportate, e quelle che apporteranno, alla costituzione – antifascista appunto – in senso classista e autoritario, che stanno portando via via, in modo progressivo e inesorabile, le istituzioni politiche democratico-repubblicane a forme “fascistiche” di accentramento (abolizione del senato, presidenzialismo, governatorati regionali, sindaci sempre più assimilabili a podestà) con sempre maggiore potere autoreferenziale a discapito della collettività e della società civile. Istituzioni tese a stravolgere e svilire la sanità pubblica e l’istruzione pubblica (prossima riforma paventata da governo Renzi) a favore di forme verticistiche di ispirazione aziendale.
Sappiamo bene che i fascisti nel periodo di crisi del capitalismo e di conseguenti “controriforme” alzano la testa legittimati dal potere dominante capitalistico, del quale loro rappresentano (come le mafie) nient’altro che stolido braccio armato, per difendere con la forza bruta lo status quo. Ma noi scenderemo sempre in piazza per impedirglielo. Bisogna impedire infatti che questi “gendarmi” del potere costituito abbiano voce in capitolo, poiché hanno fatto parte della storia più retriva e antidemocratica di questo paese: prima portandolo alla rovina e alla guerra nel ventennio fascista, poi, foraggiati e addestrati dalla Nato e da centrali dell’eversione come l’Aginter press e Stay behind (Gladio) in ottica anticomunista, sono stati artefici insieme ai servizi segreti nazionali e americani della strategia della tensione che ha destabilizzato, con grande spargimento di sangue, il paese da nord a sud. Il fascista per sua natura d’altronde ha bisogno per sentirsi utile di sottomettersi a qualche autorità. Il fascista è un uomo abbruttito nell’intimo, rigettato dal futuro, la cui rozzezza è caratteristica di chi disprezzando ciò che non comprende cerca di distruggerlo attraverso l’atto violento. L’ideologia fascista ha una unica caratteristica fondamentale: riuscire a far sentire valorosi i servi idioti del capitale. Tanto più uno è idiota tanto più il fascismo lo fa sentire orgoglioso di sé.
SULLA COSTITUZIONE
«…la Costituzione non deve essere confusa con un programma. Ciò vuol dire che tra un programma e la Costituzione vi è una differenza sostanziale. Mentre il programma parla di ciò che non esiste ancora, che deve ancora essere ottenuto e conquistato nell’avvenire, la Costituzione, al contrario, deve parlare di ciò che esiste già, che è già stato ottenuto e conquistato, adesso, nel momento presente. Il programma riguarda, soprattutto l’avvenire, la Costituzione riguarda il presente». (Stalin, Questioni del Leninismo, Roma, 1945, Vol. II, pag. 247).
Mi sembra però che nel momento presente noi siamo costretti a distaccarci da questa norma, e che ciò derivi dal carattere stesso del periodo che il nostro Paese sta attraversando. Non è avvenuta, tra di noi, una rivoluzione la quale abbia violentemente distrutto tutto un ordinamento sociale gettando le basi di un ordinamento nuovo. È crollata, sotto i colpi di un’azione popolare e di una offensiva militare condotta dalle grandi Nazioni democratiche col nostro concorso efficace, la tirannide fascista. Sono state, quindi, riconquistate le libertà politiche dell’uomo e del cittadino, e il fatto che queste libertà vengano scritte nella Costituzione ha veramente valore di registrazione e sanzione di una conquista in atto. Per quanto si riferisce, invece, alle trasformazioni sociali, si può dire che è in corso nel nostro Paese un processo rivoluzionario profondo, il quale, però, per comune orientamento delle forze progressive, si svolge senza che sia abbandonato il terreno della legalità democratica. Attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa, noi ci sforziamo di realizzare quelle modifiche della nostra struttura sociale che sono mature sì nella realtà delle cose che nella coscienza delle masse lavoratrici. Per questo parliamo ormai tutti o quasi tutti non di una democrazia pura e semplice, ma di una «democrazia progressiva», e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto ch’essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato nella legalità.» (P. Togliatti, La nascita della costituzione)
La Costituzione italiana nata dalla Resistenza con una forte impronta antifascista e sociale è stata sotto attacco fin dal suo nascere. Ma mentre fino a quando all’opposizione parlamentare c’è stato un PCI forte a egemonia comunista nessuna sua riforma è mai riuscita a passare, una su tutte la legge truffa del 1953 con la quale la DC voleva introdurre l’antidemocratico sistema elettorale maggioritario a discapito del proporzionale puro. Oggi, non essendoci in parlamento una opposizione comunista forte e coesa, la Costituzione sta cadendo miseramente sotto i colpi di ennesime “leggi truffa” attuate e votate trasversalmente da partiti illegittimi, che siedono illegittimalmente in parlamento ormai delegittimato, con uno stato retto da governi illegittimi i quali, oltre a non aver ricevuto alcun mandato dal popolo, si muovono in regime di piena incostituzionalità.
L’attuale stravolgimento della nostra Costituzione, che ne riscrive ben 49 articoli, comporta una profonda trasformazione della democrazia nata dalla Resistenza, è frutto di un lungo attacco compiuto dalle classi capitalistiche dei Paesi del blocco occidentale, con alla testa quelli anglosassoni. Era teorizzato nel rapporto della Trilateral Commission La crisi della democrazia, uscito nel 1975, in cui si affermava che «Un eccesso di democrazia significa un deficit di governabilità» e che «l’indebolimento del potere dell’influenza americana negli affari mondiali è direttamente legata alla crisi della governabilità» e che quindi è necessario aumentare il potere dei governi e creare una disaffezione nei cittadini alla partecipazione democratica, per non «sovraccaricare il sistema politico con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano l’autorità». Questo progetto fatto da una élite autoproclamatasi governo mondiale, ma non eletta da nessuno, ha trovato la sua applicazione nel nostro paese nel Piano di rinascita democratica della loggia massonica P2 e con la sua scoperta si è evidenziato che in Italia era in corso un progetto eversivo di trasformazione in una Repubblica di stampo autoritario ed elitario, della nostra società incardinata su una Costituzione fondata sulla pace, il lavoro e l’eguaglianza sociale. Questo piano eversivo ha il suo terminale nel governo Renzi, che sta attuando il ribaltamento totale di questi tre principi fondamentali della nostra Costituzione. Punto centrale del progetto è stato spostare la sovranità dal popolo, espressa tramite il voto proporzionale puro, verso organismi esecutivi come il governo, il presidente del Consiglio e, in una probabile fase successiva, verso il presidente della Repubblica, operazione passata attraverso l’introduzione dell’incostituzionale sistema maggioritario a premi, avviata dalle pressioni sul Parlamento del presidente Francesco Cossiga che, nel 1991, ha “ordinato” una profonda revisione della Costituzione per modificare la forma di governo, di Stato e l’indipendenza della magistratura, a cui tutti si sono accodati. Da quel momento in poi le segreterie dei partiti, ma in particolare il segretario, hanno acquisito il potere di decidere chi si deve candidare alle elezioni, svuotando di potere decisionale nella scelta dei candidati le strutture territoriali dei partiti; facendogli perdere la funzione selezionatrice dal basso verso l’alto e di raccordo democratico tra eletti, Parlamento e territorio. Un colpo mortale alla democrazia. La forma di governo parlamentare introdotto dalla Carta del 1948, è l’unica in tutto l’Occidente che dà centralità al Parlamento come proiezione della dialettica tra le forze sociali e le forze politiche portatrici della sovranità popolare. Nell’art. 12 del disegno di legge Boschi viene trasformato l’art. 72 della Costituzione, introducendo di soppiatto il dominio del governo sul Parlamento, affermando che «il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di 70 giorni dalla deliberazione». Ricalcando il potere, introdotto dal fascismo nel 1925, di determinare la formazione dell’ordine del giorno della Camera in nome del primato del capo del governo sull’assemblea parlamentare; passaggio legislativo che ha determinato la nascita della dittatura fascista, dove tutto il potere era in mano al capo del governo, cioè del Dux. Questo progetto, che per chi siede al governo e lo sta perseguendo, è un tradimento del giuramento fatto alla Costituzione e alla Repubblica democratica, mina gli interessi del popolo italiano, ed è funzionale al blocco egemone del capitalismo internazionale, che persevera nella sua azione devastatrice della nostra democrazia, come dimostrato nel report del 28 maggio 2013 della banca statunitense J.P.Morgan, in cui afferma che le cause della crisi economica in Europa sono da ricercare, non nei limiti strutturali del sistema capitalistico, come le crisi di sovrapproduzione, ma nei sistemi politici dei paesi europei del Sud e soprattutto nelle loro Costituzioni, che risentono troppo delle idee socialiste e antifasciste del dopoguerra: «Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (…). Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea». E’ certo che le formazioni politiche che siedono oggi in Parlamento e che dirigono il governo, non sono portatrici degli interessi generali della nazione: lo manifestano nell’aver trasformato il Senato in un organismo lobbistico che non rappresenta tutto il popolo italiano, ma fa da tramite fra interessi particolari locali e le lobbies europee. Tanto da aver eliminato dall’articolo 67 della Costituzione che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione» preferendo, per ovvii motivi, «I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato». Affermando contemporaneamente nel modificato articolo 55 che solo i deputati hanno il compito di rappresentare la Nazione. Creando di fatto una situazione conflittuale di dualismo di potere. Nella nostra Carta sono sanciti principi universali, come il diritto al lavoro, la pace, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, l’economia al servizio dei cittadini, la parità tra i sessi, il diritto d’asilo, la giustizia sociale, l’istruzione e la sanità uguale per tutti, il diritto alla casa, la protezione dell’ambiente ecc., diritti sociali che sono stati attaccati dalle forze che fanno riferimento al capitalismo, fin dal giorno dopo la promulgazione della Carta, considerata tra le più avanzate e democratiche al mondo, perché non vieta l’ipotesi di una società socialista ma, anzi essendo programmatica, indirizza proprio verso una società di quel tipo, per far evitare al nostro popolo gli effetti devastanti delle crisi capitalistiche. Principi per i quali il nostro popolo è stato oggetto di strategie terroristiche e criminali per impedirne l’attuazione. Da Portella della Ginestra a Piazza Fontana e Piazza della Loggia, alla strage alla Stazione di Bologna al caso Moro, fino alle bombe di Capaci e via D’Amelio, la Repubblica democratica nata dalla Resistenza ha dovuto difendersi da questa strategia eversiva, promossa e guidata da falsi alleati, come gli Usa e i paesi della Nato. È solo grazie ai movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta, con alla testa il Partito comunista italiano, che si è potuto resistere e mantenere in piedi l’impianto democratico costituzionale. È sotto gli occhi di tutti che le controriforme costituzionali che hanno modificato la Repubblica democratica fondata sul lavoro in una Repubblica basata sugli interessi dell’impresa, facendo saltare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, hanno approfondito la diseguaglianza sociale e quella giuridica, creando di fatto cittadini di serie A e di serie B. Si è persa la sovranità nazionale con il tradimento dell’articolo 11 della Costituzione, partecipando ai progetti di guerra offensiva Usa-Nato siamo diventati uno Stato fantoccio al servizio del comparto industriale-militare Usa e delle conseguenti mire dell’imperialismo americano in Medio Oriente, Africa, Est Europa e Asia. Tutto questo è avvenuto e avviene solo in ragione del fatto che i capitalisti e i loro alleati si muovono nella società attraverso formazioni elitarie ed autoritarie come la massoneria e suoi derivati – il Bilderberg, la Trilateral, l’Aspen, ecc. – che fanno del trasversalismo occulto la prassi sociale che consente loro di occupare tutti i partiti, i media pubblici e privati, le istituzioni, gli apparati militari e civili dello Stato, in dispregio dell’articolo 18 della Costituzione sulle società segrete. Creando in questo modo le condizioni politiche per l’avvento di quello che Karl Marx chiama dittatura della borghesia. I compagni delle Sezioni comuniste Gramsci-Berlinguer, raccogliendo le preoccupazioni e le indicazioni di lotta del compagno Salvatore d’Albergo, che ha dedicato tutta la sua vita a insegnare i profondi e inscindibili nessi esistenti tra la struttura economica e la sovrastruttura politica della nostra società e che aveva ben individuati i pericoli sociali derivanti dalle autoritarie e incostituzionali leggi che hanno investito il nostro Paese negli ultimi trent’anni (che hanno avuto un’impressionante accelerazione con i governi Berlusconi, Prodi, D’Alema, Monti, Letta, Renzi) come l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, chiamano, per il 15 di ottobre, il democratico popolo italiano e tutti gli antifascisti alla mobilitazione e alla realizzazione di una poderosa manifestazione, davanti al Parlamento, in difesa e rilancio della Costituzione sociale e antifascista con lo scopo di impedirne lo stravolgimento e con la richiesta esplicita del ritorno alle regole della Costituzione del 1948, con partiti di massa radicati nel territorio, al ripristino di elezioni politiche con suffragio proporzionale puro e l’eliminazione di tutte le leggi incostituzionali e antipopolari riguardanti la sovranità nazionale e gli accordi internazionali, ricorrendo anche all’uso degli strumenti di legge previsti in difesa della sovranità popolare e della democrazia denunciando tutti coloro che a livello internazionale e nazionale hanno: “Attentato contro la Costituzione dello Stato, articolo 283 del c.p.; prodotto una: Usurpazione di potere politico art. 287 c.p.; attuato: Attentati contro i diritti politici del cittadino art. 294 del c.p.; alimentato una: Cospirazione politica mediante associazione art. 305 c.p. Contro questo ennesimo attacco alla nostra Costituzione chiediamo al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di farsi garante della sua difesa.”
SITUAZIONE INTERNAZIONALE
«Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell’interesse del socialismo.» (Lenin)
E’ sotto gli occhi di tutti, almeno di chi ha occhi per vedere, la degenerazione politico-economica e culturale a cui è sottoposta la nostra società a causa dell’imperialismo. Gli esempi più recenti e lampanti sono le guerre in atto in Ucraina e Siria. In Ucraina dopo il colpo di Stato antidemocratico, appoggiato da USA e Germania, che ha destituito con la forza Janukovic è stato imposto un governo filo nazista e completamente assoggettato all’imperialismo americano.
Nella vicina Siria il conflitto in corso per far cadere il governo di Assad è un’altra dimostrazione dei tentativi occidentali di destabilizzare l’area medio-orientale per meglio assoggettarla alla propria politica economica, così come è stato fatto in Afganistan e Iraq. Questi conflitti portati avanti in Medio-oriente dall’imperialismo, americano soprattutto, hanno la loro ragion d’essere nell’operazione di accaparramento delle risorse energetiche di cui l’area è ricca, oltre che per la creazione di nuovi spazi di mercato con manodopera a bassissimo costo.
Quasi ogni paese del mondo ha subito in questi anni: aumenti della disoccupazione, tagli ai diritti fondamentali dei lavoratori, tagli allo stato sociale, tagli ai servizi pubblici, il tutto “promosso” dal Fondo Monetario Internazionale di concerto con la Banca Mondiale con la scusa, mendace, della necessità di risanare i debiti pubblici nazionali che per tutta risposta invece continuano a crescere, con immensa gioia dei grandi gruppi bancari, che si vedono pagare dagli stati, oramai strangolati (vedi Italia, Grecia, Spagna, etc.), astronomici interessi. Una manna dal cielo per i capitalisti che invece di investire nella produzione investono sui debiti, con profitti sicuri e certezze per il loro futuro garantite dalle nazioni, a discapito del futuro della stragrande maggioranza dei cittadini. Questo è un pericoloso corto circuito, un cul de sac, in cui l’economia globalizzata, basata sulla circolazione del denaro ancor più che delle merci, sta ricacciando il mondo. Le ricette promosse da governi complici delle banche non sono la cura ma gli effetti di questa malattia endemica del capitalismo. Siamo in ultima analisi di fronte ad una crisi perenne, che porterà i popoli alla bancarotta; popoli che coercitivamente convinti da una propaganda mediatica sempre più incalzante, si andranno convincendo – senza una contro-azione di un soggetto politico realmente popolare che spinga per un cambiamento di sistema – che la crisi è lo stato normale dell’economia, a cui rassegnarsi definitivamente, soggiogati così a fare sacrifici, vita natural durante, per mantenere lauti profitti ai loro carnefici.
Perciò è necessario lottare per nazionalizzare le banche per impedire la definitiva bancarotta dei popoli. La soppressione a livello internazionale di un’economia basata sul debito imperniata su un sistema monetario in questo senso è cruciale.
Nel mondo stiamo assistendo ad una recrudescenza dei conflitti bellici senza precedenti, le stime di Emergency parlano di 31 grandi conflitti attualmente in corso.
In Ucraina decine di migliaia di persone hanno perso la vita, oltre un milione di persone ha già lasciato il paese e hanno trovato rifugio in Russia. Svariate migliaia sono fuggite in Bielorussia. Questo è il risultato terribile delle guerre imperialistiche
Un manipolo di fascisti, col beneplacito, i soldi e le armi, delle sedicenti democrazie occidentali hanno messo a ferro e a fuoco una nazione più che mai divisa e spiazzata. I media volgarmente prezzolati hanno parlato, senza pesare le parole, di dittatura con il vile scopo di delegittimare il presidente Janukovic eletto con gli stessi metodi elettorali borghesi, e forse con gli stessi brogli, che sono in uso nell’Occidente iper-capitalista. Quello che è avvenuto in Ucraina è un vero e proprio golpe e non ha nulla di democratico, tutt’altro. Basta vedere le svastiche ostentate prima dai rivoltosi poi da alcuni membri del governo fantoccio messo in piedi dalla Nato. Governo che si è macchiato di infami episodi di squadrismo seviziando e uccidendo compagni e militanti del partito comunista Ucraino, che è stato vergognosamente messo fuorilegge.
Ciò che è successo in Ucraina dimostra ancora una volta che i fascisti sono sempre al servizio, come stolido braccio armato e violento, del grande capitale. Oggi più che mai nessuno lo può mettere in dubbio. Il fascismo non è affatto rivoluzione ma tremenda reazione.
Nell’ottica imperiale c’è bisogno di nuovi Stati da impoverire per il benessere della grassa borghesia tedesca e americana. Il gasdotto ucraino fa gola alla Germania, che spinge per avere sempre più autonomia energetica e rafforzare la sua economia a discapito della restante “povera” Europa. La questione dell’approvvigionamento energetico è cruciale per il predominio del Capitale. Gran parte delle guerre portate avanti e “sponsorizzate” dall’Occidente (con o senza ONU) guerrafondaio in giro per il mondo hanno questa caratteristica, quest’interesse di fondo. Lo scopo reale nascosto dietro il motivo ideale, è quello di depredare e assoggettare finanziariamente ed economicamente l’Ucraina così come è stato fatto con l’Italia, la Spagna, la Grecia e via discorrendo. E portare la Nato sempre più a ridosso dei confini della Russia come monito imperialistico.
Tentativi di destabilizzazione imperialistica sono in corso in molti paesi del mondo, due su tutti: Siria e Venezuela.
Le cosiddette “primavere arabe” in Nord Africa, scaturite da una maggiore presa di coscienza collettiva da parte di proletari e sottoproletari riguardo alle loro problematiche economico-sociali, hanno tentato di spezzare il giogo dei governi corrotti, che col beneplacito dell’occidente hanno affamato per decenni quelle popolazioni. Purtroppo la mancanza di un “fattore soggettivo” politico, un partito comunista forte, ha portato, nonostante i buoni propositi nati dal basso, dall’azione alla reazione, dalla rivoluzione alla controrivoluzione.
In Siria la guerra terroristica, finanziata dall’Occidente, da parte dei ribelli ha provocato diverse centinaia di migliaia, di cui quasi 100 mila bambini, e più di 3 milioni di rifugiati che vivono con grande disagio in campi di accoglienza, gran parte dei quali allestiti approssimativamente nei paesi limitrofi . Uno Stato sovrano, un presidente legittimamente eletto, una intera popolazione sono ostaggio di un manipolo di mercenari e terroristi di ogni risma, legittimati vergognosamente dagli stati occidentali con il supporto di una stampa di parte, che nasconde faziosamente i crimini perpetrati da questi senza soluzione di continuità nell’intero paese. Che hanno condotto attacchi con armi chimiche, come ad Aleppo, il grosso delle quali offerto dal governo reazionario turco di Erdogan sempre più scalpitante di brame imperialiste in stile ottomano. E per questo entrato in pieno conflitto con la Russia di Putin scesa in guerra in Siria per arginare l’avanzata di Daesh (Isis) contrastata solo a parole dalla Nato e dai suoi vassalli. Gran parte della stampa italiana e mondiale purtroppo non si sofferma nemmeno un secondo a riflettere e far riflettere sul sacrosanto diritto dei siriani, e di ogni popolo su questa terra, di vivere nel proprio paese, con il governo “laico” da “loro” eletto, senza guerre imperialiste e senza il timore di eventuali governi fantoccio, calati dall’alto, che farebbero solo, come si è visto in Iraq e Afghanistan, gli interessi delle multinazionali americane su tutte. Ci hanno riempito la testa con l’insensato, eufemistico ossimoro della “guerra umanitaria”, dell’esportazione della democrazia. Ma un paese che impone una guerra si può chiamare in ultima analisi democratico? Come può una guerra che dura anni e anni e che ha ucciso centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini; distrutto case, palazzi, ospedali, scuole e servizi essenziali per vivere dignitosamente, essere democratica e umanitaria? In vero i nostri paesi scelgono di fare la guerra per motivi meramente economico-strategici, un favore al grande capitale; motivi con i quali noi gente comune, noi proletari, non abbiamo niente a che fare. Desolatamente solo una piccola parte dell’opinione pubblica ha ancora messo a fuoco in modo chiaro il fatto che sostanzialmente il nostro paese è in guerra. Così come anche la Francia del resto. Il nostro paese è in guerra perché trascinato indistintamente dai governi scellerati di centro-destra, di centro-sinistra e di centro-destra-sinistra, o di “pappa e ciccia” che dir si voglia, supervisionati dall’”americano” Napolitano.
Ha partecipato, partecipa alle guerre in Afghanistan, Iraq, Libia; e prossimamente, se continua così, parteciperà ai “raid” contro Siria. Alla luce di ciò è inevitabile, consequenziale essere oggi un obiettivo sensibile del terrorismo o meglio della guerra in atto, a cui l’Italia sta dando il suo contributo in uomini e armamenti. Guerra della quale il terrorismo formalmente ne è il catalizzatore, il focolaio ma che nei fatti rappresenta la mera “giustificazione ideologica” degli USA – col beneplacito di un’ONU sempre più filoamericana – e del suo codazzo, per distruggere, imporre affari con le proprie multinazionali, delle armi e del petrolio in primis, e dominare.
L’ISIS in fondo è una creatura ben congegnata o mal congegnata, dipende dai punti di vista, dai servizi americani e sionisti. Ma questo “modus operandi” non è una novità di oggi. La storia del dopoguerra, in special modo, è piena di gruppi terroristici eterodiretti – attraverso governi e apparati statali conniventi, servizi segreti, fascisti, logge, occulte e non – che hanno agito su un doppio livello per conto della NATO in giro per il mondo, specie in Europa. Proprio quella NATO che poi finge di dar loro la caccia.
La Francia ha già patito per colpa dell’OAS (Organisation armée secrète) lo stragismo che ha lavorato al soldo guarda caso proprio della Nato.
Anche lo stragismo in Italia ebbe la stessa matrice.
L’Europa ha vissuto il periodo dello stragismo politico, in chiave anticomunista, ora è tempo dello stragismo religioso per scopi comunque politici. Con i popoli islamizzati del medio Oriente che patiscono, loro malgrado, sia le guerre imperialiste occidentali che la campagna d’odio orchestrata dai media.
E’ importante chiarire che il terrorismo non è uno “status”, non è essenzialmente un’organizzazione ma è un modo, una procedura, una tattica (meno convenzionale) per fare la guerra. D’altronde non è terrorista, al pari di un kamikaze, ad esempio una “cluster bomb” (bombe perfezionate in Italia da Finmeccanica per conto degli americani), o altre terribili sub-munizioni, sganciate da un velivolo “alleato” che fanno in mille pezzi i corpi dei civili? “Tu uccidi a me e io uccido a te“: questa è la sola logica perversa della guerra. Non ci sono guerre giuste, fatte con armi gentili, ma ci sono guerre fatte con armi terribili, sofisticate o artigianali, che uccidono in un modo o nell’altro; e i morti sono tutti uguali, anche se ai più non sembrerebbe.
Il cuore dell’Europa è stato aggredito perché l’Europa, sotto la folle egida americana ha attaccato altri paesi, è in guerra con altri paesi. Noi siamo a rischio attacco terroristico perché a nostra volta abbiamo attaccato altri paesi per accondiscendere i desideri “psicopatici” di dominio globale, di imperialismo guerrafondaio degli USA. Nonostante l’articolo 11 della nostra costituzione parli chiaro: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Allora perché siamo in guerra? Perché bombardiamo altri stati?
La ministra della difesa Roberta Pinotti, in uno slancio schifoso nei confronti della guerra, recentemente ha addirittura affermato: “bombardare non è più un tabù!”
In base a che cosa? Verrebbe da chiedere… Chi lo ha deciso? In nome di chi? Come è stato possibile? Queste domande ci danno in buona sostanza la misura del “golpe” politico-istituzionale in senso autoritario e antidemocratico che ha trasformato il nostro paese negli ultimi 30 anni.
Le masse d’altro canto non reagiscono, sono demoralizzate, disincantate, assopite, confuse, istupidite dalla propaganda di regime. Colpa di una politica che non coinvolge più perché lontana mille miglia dalla vita reale delle persone, che imbonisce e imbruttisce l’opinione pubblica utilizzando grevi slogan da bar. Classe politica, esecutrice dei potentati economici, miserabilmente persa tra personalismi, carrierismo, affarismo, corruzione e servigi alla grande borghesia. Che piange lacrime di coccodrillo quando per “colpa sua” muoiono persone innocenti lungo la strada per il mondo.
Un tempo si facevano manifestazioni oceaniche contro le guerre adesso ci si indigna sterilmente sui social network, barricati in casa come il “grande fratello massonico” desidera per controllare e instillare la paura. La finzione (funzione) dei social-network ci rende tutti protagonisti singolarmente e inutilmente, ma impedisce proditoriamente che una sana consapevolezza individuale evolva in consapevolezza collettiva e solidale per far valere così, nell’unico modo possibile, ogni rivendicazione sociale: la pace, il lavoro su tutti.
Le cose rimarranno uguali, anzi peggioreranno se non ci si oppone ai poteri dominanti, ai signori della guerra, con una strenua lotta di classe internazionalista e con l’organizzazione politico-sindacale. Ma per fare questo c’è bisogno di un fattore soggettivo, unitario e unificante; un partito dei lavoratori e delle lavoratrici, dei disoccupati e delle disoccupate, degli studenti e delle studentesse, un partito comunista; un solo partito comunista, nel solco delle elaborazioni marxiste e dialettiche di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer; che elabori una strategia attuale per riportare, attraverso l’unità e non il settarismo e il “codismo”, le masse proletarie protagoniste, e non più subalterne al grande capitale, nel dibattito politico, nazionale ed europeo, per così traghettarle verso un’altra idea di mondo possibile, realizzabile, necessaria: il socialismo-comunismo.
Le “sirene” dei media avvisano, di stare in casa, perché uno dei prossimi obiettivi del terrorismo globalizzato sarà l’Italia. Non ascoltiamole! Non lasciamoci intorpidire mente e cuore. Scendiamo in piazza e gridiamo forte il nostro no ad una disumana terza guerra globale capitalistica. Insieme siamo più forti e consapevoli. «I proletari non hanno niente da perdere se non le proprie catene ed hanno un mondo da guadagnare!» Proletari di tutto il mondo unitevi!
La nostra attenzione è rivolta sempre alla Palestina dove la protervia dello Stato “sionista” di Israele ha raggiunto livelli insopportabili. Pochi giorni fa è venuta fuori la notizia che sulla striscia di Gaza sono stati spruzzati erbicidi e pesticidi per avvelenare persone e suolo. Oggi possiamo dire senza timor di smentita, alla luce di quello che sta succedendo a Gaza e soprattutto dopo quasi 70 anni di indegna occupazione, che gli ebrei sionisti sono fondamentalmente razzisti. In nome dell’idea “malsana” di popolo eletto si auto-ghettizzano. Dio, dicono, è solo dalla loro parte e con ciò i sionisti giustificano le peggiori nefandezze nei confronti dei palestinesi senza alcuna misericordia. La terribile sventura della Shoah che gli ebrei hanno subito più che in un insegnamento si è trasformata in una stucchevole scusa dietro la quale nascondono le loro attuali infamie perpetuate come Stato “sionista” di Israele. Il Sionismo è una piaga culturale, sociale e politica, al pari del nazismo, che va sradicata. Gli israeliani sono per i palestinesi ciò che i nazisti furono per gli ebrei, con tanto di soluzione finale: Gaza è un enorme campo di concentramento dove gli israeliani praticano il terrore più turpe e degenerato, con armi sofisticatissime.
Tra i paesi capitalistici avanzati Israele è lo Stato che spende, in proporzione, più di tutti per le spese militari: 14.309.000.000 nel 2009 pari al 7% del PIL. Gli Usa spendono il 4,3% del PIL, la Gran Bretagna 2,5% , la Francia 2,3%, la Germania 1,3%, l’Italia 1,7% (80 milioni di euro al giorno). E i media del capitale depistano l’attenzione delle persone dai massacri delle armi sofisticatissime e potentissime degli israeliani agli artigianali razzi palestinesi.
I missili palestinesi, i cosiddetti Qassam (e le sue evoluzioni), sono dei missili rudimentali, più razzi che missili, fatti con materiale facilmente reperibile. Ad oggi sono l’arma più “tecnologica” (oltre al lanciarazzi sovietico BM-21, detto Grad, del 1961) in possesso dei palestinesi oltre alle pietre; e questo la dice lunga sul loro vero potenziale offensivo. Lo scontro di Davide contro Golia non rende appieno la differenza abissale di armamenti che esiste tra i due popoli. Dal 2000 (anno di ideazione) a prima di questo conflitto, questi razzi – dal 2011 facilmente intercettati dal sistema difensivo israeliano “cupola di ferro” (finanziato con 205 milioni di dollari, su pressione di Barack Obama) – hanno ucciso meno di venti persone, contro i migliaia – 1400 solo nell’operazione Piombo Fuso – uccisi dall’esercito israeliano, uno dei meglio equipaggiati al mondo, e dalle loro armi. Quando gli israeliani affermano che i palestinesi attentano al loro Stato mentono in modo indecoroso e vile, perché è Israele lo Stato che massacra senza soluzione di continuità i palestinesi e il loro diritto a esistere. L’Onu, gli Usa, l’EU fanno finta di indignarsi ma alla fine sempre e comunque si schierano con Israele nei fatti.
Noi siamo fortemente convinti perciò che Israele debba fermare senza se e senza ma l’occupazione e retrocedere dai territori indebitamente già occupati e mettere al bando il Sionismo. Per questo appoggiamo incondizionatamente la resistenza palestinese (fronte di liberazione) per la formazione di uno stato “unico” palestinese, laico e aconfessionale, dove finalmente, dopo tante vessazioni, il popolo possa prendere in mano il proprio destino. E per fare questo bisogna uscire dal pantano concertativo dell’Anp, che con la sua titubanza ha aperto spazio all’integralismo musulmano. Parte del problema non certo la soluzione.
Il nostro appoggio incondizionato va alla resistenza Kurda e in particolare alle donne di Kobane che stanno avendo un ruolo importante nella lotta contro l’Isis in Siria. Siamo convinti che i Kurdi debbano avere finalmente un loro Stato e noi nel nostro piccolo daremo il nostro contributo affinché ciò si realizzi nel socialismo-comunismo.
SITUAZIONE ITALIANA
«Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia (liberale) lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna.» (L. Sciascia)
La situazione politico-economica italiana ha i tratti comuni di quella che è la nuova ridefinizione dell’ordine mondiale, alla quale sono sottoposti molti stati, politicamente subordinati all’imperialismo americano e che inevitabilmente hanno perso la loro sovranità statale. Ciò avviene attraverso il grimaldello della UE, del FMI, della Banca Mondiale, del Wto e della Nato. In questo senso l’Italia è un laboratorio dove si stanno sperimentando teorie eversive (vedi Trilateral Commission, Aspen Institute) che mirano a un sistematico svuotamento della democrazia in favore di esecutivi elitari calati dall’alto da un potere “oscuro” (masso-capitalisti); allo smantellamento delle Costituzioni che pongono un freno democratico al liberismo e al dominio dei mercati sulle persone; alla privatizzazione e alla svendita selvaggia del patrimonio pubblico industriale, territoriale, immobiliare e artistico; alla distruzione della sanità e della scuola pubblica in favore di quelle private a pagamento; all’eliminazione del principio di sussidiarietà statuale sostituito da un generico federalismo che paradossalmente strangola gli enti locali impoverendoli.
Quello che oggi ci viene “spacciato” per riforme non sono altro che controriforme reazionaria tese ad annullare un secolo di conquiste politico-sociali ottenute con sacrificio dalla classe lavoratrice e garantite da una Costituzione realmente progressista e pacifista, sempre più svilita dalla politica contemporanea. La parola riforma non conserva più niente del significato originario. Le riforme in passato erano anche le parole d’ordine di una sinistra rivoluzionaria come il PCI, per trasformare il capitalismo nel senso di una maggiore uguaglianza e di una maggiore giustizia sociale in ambito democratico in modo da arrivare progressivamente al socialismo-comunismo. Oggi invece sono diventate il grimaldello di una politica venduta (PD) ai padroni per scardinare istituzioni e diritti introdotti dalla democrazia contro la democrazia stessa in favore di un capitalismo sempre più predatorio. Il concetto di riforme si è più che capovolto. Nella tradizione della sinistra comunista le riforme hanno significato in passato un miglioramento della classe di riferimento: i lavoratori; oggi invece collimano con un peggioramento reale: meno diritti per i lavoratori, smantellamento dello stato sociale, tagli alle pensioni e una ulteriore ridefinizione del reddito a vantaggio dei ricchi. Questo capovolgimento di significati è la base per il consenso e quindi per il potere, dittatoriale (oggi si può dire più che mai), della borghesia, che grazie al dominio totale e totalitario dei mezzi di informazione ci convince ad abbracciare i suoi antidemocratici ideali, nichilisti, edonisti, individualisti, veicolo per discretizzare e atomizzare la società tutta, che in tal modo viene sterilizzata da ogni idea di cambiamento rivoluzionario non allineato con gli interessi del grande capitale. Ciò agisce come base di appoggio fondamentale per instaurare un definitivo ordine mondiale basato sulla supremazia dei pochissimi sui tantissimi. I media di regime ci persuadono in modo martellante ad appoggiare guerre ingiuste, rivolte fasciste (come accaduto in Ucraina), o pilotate come sta avvenendo in Siria, e accettare governi reazionari come quello Renzi-Bce; e in modo più articolato e sottile, facendoci illudere di avere libera scelta, mentre invece veniamo soggiogati culturalmente dal pensiero unico capitalista.
In questi ultimi anni c’è stata una campagna di attacco vergognosamente ideologica allo statuto dei lavoratori. Il “Jobs act” è stato l’ultimo colpo terribile assestatogli con l’abolizione di fatto dell’articolo 18 e l’introduzione del principio incostituzionale delle “tutele crescenti”, che è un modo diverso per definire la fine del lavoro a tempo indeterminato. Si è fatto passare un diritto sacrosanto dei lavoratori – che diritti ne hanno sempre meno compreso quello fondamentale di lavorare – a non essere licenziati senza giusta causa, e quant’altro ne segue, per un privilegio (privilegio!) anacronistico che creerebbe difformità di trattamento tra i lavoratori, che questo diritto non ce l’hanno, e impedirebbe (a dir loro) ad altri di poter lavorare, chiamando in causa un conflitto generazionale forzato e fasullo, diventato uno stucchevole refrain negli ultimi anni, che ha del vergognoso e del terrorista. Questo discorso andrebbe stigmatizzato e rigettato per quello che è: un indecente ribaltamento della realtà, da respingere senza se e senza ma. Oggi siamo invece più che mai abbindolati e plagiati dai media che riescono addirittura a convincerci ad andare contro i nostri interessi reali.
Tutto questo sta avvenendo sotto i nostri occhi in modo eclatante, ma facciamo difficoltà a rendercene conto anche a causa della contiguità a questo stato di cose di tutti i partiti o movimenti seduti in parlamento e dei sindacati.
Dando un’occhiata alla politica nostrana saltano subito all’occhio le contraddizioni dentro i vari partiti e i movimenti che affollano le schede elettorali, a destra come a sinistra. Partiti sempre più inadeguati a rappresentare la società nei suoi bisogni e nei suoi cambiamenti.
Il M5s assolve il ruolo una pentola a pressione dentro la quale vengono stemperati i bollori sociali in un’inconcludente opposizione. L’inadeguatezza del M5s – così come tutti gli altri movimenti sinistroidi e interclassisti alla Podemos e alla Syriza – come movimento di cambiamento reale sta nella sua incapacità di muovere le masse (con le quali invece non ha alcun legame concreto) nell’ottica di una strenua opposizione di classe alle politiche liberiste del governo in carica. Quindi per quanto Grillo sbraiti di rivoluzione la verità è che il suo cartello elettorale (perché di questo il M5s si tratta) non è altro che un movimento istituzionalizzato che limita il suo operato al sensazionalismo parlamentare. Parlamento che dopo le riforme in senso maggioritario ha perso gran parte del suo potere, ritornando a essere, come diceva Lenin, un inutile mulino a vento di parole; dove l’esecutivo fa il bello e il cattivo tempo.
D’altro parte SEL, checché loro ne dicano, e tutte le altre formazioni “sinistre” sono appiattite sul Partito Democratico. I nuovi contenitori elettorali che si tentano di imbastire nei fatti non riescono a sciogliere esaustivamente questa contraddizione. Il Pd di Renzi dal canto suo governa indecorosamente con la destra di Alfano nell’ottica del “partito della nazione” abbattendo opportunisticamente i confini tra destra e sinistra. Pd unito in un patto di desistenza triviale, in ottica anticostituzionale e presidenzialista, con l’impresentabile Berlusconi.
L’asso piglia tutto è uno dei giochi a carte preferiti dai bambini che ghignano beffardi quando gli capita un asso tra le mani e raccolgono tutte le carte sul tavolo con gongolante soddisfazione. Guai però se l’asso cade in mano avversaria perché si sa i bambini vorrebbero sempre vincere. Renzi sta giocando all’asso piglia tutto con le istituzioni del nostro paese – con l’assenso naturalmente dei poteri forti italiani ed europei di cui ne è il rappresentante – contro tutto e contro tutti, e per ora gli dice bene. L’Italia, ahinoi, è un paese fortemente assopito davanti al tubo catodico. Eppure lui non era quello che doveva svecchiare la politica? I buoni propositi si sa lasciano sempre il tempo che trovano. Partì come “rottamatore” e finì come rottame. Questo basterebbe per far capire la natura accentratrice e pericolosa per la democrazia di questo individuo. Ma l’Italia purtroppo è diventato il paese dei messia, delle religiose e fatalistiche speranze.
Da destra a sinistra, da uno schieramento all’altro, dentro ogni schieramento una cosa è trasversale a tutto: la competizione tra i politicanti per una poltrona qualsiasi o carica istituzionale. D’altronde a questa politica, priva di onestà, di credibilità, di moralità, di autonomia e priva soprattutto di ideali, esecutrice finale degli interessi del grande capitale e della grande finanza – che vanno mortalmente a braccetto contro gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, dettando sostanzialmente la linea politico-economica – non resta che accaparrarsi le misere briciole e farsi la guerra per un piatto di lenticchie. La tanto declamata Seconda Repubblica ha avuto, ha, come caratterizzazione principale quella dell’incostituzionalità, delle trame contro lo Stato di diritto, degli accordi con la mafia, dei governi arbitrari (per “noi”, ma per “loro” è tutto studiato a tavolino) calati dall’alto, dei Presidenti del Consiglio mai eletti (vedi Monti, Letta, Renzi). Tutto ciò risulta un impedimento al cittadino di esercitare il suo, esiguo e sempre più formale, diritto di voto e di poterlo fare con una legge elettorale democratica e costituzionale (proporzionale puro), allora ogni scenario è possibile, tranne ovviamente la democrazia.
Bisogna portare i lavoratori a dettare una volta per tutte l’agenda politico-economica. Ma per fare questo c’è naturalmente bisogno di un “fattore soggettivo”, che rafforzi e incanali la lotta di classe. A questo è, e sarà, teso il nostro lavoro politico.
LAVORO E DISOCCUPAZIONE
«Noi non vogliamo affatto abolire l’appropriazione personale dei prodotti del lavoro per la riproduzione della esistenza immediata, appropriazione che non lascia alcun residuo di profitto netto tale da poter conferire potere sul lavoro altrui. Vogliamo eliminare soltanto il carattere miserabile di questa appropriazione, nella quale l’operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l’interesse della classe dominante.» (K. Marx)
Esistono tanti conflitti alla base della nostra società, ma quello più significativo è l’antagonismo tra le classi sociali, che nell’era capitalistica ha assunto in modo macroscopico la caratteristica di conflitto tra capitale e lavoro. In ultima analisi questo conflitto è quello che ridefinisce in un modo o nell’altro i rapporti di forza dentro il nostro sistema socio-politico-economico. Mentre gran parte del ‘900 si caratterizzò per una grande avanzata delle masse nell’ambito politico decisionale, con una strenua lotta di classe dal basso verso l’alto, dovuta all’opera dei partiti comunisti, oggi assistiamo invece a un profondo arretramento delle masse dall’ambito politico, con la lotta di classe tutta sbilanciata dall’alto verso il basso. Ciò comporta una compressione feroce dei diritti sociali della stragrande maggioranza delle persone.
O si riprende a lottare o si soccombe.
Quando ci viene detto che la lotta di classe e che il conflitto capitale-lavoro sono armamentari e concetti obsoleti dobbiamo avere la forza di controbattere consapevoli che la verità oggettiva è ben altra. Nel mondo la classe maggioritaria è di gran lunga ancora la classe operaia, tenute conto di tutte le sue ridefinizioni nell’ambito della produzione. Anche nell’Italia che si sta deindustrializzando (?) la classe lavoratrice (dipendente) è maggioritaria. Su 22.967.000 lavoratori 17.240.000 sono lavoratori dipendenti dei quali 4.089.000 (20,2%) sono occupati in senso stretto nell’industria, che rappresenta quindi il settore con più occupati, i restanti lavorano nei servizi (63.87%), nelle costruzioni (8,03%) e nell’agricoltura (3.7%) (dati I.Stat). Quindi abbiamo che più di un quinto della forza lavoro dipendente lavora in fabbrica in senso stretto. Ma nelle altre tipologie di lavoro dipendente la maggior parte dei lavoratori sono braccianti (agricoltura), manovali (costruzioni) e con mansioni riconducibili al lavoro operaio (servizi, commercio, ristorazione etc.). Gran parte dei servizi stessi, che contano tra le proprie fila il maggior numero di lavoratori dipendenti sono strettamente legati al comparto industriale. Cioè: l’aumento del peso dei servizi nell’economia è in parte spiegato dal crescente legame tra industria e servizi. Il peso dei servizi connessi all’industria è di quasi il 20% ed è tendenzialmente in aumento; il che significa che altri 2.500.000/3.000.000 circa di lavoratori dipende di fatto dal compartimento industriale (4.000.000 più 3.000.000 = 7.000.000, che vale il 34%della forza lavoro (dipendente) totale). Se poi vi aggiungiamo gli altri settori (Agricoltura-silvicoltura-pesca, costruzioni, commercio, trasporto e magazzinaggio, servizi di alloggio e ristorazione) dell’economia dove il lavoratore ha mansioni grossomodo “operaie” si raggiungono quasi dieci milioni di unità lavorative: la stragrande maggioranza dei lavoratori. Alla luce di ciò possiamo dire ancora che la classe operaia non esiste più? Che è un retaggio del passato? Chi oggi politicamente rappresenta questa massa di persone?
Un partito che ne sapesse intercettare i bisogni e incarnare le aspettative sarebbe maggioranza nel paese. A questo serve un partito comunista instillare coscienza di classe e unire sotto la sua bandiera tutti i lavoratori.
Una considerazione ulteriore riguarda il lavoro al femminile perché come scrisse Lenin: «Finché le donne non saranno chiamate, non soltanto alla libera partecipazione alla vita politica generale, ma anche al servizio civico permanente o generale, non si potrà parlare non solo di socialismo, ma neanche di democrazia integrale e duratura.»
I diritti devono essere per tutti senza distinzioni e soprattutto discriminazioni di genere o di sesso. Se ci guardiamo intorno non possiamo non renderci conto però di un dato macroscopico: a essere sfruttato e veramente discriminato in questa società, nell’ambito sociale più importante che è quello del lavoro, non è tanto il “genere omosessuale”, che rappresenta un’esigua minoranza – che comunque ha il “sacrosanto” diritto a esprimere il proprio orgoglio e a far valere la propria diversità e i propri diritti – ma le donne (se poi sono omosessuali ancora peggio), che a parità di condizione, ancora, fanno più fatica a trovare un lavoro rispetto agli uomini e quando lo trovano, lo trovano a condizioni, soprattutto salariali peggiori (Gli uomini percepiscono in media 1.312 euro, mentre le donne 893, inoltre più degli uomini sono assunte con contratti precari e fanno molta fatica a occupare cariche dirigenziali dove gli uomini sono in netta maggioranza). Il dibattito politico dovrebbe fare attenzione soprattutto a questo, invece di soffermarsi su diritti, che sono più di costume; certo da tenere in conto, ma che lasciano il tempo che trovano
L’Italia, nonostante la crisi, rimane uno dei paesi economicamente più forti d’Europa, di cui rappresentiamo la 3/4 economia, eppure siamo al dodicesimo posto come reddito pro-capite, che è di circa 20.000 euro annui. Già questo semplice dato dovrebbe farci porre un paio di interrogativi immediati: dove “alloggia” la ricchezza del paese? Perché a pagare sono sempre “i soliti noti”? Parte della risposta sta nel fatto che in Italia c’è un’evasione fiscale che ha dell’incredibile, circa 120 miliardi di euro l’anno; una cifra astronomica. Questa somma viene evasa soprattutto dai lavoratori indipendenti o autonomi (imprenditori per lo più). Andando a vedere nel dettaglio vediamo che il maggior contributo all’Irpef arriva dal lavoro dipendente (54,5%) e dalle pensioni (25,5%) per una percentuale complessiva dell’80% dell’imposta. D’altro canto il lavoro autonomo contribuisce solo con il 6,7% mentre il reddito d’impresa ha un peso del 3,5%. In tutto questo la cosa scandalosa, oltre che assurda, è che mentre il lavoratore dipendente guadagna in media 20.020 Euro annui il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 18.844 Euro annui: cioè la classe imprenditoriale nel suo complesso guadagna meno dei propri dipendenti. A questo punto nasce spontanea la domanda (retorica): perché non vanno anche loro a lavorare per conto di qualcuno, invece di sobbarcarsi i rischi e i fastidi di avere un’azienda? Proseguendo nell’indagine fiscale (dati I.stat) curiosamente i proprietari e i gestori di discoteche, night club, sale da ballo varie, centri benessere fisico e stabilimenti termali non guadagnerebbero niente. Mentre sono ridicoli i redditi di gestori di impianti sportivi (400 Euro l’anno), di noleggi di autovetture (5.300 Euro), dei negozi di abbigliamento e scarpe (6.500 Euro) di istituti di bellezza (7.500 Euro), tintorie e lavanderie (9.100 Euro), autosaloni e concessionarie (10.100 Euro). Come si evince i maggiori evasori sono nella piccola e media borghesia, mentre i “proletari”, pensionati e i cosiddetti “fannulloni” statali mandano avanti la baracca. Al danno si aggiunge anche la beffa, poiché questi falsi poveri oltre a non pagare le tasse usufruiscono dei diritti che invece dovrebbero essere appannaggio dei ceti meno abbienti, sanità, tagli alle rette scolastiche e universitarie, borse di studio, alloggi, Etc. Etc. La storia se letta bene ci dà ottime informazioni generali: ad affamare i popoli sono sempre stati i ricchi e sarà sempre così fintantoché il potere resterà nelle loro mani.
Il governo Renzi non è certo in controtendenza con questo “trend”. Infatti grazie a lui e al “Jobs Act” contratti di lavoro saranno soprattutto precari. D’ora in poi, infatti, sarà possibile stipulare contratti fino a 36 mesi senza causale, vale a dire sena una ragione specifica, così come sarà possibile prorogare un contratto per cinque volte; il datore di lavoro non è più obbligato a stabilizzare i lavoratori assunti fuori quota. In più i contratti a tutele crescenti sono la nuova frontiera del lavoro a tempo determinato, che soppianterà definitivamente il contratto a tempo determinato.
BENVENUTI NELLA PRECARIETA’ PERMANENTE!
Per capire meglio la situazione lavoro nel bel paese è molto importante dare un’occhiata al grafico sulla disoccupazione dagli anni sessanta a oggi.
Analizzando il grafico (vedi immagine sottostante) sulla disoccupazione in Italia dal 1960 ad oggi possiamo trarre alcuni dati irrefutabili e incontestabili, ma che vengono continuamente omessi o deliberatamente camuffati dai media su impulso dei governi. Il più evidente sta nella bugia che ci viene raccontata di continuo – quando si parla di tasso disoccupazione – che nell’ultimo anno si è eguagliato, e superato, il record toccato a metà degli anni ’70 (periodo in cui c’è stata la crisi del petrolio con le conseguenze tragiche che ha portato con sé), ’77 per la precisione, mentre invece il picco si era toccato a metà degli anni ’80 in pieno Craxismo. Infatti il tasso di disoccupazione aumenta ad alta velocità nel periodo delle trasformazioni liberiste/edoniste “Reganiane” e “Tatcheriane” che in Italia hanno preso forma sotto il nome di “Craxismo” appunto. Comunque una considerazione da fare, e non da poco, è che ancora la stragrande maggioranza del lavoro era a TEMPO INDETERMINATO, quindi anche a parità di tasso di disoccupazione, c’è il dato incontrovertibile che la qualità del lavoro e dei diritti correlati era di gran lunga migliore. Dopo un periodo di stabilità, a cavallo tra gli ottanta e i novanta, nella seconda metà degli anni novanta la disoccupazione comincia a scendere sensibilmente; il motivo è inquadrabile, non tanto in una congiuntura favorevole di mercato, quanto nell’introduzione massiccia di lavoro precario/interinale (Il lavoro interinale, era precedentemente vietato dalla legge del 23 ottobre 1960, n. 1369 che andava sotto il nome di: “Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e di servizi”, con tanto di modifica costituzionale portata avanti da centro-sinistra), col cosiddetto “Pacchetto Treu”. Più lavoro certo ma a termine, di scarsa qualità (anche per i laureati) e con molti diritti in meno. Il trend positivo è durato finché questa riforma infame “ha trovato spazio di manovra”. Una volta precarizzato il precarizzabile infatti il trend si è invertito a metà dei 2000 e il tasso di disoccupazione ha continuato inesorabilmente la sua crescita, colpa la crisi di sovrapproduzione capitalistica, fino a toccare il picco impensabile dei giorni nostri. Valutato ciò è difficile, anche pensare, che la disoccupazione possa scendere in modo importante in futuro; a meno che non si introdurranno – e lo faranno a meno di una massiccia e consapevole rivolta di popolo – nuove forme più accentuate di precarizzazione e quindi di sfruttamento sul lavoro (vedi Renzi e Jobs Act) che troveranno la loro espressione massima quando si imporrà per legge il lavoro a gratis: unico modo, sotto il capitalismo, per avere piena occupazione. Nel frattempo ci dobbiamo accontentare di lavorare quando capita e per due soldi: noi per sopravvivere e “loro” per taroccare i grafici sulla disoccupazione e fare la bella vita…
Una questione molto importante, non per niente il ministro del lavoro del nuovo governo è Giuliano Poletti, già amministratore delle coop in Italia, sono le cooperative (rosse, bianche e di vari colori…ormai non c’è distinzione) sono diventate da espressione di lavoro solidale e collettivo a vere e proprie aziende con mentalità privata, votate al profitto indiscriminato e conseguentemente allo sfruttamento. Applicano con solerzia e profusione tutte le forme di lavoro precario dimostrando spesso e volentieri poco rispetto per i lavoratori. Ciò che dovrebbe caratterizzare le imprese cooperative invece è la “mutualità cooperativa”, appunto, che dovrebbe esprimersi in una libera collaborazione di più persone per il raggiungimento di un fine comune attraverso la solidarietà e l’aiuto reciproco in modo d’avere parità di diritti e di doveri. La Costituzione Italiana (art. 45), ne sancisce la valenza sociale – quindi il rispetto dell’uomo e del lavoro – che dovrebbe tradursi in una mancanza di speculazione privata privilegiando interessi comuni e solidali della cooperativa sugli interessi “egoistici” dei singoli soci. Come possiamo tristemente notare, tranne qualche rara eccezione, le cooperative oggi non sono niente di tutto questo men che meno le grandi cooperative.
Un’altra questione cruciale sono le pensioni. Tutti i governi susseguitisi nella Seconda Repubblica si sono sbracciati a dire che sono insostenibili per il sistema Italia e che vanno conseguentemente tagliate. Bene, la loro incidenza sul PIL è di circa il 9% – la spesa minore rispetto a quasi tutti gli altri paesi europei – mentre le spese militari incidono per 1.5%, quindi basterebbe contingentemente dimezzare queste ultime per fare “cassa”. L’Inps, che paga le pensioni, è in attivo (27,6 mld) da parecchi anni, ciò significa che le entrate (contributi) sono superiori alle uscite (pensioni). «Lo Stato non spende nulla di più di quanto non incassi con i contributi previdenziali, tradotto: i lavoratori versano più di quel che lo Stato distribuisce ai cari nonnetti». – Come mai allora si parla sempre di tagli alle pensioni allora? Presto detto: il fondo dell’Inps “fa gola” alla politica e verrà tagliato per pagare il debito, cioè per pagare le banche, che hanno creato il debito stesso stampando soldi ad interesse, questo è il punto. Negli ultimi 25 anni il debito è più che raddoppiato, nonostante una crescita sempre positiva del Pil (tranne negli anni di crisi che hanno fatto perdere quasi dieci punti percentuali), nonostante le entrate dello stato (fisco) siano aumentate di 5 volte e nonostante le spese per stato sociale (scuola, sanità, servizi) siano diminuite in proporzione; quindi c’è qualcosa che non va….! Dove sono andati a finire tutti questi soldi? Domanda retorica. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo sistema economico-finanziario. Le banche speculano e a noi tocca pagare il loro azzardo! PRIMA CHE SIAMO NOI A FALLIRE BISOGNA ABOLIRE IL SIGNORAGGIO E LA RISERVA FRAZIONARIA CHE SONO CAUSA DELL’INFLAZIONE E DEL DEBITO “ENDEMICO”, NAZIONALIZZARE LE BANCHE, NON PAGANDO IL DEBITO TRANNE AI PICCOLI RISPARMIATORI.
IL DEFAULT DELLO STATO è UN PROBLEMA DELLE BANCHE NON UN NOSTRO PROBLEMA!
SUL SINDACATO
“Gli operai sentono che il complesso della “loro” organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza dalla sua missione storica di classe rivoluzionaria.” (A. Gramsci)
I sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) sono sempre più cedevole ai ricatti padronali e sono sempre più riluttanti a usare la piazza per arginare le riforme di macelleria sociale portate avanti a testa bassa dagli ultimi governi. Questa mollezza è il frutto della strategia concertativa che ha declinato sempre più al ribasso le istanze dei lavoratori. Va da sé che se un sindacato non riesce a difendere i diritti, ormai labili ed esigui, dei lavoratori, perde inevitabilmente di scopo e utilità tranne che per se stesso. Oggi questi sindacati sono completamente svincolati dai lavoratori, l’unica cosa che difendono sono i loro interessi come burocrazia. O si elimina tutto questo: mandando a casa questi sindacalisti-burocrati, riappropriandoci delle piazze come lavoratori, insieme a precari, studenti e disoccupati di ogni età e colore, uniti e organizzati in “classe” contro questo sistema, o sarà dura far vincere ogni istanza sociale.
Nonostante questi anni di crisi feroce, mai come adesso i sindacati sono stati appiattiti sulle richieste confindustriali e del governo, portando i lavoratori a condizioni sempre peggiori. D’altronde se la Camusso in passato venne sbattuta fuori dalla FIOM qualche motivo ci sarà pur stato… Ma chissà come poi è riuscita addirittura a diventare segretario generale CGIL: le vie della burocrazia sono infinite.
La sue prese di posizione nei confronti del governo Renzi non sono state certo di natura sindacale, nel senso più nobile del termine, tanto meno politica, ma di natura mediatica e personale, visto che a lei interessa più che altro essere invitata ai tavoli concertativi – dove ha sempre puntato al ribasso – che difendere i lavoratori realmente. Infatti dov’era durante il governo Monti e Letta? Quale grande mobilitazione o sciopero efficace ha indetto durante il suo mandato contro lo scempio che è stato fatto dei diritti sul lavoro e sulle rappresentanze? La concertazione va bene fino a quando i padroni hanno margine sicuro di “profitto”, altrimenti ci pensano i cosiddetti governi “amici” a portare a casa risultati più incisivi e perentori. A lei, da prima donna quale si sente, piacerebbe camminare ancora a braccetto con Squinzi facendo posto a Renzi nell’altro braccio.
Il dualismo Camusso-Landini appare sempre più come una resa dei conti personale; col tentativo di Landini di scalare la CGIL per assumerne in futuro la leadership. La formazione “sociale” che ha messo in piedi ha il sentore di comitato elettorale più che di struttura a supporto dei deboli.
In tutto questo i lavoratori che ci azzeccano?
Poco e in mancanza d’altro si suicidano.
Caro Landini, quando è stato fatto l’accordo sulle rappresentanze, tu dov’eri?
Il suo avvicinamento a Renzi in chiave “leaderistica” a noi fa paura quanto la Camusso. I sindacati in tutti questi anni, giusto per dare un pò di visibilità ai loro “leaderini”, hanno al massimo indetto manifestazioni-scampagnata con orde di “temibili” pensionati, senza molto chiasso in modo da non intimidire troppo il governi amici susseguitisi che hanno lavorato per affossare definitivamente l’Italia e il lavoro. Questi cialtroni parlano e sparlano, fanno e disfano sulla pelle dei lavoratori, per i quali il problema maggiore è il metodo concertativo che in più di vent’anni ha fatto regredire i loro (dei lavoratori) diritti e i loro salari a vantaggio dei padroni. Di fronte a tutto ciò l’unica via d’uscita per i lavoratori è un sindacato di classe che scardini con forza questo stato di cose. Questo si ottiene non costituendo nuovi micro-sindacati inconcludenti ma rendendo i sindacati esistenti più combattivi attraverso l’egemonia comunista in essi, CGIL su tutti. Naturalmente il collegamento con le masse attraverso i sindacati è insufficiente, quindi è importante, come fecero i bolscevichi, mettere in piedi delle conferenze dei lavoratori senza partito, che hanno lo scopo di far capire la disposizione d’animo delle masse, per potersi meglio avvicinare a esse, per poter rispondere alle loro richieste e per scegliere al loro interno i lavoratori più adatti a ricoprire posti di responsabilità nello Stato.
SULLA NATURA
«Se si seguono i dettami della natura non c’è alcun bisogno di ricette.»
La natura, e il mondo che la regge, da quando è iniziata l’era industriale, più di due secoli a questa parte, hanno cominciato a patire di mali che prima di allora non avevano nemmeno un nome per essere definiti. L’uomo, precedentemente all’epoca capitalistica, pur essendo incessantemente in lotta contro la natura per sopravvivere ai suoi eventi catastrofici e per sfuggire alla dialettica, spesso rigida, della selezione naturale, ha imparato utilizzarla e quando possibile a dominarla, ma sempre con rispetto dovuto a una certa “internità” del processo umano con la natura stessa e senza stravolgerne gli equilibri fondamentali. Con l’avvento del capitalismo industriale l’uomo comincia a stravolgere sistematicamente l’equilibrio naturale e a guardare alla natura come qualcosa solo da sfruttare perennemente senza riguardo e senza rispetto per poter fare lauti profitti. Ha cominciato a trivellare, senza soluzione di continuità, il sottosuolo e i fondali marini alla ricerca spasmodica di risorse minerarie, idrocarburi, e gas; ha cominciato a inquinare mari, monti, foreste per portare sempre a livelli più insostenibili il margine di profitto e quindi di sovrapproduzione, con quest’ultima come possiamo constatare molto perniciosa anche per il progresso sociale.
In passato le crisi erano dovute alla penuria di prodotti alimentari e tecnici, col capitalismo le crisi sono diventate, paradossalmente, crisi di sovrapproduzione; cioè vengono prodotti molti più beni di quanto l’uomo ne possa utilizzare; conseguentemente a ogni crisi sistemica si ridimensionano i mezzi di produzione, si “brucia” parte della ricchezza creata, si licenziano i lavoratori, crolla il potere d’acquisto dei salari e gran parte dei beni prodotti diventa poi spazzatura inquinante. Queste in poche parole sono le crisi capitalistiche, che si susseguono una dietro l’altra. Il capitalismo per mettere fine alle proprie crisi deve distruggere per poter ricostruire e quindi innescare nuovamente il circuito profittevole.
Esso è, scientificamente parlando, un sistema fortemente entropico, un sistema vorace, energivoro (ricordiamoci che l’energia è anche massa e quindo “cose”) che sta trasformando l’energia utile, contenuta in varie forme nella natura, in entropia, disordine, in poche parole energia degradata, inutilizzabile. Il secondo principio della termodinamica (entropia) non lascia scampo. Mentre il primo principio della termodinamica ci dice che ogni forma di energia è trasformabile in un’altra, il secondo principio ne limita le possibilità stabilendo che l’energia non può essere ritrasformata a proprio piacimento ma che inevitabilmente una quota, a causa dell’irreversibilità dei processi sia naturali che artificiali, si trasformerà in calore e parte del calore in entropia non più utilizzabile. Questo principio termodinamico è ancora più pericoloso, per così dire, se avviene in sistemi “fortemente” chiusi, come può esserlo un pianeta a esempio; e la terra, anche se può sembrare grande, è un sistema limitato, chiuso e limitate sono anche le risorse che mette a disposizione. Quindi prima o poi tutta l’energia in esso racchiusa degraderà in entropia con conseguente “morte termica”. Più veloce e indiscriminato è il processo di accaparramento e consumo delle risorse disponibili più velocemente l’entropia aumenterà con conseguenze catastrofiche per il pianeta e i suoi esseri viventi.
Alla luce di ciò si capisce che per quanto possano essere importanti alcune misure proposte, nell’ambito del movimento ecologista tradizionale, se non si pone fine al sistema di iper-sfruttamento delle risorse e della terra (coltura intensiva e latifondo) e alla produzione di inquinamento e calore, legati alla sovrapproduzione di merci e al sovraconsumo che ne scaturisce, c’è poco da fare; in ottica futura siamo condannati.
Va da sé che fino a quando il profitto sarà il parametro fondamentale dell’economia reale, alla lunga le contro misure prese all’interno di questo sistema economico, saranno insufficienti fino a diventare inutili. In questo senso teorie come quelle della decrescita manifestano la loro inadeguatezza se non si passa a un’economia pianificata e quindi realmente rispettosa delle esigenze dell’uomo e della natura. Una battaglia intrinsecamente ecologica diviene quindi la battaglia per il socialismo-comunismo, unico sistema davvero sostenibile per principio e molto poco entropico.
MEDIA E CAPITALISMO
«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza!» (A. Gramsci)
Con l’imposizione della «società dello spettacolo» si sta delineando via via il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo e la sua libertà intellettuale sono continuamente sottoposte a un attacco sferzante che mina la capacità dell’individuo stesso di agire consapevolmente in seno alla storia.
Ormai l’informazione principale (mainstream) ha perso, coscientemente e capziosamente, contatto con la realtà; che viene continuamente distorta, asservita, ridicolizzata in favore della “storia” che si vuole narrare di volta in volta. La deformazione e la spettacolarizzazione della realtà, inscenata dai mass-media e in particolare dalla televisione, ha finito col cambiare e sostituire la realtà stessa, sia essa la realtà politica o la vita di tutti i giorni. Metafore, clichè, eufemismi, iperboli (menzogne) sono figure retoriche più che abusate nei media contemporanei, tanto che la persona comune, bombardata da una quantità sempre maggiore di (dis)informazione, si sofferma sempre meno a riflettere – non ne ha il tempo fisico – introiettando e metabolizzando meccanicamente le informazioni “insinuate”, volutamente stringate, dal titolo sensazionale, che si ficcano in testa in modo subdolo e alla lunga creano danni irreparabili sulle capacita oggettive di discernimento della realtà.
La borghesia dopo una iniziale fase rivoluzionaria, necessaria per la presa del potere, è diventata inesorabilmente una via di mezzo tra clero e aristocrazia, quindi classe doppiamente reazionaria e conservatrice. Come il clero, impone la morale comune – più o meno laica, a seconda delle convenienze, ma con fare clericale – dicendo (imponendo) al popolo cosa è giusto e cosa e male, cosa è bello e cosa è brutto; così facendo aumenta il suo dominio e rafforza il suo controllo. Al pari dell’aristocrazia invece è diventata nel tempo una classe parassitaria e improduttiva, sempre più ossessionata ad appropriarsi della ricchezza prodotta dalla classe lavoratrice. Borghesia bulimica che stra-vive grazie a questa rendita, che le permette di liberare il proprio tempo libero (tempo di vita) a discapito del tempo libero altrui: dei lavoratori. La borghesia-aristocrazia elevatasi a classe dominante, emana la morale del paese o dei paesi (visto che anche le classi oggi più che mai sono globalizzate) in funzione dei suoi interessi “materiali” di classe e dettata dai suoi sentimenti di superiorità di classe. Poiché come scrisse lapidariamente Karl Marx: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti»
I comunisti consci di ciò, devono intensificare la lotta di classe, facendo leva sulle gravi contraddizioni sistemiche del Capitalismo, per sovvertirlo e così arrivare progressivamente ad un mondo senza classi sociali, conseguentemente senza sfruttamento. Per fare questo bisogna smarcarsi da quel “senso comune” – ovvero morale classista – che ci tiene imprigionati, che altro non è che una catena alla quale i dominanti legano a loro i dominati; che giustifica il sopruso dell’uomo sull’uomo. Sopruso che viene mantenuto anche attraverso l’inganno mediatico e semantico. Fenomeno che avviene cambiando il senso alle parole – i fatti non ci vengono “detti” ma “narrati” – delle quali il significato viene “malignamente” alterato accentuandolo o diminuendolo a seconda dell’esigenza. Ciò porta una sorta di schizofrenia nella società (classi subalterne) che finisce col perdere la propria identità culturale, perché gli vengono sottratti i mezzi per mantenerla, e soprattutto finisce col perdere di vista i propri interessi materiali e morali, che sono strettamente collegati alla propria appartenenza di classe. Se milioni di persone in Occidente credono a cose stupide, ciò non impedisce a tali cose di rimanere stupide. Il ruolo dei media e della televisione in special modo è di glorificare la stupidità e l’ignoranza per diffonderle il più possibile. Un popolo che “sguazza” nell’ignoranza più miserevole e degradante è più facilmente controllabile: non c’è schiavo più diligente di colui che giustifica la propria schiavitù.
I nuovi media, in particolare a Internet, portano alla massificazione dell’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momento stesso in cui lo isola poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi 24. Siffatto individuo, esposto alle forze omologanti e isolanti esercitate dai nuovi mezzi di comunicazione, finisce col venire «eterodiretto»
Il ruolo dei comunisti è di sovvertire questo paradigma in tutti i campi del sapere e nella realtà col beneficio del pensiero scientifico di cui siamo, spesso anche inconsapevolmente, i migliori portatori. Abbiamo chiavi di lettura del mondo efficacissime e attualissime: il materialismo dialettico e l’umanesimo bolscevico. Credo sia di facile constatazione il fatto che oramai la politica ha finito, da tempo immemore, di essere scienza del buon governo (se mai lo fosse stata…) mentre è diventata incontrovertibilmente arte della conquista, dell’esercizio e della conservazione del potere di una classe sociale sulle altre, del ricco sul povero, dell’uomo in malafede sull’onesto. Questo è stato possibile grazie al continuo e pervasivo lavorio esercitato dai media (in mano alla classe dominante appunto…) sulla mente del singolo, che poi diventa parte integrante di una massa stolida; indirizzando così, verso falsi bisogni e credenze, in un delirio autolesionistico, l’opinione pubblica – tragicomicamente illusa di aver libero arbitrio e potere decisionale – che in ultima analisi viene poi utilizzata da politicanti burocrati e parassiti a proprio uso e consumo per legittimare questo potere autoreferenziale, nei fatti calato dall’alto, per “gentile” concessione e investitura, dal vero potere: quello economico-finanziario-massonico.
L’economia capitalistica con i suoi indici fittizi e ridondanti, che poco hanno a che fare col benessere reale delle persone e del pianeta, è una grande messa in scena che nasconde più specificatamente una truffa colossale ai danni del sistema lavoro, che regge di fatto l’economia mondiale. Quest’economia ha molto, troppo, di metafisico e poco di scientifico. Così come dalle pietre non nascono altre pietre dai soldi non possono nascere altri soldi a meno di leggi economiche truffaldine e degenerate. Tutto ciò è talmente ben congegnato che rende ermetico l’accesso allo studio dell’economia reale ai di più e permette ai grandi gruppi (ai meno) di affari e monopolisti di sottrarre ricchezza a coloro che la ricchezza in ultima analisi la creano davvero: lavoratori di beni e servizi, per metterla nelle mani di capitalisti borghesi parassiti e truffatori; meccanismo che inevitabilmente va a rafforzare sempre più lo status quo. Col comunismo e la pianificazione economica, senza borse e né mercati, con pochi indici essenziali, lineari e scientifici, l’economia sarà efficiente e comprensibile anche a un bambino: chi lavora ha diritto d’accesso a beni e servizi e con le rendite ci si pulisce il fondoschiena.
GLI EFFETTI SOCIO-CULTURALI DEL CAPITALISMO
«Siamo sempre meno cittadini e sempre più consumatori.»
Il consumismo è il risvolto “sociale” macroscopico (e terribile) del sistema capitalistico, che ha sempre più bisogno di acquirenti bramosi e compulsivi per forzare la domanda di merci, per fare conseguentemente più profitti e attenuare uno dei suoi maggiori difetti: la sovrapproduzione di merci, che è causa di grandi squilibri politico-economico-sociali. Mai come oggi l’uomo è ridotto alla stregua di un animale da batteria – e viste le premesse le cose possono solo peggiorare – allevato per lavorare a condizioni sempre peggiori e per consumare sempre più merci a loro volta sempre più scadenti. Nella pseudo democrazia liberale l’uomo è semplicemente un oggetto atto a consumare voracemente e soddisfare i mercati. Appare sempre più chiaro che la politica ha più a cuore la soddisfazione dei mercati che delle persone. D’altronde la fraseologia mediatica ricorrente nei politici oggi è più che mai: il mercato ce lo chiede, il mercato ne ha bisogno, il mercato ha confermato, il mercato ce lo impone, e così via. Il mercato, trattato come essere vivente e pensante, da luogo fisico è diventato sempre più virtuale e i suoi bisogni astratti hanno finito col sostituire i bisogni materiali e spirituali dell’uomo. La democrazia ha definitivamente ceduto il passo alla “mercatocrazia”. Per imporre questo “stile di vita” siamo vittime di un marketing selvaggio e sempre più soggiogati da pubblicità invasive e forvianti, le quali puntando sui bassi istinti ci ipnotizzano letteralmente, trattandoci come fossimo eterni bambini: voglio quello, voglio quell’altro…
Questa follia collettiva è frutto di una solitudine collettiva e di massa. L’essere umano è sempre più schiavo di un prodotto, di una merce che al di là del suo valore vero: il valore d’uso, è scelta per un valore emotivo e sociale che arbitrariamente gli viene attribuito – e in questo sostituisce gli uomini – nelle relazioni sociali; infatti in questa società sono sempre più le cose a parlare per noi, a farci sentire per un momento migliori. Questo irrazionalismo è favorito (indotto) dalle mode e dai miti, dove il glamour è un punto di arrivo che però non si raggiunge mai. Il “glam” è un non luogo dove non si arriva mai. Siamo continuamente drogati da novità che paradossalmente (e volutamente) non restano mai nuove. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Come scrisse il sociologo Z. Bauman: «la società dei consumi si fonda d’altronde sull’insoddisfazione permanente, cioè sull’infelicità.» E questo mondo non sembra proprio sprizzare felicità, al limite forzata e superficiale gaudenza.
Tutto questo avviene in un vuoto totale di democrazia
SULLA DEMOCRAZIA
La democrazia elettorale formale, cosiddetta liberale, versa in una profonda crisi di rappresentanza. Appaiono sempre più chiare la fragilità e l’inadeguatezza di questo sistema di potere rispetto alle necessità politiche, economiche, sociali, tecnologiche, lavorative, migratorie, umane e ambientali a cui le nazioni e il mondo intero debbono far fronte in questa società fortemente, nel bene e nel male, globalizzata. Inadeguatezza che è motivata dal fatto che la politica oggi è un meccanismo propagandistico utile più che altro per attuare le ricette politico-economiche pre-determinate e pre-confezionate dai poteri forti (la massoneria in primis con la sua “longa manus”: l’unico vero, sostanziale, partito della classe dominante borghese che dà direttive ai partiti formali). I politici e i partiti d’impostazione liberale, uguali da destra a sinistra tranne che per qualche sfumatura folkloristica, sono macchine tese a creare (false) opinioni, non a intercettare quelle che arrivano dai bisogni reali delle persone comuni, men che meno dei lavoratori. Ciò è sempre più facile verificarlo nella nostra quotidianità. In ultima analisi questa politica è lontana mille miglia dal mondo che si presuppone di trasformare e amministrare. L’astensione però non è un semplice “monitor” sulla disaffezione a questa politica teatrante da parte dei ceti medio bassi, dei proletari, ma è frutto soprattutto della mancanza, nei paesi cosiddetti democratici, di un soggetto politico che incarni le aspirazioni di quest’ultimi e le porti avanti in modo genuinamente rivoluzionario. In Italia si è arrivati a questo con due atti fondamentali: la liquidazione del PCI e l’instaurazione “incostituzionale” del meccanismo elettorale maggioritario: che è stato studiato apposta per eliminare i proletari dal voto a vantaggio dei ceti abbienti che possono scegliere tra un ampio ventaglio di partiti che hanno il compito di portare avanti programmi rispondenti alle esigenze politiche ed economiche dell’insieme della classe capitalista, infatti la democrazia con tale sistema è stata ridotta caricaturalmente da contenuto a forma, da fine a mezzo, e ha ceduto il passo, quasi definitivamente, a un’oligarchia di fatto. Il compito affidato al popolo non è più quello di decidere cosa lo Stato debba fare politicamente, ma di decidere chi deve decidere, che si riduce sempre più, con la fine dei partiti di massa e l’introduzione del maggioritario, alla semplice accettazione di una leadership politica (vedi Craxi, Berlusconi, Renzi…). In nome della governabilità si è sacrificata la capacità di governare democraticamente. Il sistema elettorale maggioritario (in tutte le sue declinazioni, compreso il pessimo Italicum) impone e riduce la scelta a due schieramenti – nei fatti due correnti del capitalismo che in ultima istanza, tramite questi loro partiti fanno leggi e decreti tramite una finzione: l’alternanza al governo, dando l’illusione di essere in democrazia, mentre nei fatti hanno operato per essere legittimati da meno della metà degli aventi diritto al voto.
Quello che intendono per democrazia questi “tromboni” della politica con il loro codazzo di “pennivendoli” tutti di un prezzo è cosa ben diversa invece da ciò che intendono (un po’ troppo ingenuamente…) le classi subalterne. Valutando il significato letterale di democrazia, che è governo del popolo, si capisce senza fatica alcuna che mai sulla terra la democrazia ha trovato piena applicazione, tranne in alcune esperienze socialiste: la Russia dei soviet (consigli del popolo) e in esperienze dove a quel modello ci si era ispirati, come in Italia nel Biennio rosso (1919-20) con l’occupazione delle fabbriche e delle campagne e nelle lotte degli anni Settanta, forti di quelle esperienze che abbiamo saputo trasferire nella Resistenza antifascista e nella nostra Costituzione.
Quella che oggi viene spacciata per democrazia, in tutti i paesi occidentali (USA in primis), ne rappresenta una variante molto “larga”, abbastanza sui generis per così dire, se non impropria. Infatti il sistema di riferimento che abbiamo “noi” occidentali è la democrazia rappresentativa di stampo liberale che in ultima analisi è semplicemente una democrazia formale. Non è sufficiente che esistano dei seggi con delle cabine per votare per dire che in quel paese c’è una reale democrazia. Una reale democrazia esiste quando il voto di ogni cittadino, indipendentemente dalla classe sociale, ha lo stesso valore e possibilità di scelta dei candidati e delle formazioni politiche. Questa libertà fondamentale si ottiene solo con il sistema proporzionale puro. Infatti sino a quando in Italia si è votato con il sistema proporzionale puro ed abbiamo avuto partiti che erano rispettosi di questa nostra libertà costituzionale, in Parlamento sedevano in maggioranza rappresentanti delle classi subalterne, dagli operai, ai contadini, alla piccola e media borghesia, che erano e sono le classi maggioritarie. Ed erano queste classi che mettevano la mordacchia al grande capitale, facendo alleanze sociali dalle fabbriche sino al Parlamento e che ci hanno consentito di progredire, nonostante i tentativi eversivi del grande capitale nostrano e internazionale, diventando un punto di riferimento per molti popoli che tentavano di sfuggire dai tentacoli del capitalismo.
Tornando all’oggi è facile accorgersi che, anche se la stragrande maggioranza della popolazione appartiene al ceto medio-basso (più basso che medio, quindi operai, impiegati, precari, disoccupati, in Parlamento siedono, per la stragrande maggioranza, i ceti alti rappresentati da ricchi capitalisti: imprenditori e banchieri con i loro avvocati, commercialisti, medici ma anche i loro mafiosi. Basta prendersi la briga di controllare il censo dei parlamentari italiani. Questo rappresenta il primo vulnus di tale interpretazione al ribasso della democrazia, in quanto come ha analizzato V. Giacché, nel suo libro, La fabbrica del falso: «…la reale differenza tra la democrazia e l’oligarchia è la povertà e la ricchezza. Dovunque gli uomini governano in ragione della loro ricchezza, siano pochi o molti, si ha un’oligarchia, e dove governano i poveri si ha una democrazia». Essendo oggi la nostra, dopo le controriforme introdotte dal 1993, una democrazia di stampo formale, non ci è concesso di votare liberamente ma siamo fortemente condizionati nelle scelte dalle segreterie dei partiti che a loro volta, asservite ai potentati economici, si fanno portatrici dei loro interessi particolari, mentre il voto dovrebbe essere il più libero ed esteso possibile e avere lo stesso peso politico, secondo il vecchio adagio “una testa un voto”.
Prendendo a esempio le ultime elezioni regionali vediamo come sia predominante la tendenza alla disaffezione politica. Nei fatti (tenendo conto dell’astensionismo che rasenta il 50%) le coalizioni vincenti governeranno con il 15-16% dei voti reali. Uno su sette ha votato per loro. Parlare quindi di maggioranze di governo appare quanto mai risibile.
Gran parte della popolazione (lavoratori, disoccupati e precari in special modo) si rende conto suo malgrado, che non ha rappresentanza politica; e che il suo voto vale sempre di meno sia quantitativamente che qualitativamente. Ma non è un caso: tutto è studiato “ad hoc”.
Con questo sistema che non tiene conto dell’astensionismo di massa infatti si potrebbe governare, paradossalmente, anche se andassero a votare in tre o quattro, perché le percentuali contano più dei voti effettivi.
Parlare quindi di “maggioranze” di governo e ridicolo. Tutto questo è contenuto, con buona pace di molti sciocchi bontemponi, che anche a sinistra ricacciano tali constatazioni come stucchevoli teorie del complotto, in documenti redatti da commissioni messe in piedi dal grande capitale internazionale. Una di queste: la famigerata Commissione Trilaterale (una potente lobby transatlantica) in un documento pubblicato nel lontano 1975 dà la linea di comportamento per combattere gli eccessi di democrazia.
In questo antidemocratico documento, che ha tra gli estensori Samuel P. Huntington, tristemente famoso per le sue tesi sullo scontro di civiltà tra Islam e Occidente, base per un nuovo ordine mondiale, vengono fortemente stigmatizzate l’eccesso di cultura nelle scuole e università, pericolose, secondo Huntington, per l’ordine democratico e causa principale delle manifestazioni di protesta; contro le quali si chiedono misure per “ridurre” la democrazia a beneficio della democrazia stessa – palese caso di stravolgimento della realtà – elogiando a tal proposito l’apatia politica delle masse, che si dovrà concretizzare nell’inazione politico-sociale e quindi nell’astensionismo.
Possiamo, in un grido disperato, affermare: la democrazia formale come procedura ha finito col soffocare la democrazia sostanziale. Alla luce di ciò ci rendiamo conto di come questo sistema politico maggioritario sia molto poco democratico e molto oligarchico/aristocratico, poiché coloro che ci governano fanno parte in ultima analisi delle “élites” politiche, scelte dalla grande borghesia di stampo massonico, attraverso think tank, gruppi di opinione, club esclusivi (vedi Bilderberg, Trilateral Commission, Aspen Istitute e via discorrendo), per fare i loro interessi privati a discapito della stragrande maggioranza della popolazione.
Le politiche degli ultimi anni ne sono una chiara e incontrovertibile esemplificazione: i ricchi sono diventati più ricchi mentre i poveri più poveri e soggiogati.
Quindi di fronte a tutto questo che fare?
Bisogna rivoltare questa democrazia formale come un calzino. Per fare questo c’è bisogno di un fattore soggettivo, un Partito comunista, non basato su dogmi e icone stantie ma sulla dialettica materialista, che prepari il terreno sociale e culturale per una rivoluzione proletaria: che il mondo aspetta per la sua sopravvivenza.
Ciò è necessario ma non sufficiente in questa fase: bisogna infatti creare un ampio fronte popolare, resistente, tra le forze genuinamente anticapitaliste e antifasciste, che faccia massa critica contro gli abusi del capitale e difenda i diritti sociali e individuali contrattaccando. Anche se il fine è la Rivoluzione socialista non dobbiamo dimenticarci, come classe sociale, che la democrazia conquistata con la lotta di Liberazione dal fascismo, almeno in questa fase di riflusso sociale e decadimento politico, rappresenta un mezzo che bisogna utilizzare al massimo per poter andare verso il socialismo-comunismo. Quindi in tale fase mediana bisogna lottare anche per quei principi che “migliorano” tale sistema di potere – in funzione rivoluzionaria, non certo socialdemocratica – per i quali i nostri padri hanno lottato a costo della vita.
Quindi non è non votando o disaffezionandosi alla politica in tono dimesso o lasciando che smantellino pezzo per pezzo la Costituzione nata dalla Resistenza che sia possibile trovare la soluzione ai problemi del proletariato, ma è conducendo battaglie nella società affinché il voto riacquisti la sua validità democratica, tramite il proporzionale puro, e difendendo e applicando la Costituzione soprattutto, nella sua integrità e progressività. Poiché è più facile andare verso il socialismo lottando in un regime (anche se) “blandamente” democratico, piuttosto che in un regime assolutista o fascista (verso il quale si sta ritornando), come Marx – nella sua infinita lungimiranza – fece notare a più riprese contro il becero, quanto pericoloso, estremismo radical borghese e anarcoide.
UNO SGUARDO SU PISA
Pisa è sicuramente una città molto strana: nonostante la sua grande tradizione culturale, figlia anche di un’università tra la più prestigiose del Paese, vive una fase che dire letargica è usare un eufemismo. La politica è sempre più burocratizzata e segregata nelle segrete stanze, o meglio “loft”, dei partiti, PD su tutti, ed è lontana mille miglia dalle persone e dai loro bisogni. Dominata da trame massoniche di cui Pisa è degna rappresentante con le sue innumerevoli logge sparse nella provincia. Le scorse elezioni cittadine, fatte nella primavera del 2014, che hanno visto la riconferma, meno schiacciante, del sindaco uscente Filippeschi, ebbero come caratteristica predominante l’astensione, che raggiunse il livello record del 44,7%. Il Pd si conferma il primo partito, pur con un sensibile ridimensionamento, e si conferma soprattutto partito di potere, senza popolo, fatto di clientele, favoritismi e speculazioni. Gli anni di amministrazione di quest’individuo sono stati caratterizzati dalla repressione generalizzata a danno degli immigrati, degli sfrattati, delle realtà associazionistiche, degli studenti, a cui la città deve molto visto che hanno un peso cruciale nel reddito generale cittadino, che si ritrovano in una città sempre più blindata e vittima di politiche che castrano la socialità.
Negli ultimi dieci anni Pisa ha visto una cementificazione del suo territorio senza eguali. Terreni svenduti a comitati d’affari e palazzinari per costruirci sopra centri commerciali – tra i quali spicca l’Ikea, che oltre ad aver portato problemi alla viabilità, con le varie deviazioni stradali, a pochi mesi dalla sua apertura, ha già vertenze con i lavoratori per i suoi contratti che confermano le politiche reazionarie della multinazionale svedese – palazzine e villette. Nonostante si continui a costruire e nonostante le centinaia di appartamenti – interi palazzi soprattutto nel centro – e case sfitte la città soffre il grave problema, legato alla crisi, dell’emergenza abitativa. Molte famiglie a causa di mancanza di reddito da lavoro sono sotto sfratto, molte altre già sfrattate. A questa gente in difficoltà l’amministrazione non ha dato alcuna garanzia, anzi ha usato il pugno di ferro contro chi, a ragione, aveva occupato locali pubblici e privati. L’edilizia popolare langue, zone come S. Giusto e S. Ermete, la Cella e il Cep, storici quartieri popolari, sono abbandonate a se stesse con l’incuria e la fatiscenza che regnano sovrane. Al danno si aggiunge la beffa visto che si sta facendo piazza pulita anche dei pochi centri pubblici di aggregazione sociale, quali possono essere centri sportivi ad esempio, per favorire strutture private. Queste scelte oltre al danno materiale portano con se un danno ancor peggiore al tessuto sociale cittadino sempre più discretizzato e imbarbarito. Il paradosso è che mentre la città soffre appunto di questa mancanza di investimenti pubblici poi si vede costruire sotto gli occhi – senza sapere nemmeno in cosa consista – opere mastodontiche quanto inutili come il People Mover (al quale ci siamo opposti come circolo formando il comitato No-People Mover), una sorta di “monorotaia, che collegherà la stazione ferroviaria all’aeroporto, costato 85 milioni di Euro, che con l’escamotage del deficit spendig graverà sulle spalle inconsapevoli dei cittadini. L’opera attraversa sfacciatamente uno dei quartieri più poveri e trascurati di Pisa: S. Giusto. Dove dalle palazzine popolari fatiscenti la gente potrà ammirare quest’opera super-tecnologica e intanto mangiarsi le mani dalla miseria.
La provincia di Pisa ha avuto una grande regressione dal punto di vista economico. Negli ultimi quattro anni quasi un’impresa al giorno in provincia di Pisa ha chiuso per sempre le saracinesche. Quelle ancora aperte sopravvivono invece tra mille difficoltà, con i consumi che hanno subito una una significativa contrazione. Anche per l’artigianato toscano, fiore all’occhiello della regione, le cose non vanno bene, anzi: il 2016 è iniziato malissimo a gennaio sono cessate dall’Albo Artigiano 1.935 imprese, mentre le imprese iscritte sono 851 (dati Osservatorio regionale sull’Artigianato). Il saldo fra nate e morte è meno 1.084 imprese. Il piccolo commercio arranca sempre più stretto tra la morsa della crisi e delle multinazionali che erodono sempre più le entrate dei piccoli esercenti. A queste problematiche si aggiungono drammaticamente i problemi della disoccupazione che viaggia ai livelli della media nazionale.
Un’altra questione molto importante e spinosa è la questione dell’ampliamento dell’aeroporto con la costruzione di Hub militare. Noi della Sez. ci siamo opposti fin da subito al progetto promuovendo il comitato No-Hub, poiché siamo per la smilitarizzazione del territorio che a causa della vicina base americana di Camp Darby patisce sempre più. Base che storicamente si è resa partecipe dei peggiori traffici: dalle armi, alla droga, alle spie, ai fascisti.
SULLA UE e SULLA NATO
«Finché ci sarà uno stato non ci sarà libertà. Quando ci sarà libertà non ci sarà uno stato.» (Lenin)
Essere contro l’Unione europea non è nè di destra né di sinistra. Le motivazioni, che portano al rifiuto di quest’Istituzione, danno, ovviamente, una caratterizzazione politica in un senso o nell’altro. La destra nazionalista si oppone all’Europa Unita, come ha sempre fatto, per questioni nazionalistiche, protezionistiche, razziste. Al grido di: «ognuno a casa sua!» liquida la questione in modo populistico. Non si sofferma a fare considerazioni sistemiche sul ruolo sub-imperialista dell’UE e dell’Euro e sulle loro conseguenze politico-sociali. I comunisti invece partendo da queste premesse imperialistiche sviluppano una critica molto più articolata e puntuale; meno di “pancia” per così dire. Questa Ue è nata sotto la spinta dei grandi gruppi bancari, che tramite la Bce, oggi dettano legge e impartiscono indebitamente le politiche economiche agli Stati nazionali che la compongono. Politiche che hanno come pietre angolari: tagli allo stato sociale, precarizzazione totale del lavoro, tagli alle pensioni, svendita del patrimonio pubblico. Queste “ricette” forzose sono più riscontrabili nei paesi a capitalismo meno forte, i cosiddetti Piigs, che impoverendosi vanno conseguentemente ad arricchire lo Stato egemone della Ue così pensata: la Germania. Quando qualcuno parla di “altra Europa” o di riforma della Ue per distinguersi, a dir suo, dalle destre che ne propugnano acriticamente l’uscita, mentono sapendo di mentire o, più verosimilmente, hanno capito ben poco. Un’altra Europa, in senso sociale, in ambito capitalistico non è possibile. Abbiamo assistito da poco al fallimento di Syriza che ha messo a nudo tutti i limiti di una politica di accettazione dei diktat della Troika e del pagamento del debito. O si sovvertono le strutture di potere politico e finanziario che sono la cinghia di trasmissione della dittatura capitalistica o si soccombe inesorabilmente. Una struttura di potere tra le più pericolose e invasive è la Nato. Questa organizzazione, che venne messa in piedi in chiave anti-comunista, oggi assume più che mai il ruolo di agente di destabilizzazione in ogni parte del mondo. Con la scusa di difendere gli interessi “strategici” delle nazioni che ne fanno parte essa addestra nelle sue basi e finanzia gruppi neofascisti e terroristi di ogni risma per creare focolai di rivolta nelle zone che si vogliono destabilizzare e portare sotto controllo americano. In tal modo si crea la scusa per poter agire dispiegando tutto il suo potenziale guerrafondaio.
Per tale motivo noi comunisti ci opponiamo con vigore alla permanenza del nostro paese nella NATO e chiediamo la chiusura di tutte le basi NATO e americane sul suolo nazionale.
IL PARTITO
“Ogni membro del Partito comunista deve comprendere che a lui guardano i compagni di lavoro e di studio, i vicini di casa, i conoscenti e i parenti, come ad un combattente per un mondo migliore, per una società più giusta e più sana. Egli deve perciò preoccuparsi costantemente di essere di esempio con la sua vita privata, con la sua condotta verso la propria famiglia, i vicini, i compagni di lavoro, con il comportamento morale, l’onestà, lo spirito di solidarietà umana e sociale di cui dà prova. Ciò è tanto più necessario quanto più il compagno è conosciuto per l’attività che svolge e per le cariche che ricopre nel partito e nella vita sociale e politica.” (E. Berlinguer)
Sono ancora in tanti a definirsi anticapitalisti e comunisti nel panorama politico di un’Europa degradata economicamente e moralmente dalla crisi capitalista di inizio secolo. In Italia, come in Grecia e altrove, va in scena la pantomima dell’ “antipolitica”, come se si potessero cambiare le cose al netto della politica. Molti gruppi, formazioni, movimenti sono vittima di nuovi rigurgiti isolazionisti e di nuove tentazione autoreferenziali che già Lenin aveva individuato come un pericolo mortale per la sinistra. Molti infatti (stra)parlano di anticapitalismo e di politica ignorando alcuni degli scritti più significativi di uno che dovrebbe rappresentare il riferimento obbligato di qualsiasi rivoluzionario: “L’Estremismo” di Lenin.
Se non c’è solidarietà, rispetto è unità tra compagni la bontà delle formulazioni politiche, unitamente alla loro pratica, va a farsi benedire. Questo è successo negli ultimi 20/30 anni al movimento comunista – italiano e non – vittima indiscussa di opportunismi e personalismi vari che ne hanno favorito la disgregazione interna, quindi la residualità politico-sociale. Non ci sono comunisti più comunisti degli altri ci sono solo COMUNISTI e NON-COMUNISTI. L’invidia, la vanagloria, l’arrivismo, l’individualismo lasciamoli alla borghesia.
Il Partito Comunista non è una setta dei giusti, o peggio ancora dei puri, ma è il partito di tutti i lavoratori, anche di quelli che non sono comunisti, anche di quelli che hanno perso la coscienza di classe, ma che alla fine lotteranno insieme per ottenere un mondo più equo per la maggior parte dei suoi abitanti. Bisogna aver chiaro che il marxismo-leninismo non è “minoritarismo” politico, men che meno “settarismo” autoreferenziale. Come diceva Togliatti: «il Partito deve essere un partito di quadri ma allo stesso tempo di massa.» Nella capacità di coniugare dialetticamente queste due caratteristiche, apparentemente contraddittorie, sta la riuscita e l’incisività di un soggetto veramente rivoluzionario. Laddove rivoluzione significa sovvertimento, anche violento, dello stato di cose presenti. Come comunisti allora dobbiamo lavorare – in questo mondo corrotto, prostituito al denaro, dove le persone vivono l’alienazione del lavoro e della propaganda e lavorano per alimentare la propria schiavitù – per una presa di coscienza di classe dal respiro internazionale creando e portando avanti un’alternativa socio-economica possibile e necessaria, l’unica veramente perseguibile, la cui pietra angolare debba essere la ricerca continua, adogmatica di una visione d’insieme, su basi dialetticamente materialiste, coerente con la sostenibilità umana, economica ed ambientale: in una parola il socialismo-comunismo.
Goethe scrisse che: «il miglior governo è quello che insegna al popolo a governarsi da sé.» Concetto che è stato ampliato e sviluppato politicamente da Marx insieme a Engels e in parte anche praticato con l’esperienza della Comune di Parigi. Per Marx lo Stato borghese (falsamente democratico), che ha il compito di stemperare la lotta di classe dal basso verso l’alto (cioè per reprimere i poveri), deve estinguersi per lasciare spazio all’autogoverno del popolo, inteso come classe lavoratrice, passando attraverso la “fase” della dittatura del proletariato. La quale “dittatura” non è niente di così terribile e abominevole come alcuni vorrebbero far intendere, ma è la semplice sostituzione al potere di una classe dominante (minoritaria): la borghesia (capitalisti e banchieri), con un’altra (maggioritaria) il proletariato, i lavoratori. La poca considerazione storico-sociale che Marx ha per la classe media sta nella constatazione pratica che la cosiddetta classe media è una “meta-classe“, cioè una classe non stabile ma dipendente dai periodi di boom e recessione tipici dell’economia capitalistica, che porta questa meta-classe a svilupparsi o a contrarsi a seconda dello sviluppo economico contingente.
Oggi, ad esempio, stiamo assistendo, in questa fase di crisi, alla “proletarizzazione” del ceto medio.
Una volta che la stragrande maggioranza della popolazione prenderà il potere attraverso una vera e ampia forma di democrazia, bisognerà impedire che l’ex classe dominante (capitalisti e banchieri) riprenda il potere a discapito, nuovamente, della maggioranza (i lavoratori). La dittatura del proletariato serve a questo: a eliminare le differenze di classe. Per questo motivo è una fase transitoria che ha il compito di eliminare la burocrazia, l’esercito e il denaro così da impedire un ritorno al sistema capitalistico. Il lavoro salariato verrà eliminato e l’unica unità di misura del lavoro stesso sarà il tempo. Chi dedicherà parte del suo tempo per la produzione sociale avrà diritto ad acquisire beni e servizi prodotti appunto socialmente nelle necessità della società. Va da sé che una volta eliminato il vile denaro cesserebbero d’incanto lo sfruttamento, il potere dell’uomo sull’uomo, le banche, la corruzione, la criminalità organizzata e tutte le brutture tipiche di questo sistema socio-politico-economico. Il lavoro passerebbe dall’essere schiavitù a mezzo con cui l’uomo estrinseca il meglio di sé, il meglio che ha da dare; in una società superiore. Secondo la formula: «Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!» Chi avrebbe la pretesa di ritornare alla vecchia impostazione classista, nella fase della dittatura del proletariato, verrebbe represso allo stesso modo con cui lo Stato borghese oggi reprime chi scende in piazza per la pace, i diritti ed il lavoro. Quindi ci sarebbe un’inversione di tendenza: il popolo vittima diventerebbe, a ragione, “carnefice” per impedire che venga sottomesso di nuovo. L’umanità avrà futuro solo se si organizzerà in una società comunista, senza Stato e senza classi, altrimenti andrà incontro alla sua estinzione o peggio al ritorno ad una condizione “ferina“.
Oggi infatti assistiamo ad un imbruttimento della società a tutti i suoi livelli. La democrazia formale borghese si riduce a garantire l’abilità perversa di imprenditori politici e di lobbisti senza scrupoli, ed è il miglior sistema per assicurare che uomini pericolosi riescano ad arrivare al governo a discapito della collettività.
Cosa c’è di moderno in questo stato di cose? Cosa si sta facendo per elevare l’umanità materialmente e moralmente?
Stiamo assistendo ad un immane disastro in nome dell’arricchimento personale: medici distruggono la salute, le scuole distruggono il sapere, il Diritto distrugge la giustizia, i governi distruggono la libertà, il giornalismo distrugge l’informazione, la religione distrugge la morale, e le banche distruggono l’economia.Cosa c’è di progresso in tutto questo?La vera utopia non è pretendere un mondo migliore, senza distinzioni di classe, ma pensare che una società che va verso il baratro continui ancora a perpetuarsi.O socialismo o barbarie!
Obiettivi politici su cui lavorare per strappare l’egemonia alla masso-borghesia
Alla luce del processo di unificazione europeo promosso dai capitalisti che ha però prodotto solo l’unificazione monetaria dell’Europa, tutta interna alla gerarchia imperialista scaturita dopo la seconda guerra mondiale e che mantiene le divisioni, nazione per nazione, del proletariato deI nostro continente, occorre saper promuovere una politica di unificazione di tutto il proletariato europeo riprendendo la parola d’ordine del PCI sull’Eurocomunismo, chiedendo parallelamente una Carta costituzionale che dev’essere ripresa da quella sovietica e dalla nostra del 1948 come mediazione possibile, che metta al centro gli interessi dei lavoratori.
Inoltre occorre far recepire a tutto il mondo sindacale che il peggioramento delle loro condizioni è strettamente connesso al loro arretramento sociale e culturale sul fronte dell’antifascismo che consente ai capitalisti di riutilizzare i nazi-fascisti in tutta Europa come scudo contro le rivendicazioni dei lavoratori.
Visti poi i problemi occupazionali che ci sono, si deve lottare per la riduzione dell’orario di lavoro a 4 ore a parità di salario e alla parificazione contrattuale tra tutti i lavoratori europei per giungere ad una politica di autogestione delle fabbriche da parte dei lavoratori delle aziende private e pubbliche.
Occorre chiedere che il processo di unificazione europea veda l’entrata non solo della Gran Bretagna ma di tutti gli Stati appartenenti al Commonwelth e del cambio della moneta dalla sterlina all’euro. E’ evidente che per fare tale politica tutte le banche centrali, ma di fatto composte da entità private e loro succursali sul territorio devono essere nazionalizzate.
Questo è un obiettivo intermedio in quanto nel processo di costruzione del socialismo occorre liberare milioni e milioni di lavoratori dalla mercificazione salariale, creando un nuovo parametro/strumento per acquisire beni e servizi.
Questa nuova economica socialista-comunista usa l’orario di lavoro prestato alla società come mezzo per avere beni e servizi e per conseguire una reale eguaglianza tra tutti gli individui e tra tutti i lavori. Un’ora di lavoro di Marchionne non può valere migliaia di volte più di quella di un lavoratore in fonderia.
Occorre che i comunisti abbiano come obiettivo assoluto la PACE e quindi attuino una politica per uscire dalla NATO e per rendere l’Europa una nazione neutrale, che abbia un unico posto all’ONU.
Occorre comunque che nel contesto internazionale i comunisti lavorino per democratizzare l’ONU eliminando la supremazia politica delle cinque nazioni che fanno parte in modo permanente del Consiglio di sicurezza: Stati Uniti, Regno Unito (GB), Russia, Cina, Francia.
Per realizzare la PACE servono media non al servizio degli interessi privati ma dell’intera collettività e questo si realizza tramite la nazionalizzazione e l’autogestione dei media da parte dei lavoratori del settore.
Occorre lottare per eliminare il modello capitalistico-consumistico e questo si può fare meglio se si impedisce alle tecniche pubblicitarie di condizionare le nostre menti spingendoci al consumo compulsivo. Quindi occorre trasformare l’attuale bombardamento pubblicitario in una informazione corretta sulla qualità e durata dei prodotti, sulle loro utilità sociali e ricadute ambientali.
Le Forze armate debbono ritornare nell’ambito dell’articolo 11 della Costituzione e quindi forze popolari antifasciste e di difesa dei territori nazionali e questo principio deve valere nei processi di unificazione dell’Europa, quindi fuori dal controllo imperialista USA-NATO.
La Sanità dev’essere pubblica e uguale per tutti, gestita dai lavoratori del settore e dagli utenti, inclusiva dell’industria farmaceutica e del settore della ricerca, CNR e Università e priva di ogni logica speculativa.
Scuola e università pubbliche e gratuite di ogni ordine e grado, gestite da professori, studenti e personale non docente.
Dobbiamo lottare per il diritto costituzionale alla casa con un capillare censimento di tutti gli immobili pubblici e privati sfitti e utilizzabili allo scopo ripristinando forme di autogestione degli immobili e con spese di manutenzione a carico di chi ne usufruisce.
Parità assoluta tra uomo e donna in ogni comparto politico-sociale e di lavoro.
Il lavoro dev’essere indirizzato verso produzioni di alta qualità per tutti dove la durata nel tempo dev’essere la priorità per contenere ogni fenomeno di consumismo deleterio causa dell’inquinamento e dei disastri ambientali capitalistici.
Trasporti pubblici generalizzati gestiti dai lavoratori e dagli utenti e riforma complessiva del trasporto privato e della viabilità.
I comunisti devono lottare per un’agricoltura europea di alta qualità compatibile con l’ambiente e il paesaggio e fuori dai trattati ineguali come Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP).
I comunisti hanno il dovere di lottare per realizzare il contenuto programmatico dell’articolo 18 della nostra Costituzione contro le associazioni segrete, questo perché i comunisti sono contro la forma organizzata della dittatura delle borghesia che si realizza nella società tramite l’associazionismo massonico.
Quindi una lotta per una reale e più avanzata democrazia politica in Italia e in tutto il mondo, socialismo-comunismo, non può svolgersi se non contro la massoborghesia che infiltrando ogni struttura della società sia in ambito statale sia in ambito privato ne determina il completo controllo sia politico che economico, deformando le conquiste democratiche e costituzionali in una dittatura di classe.
Risoluzione sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria
(Approvata dal II Congresso della III Internazionale comunista)
Il proletariato mondiale è alla vigilia di lotte decisive. L’epoca nella quale viviamo è un’epoca di dirette guerre civili. L’ora decisiva si avvicina. In quasi tutti i paesi in cui esiste un importante movimento operaio, una serie di aspre lotte armate attende la classe operaia. Essa ha più che mai bisogno di una rigida e severa organizzazione. La classe operaia deve instancabilmente prepararsi a queste lotte senza perdere un’ora sola del tempo prezioso.
Se durante la Comune di Parigi (1871), la classe operaia avesse avuto un Partito comunista rigidamente organizzato, anche se piccolo, la prima eroica insurrezione del proletariato francese sarebbe stata molto più forte, e si sarebbero potuti evitare mille errori e debolezze. Le battaglie che attendono ora il proletariato, in una diversa situazione storica, saranno molto più gravide di conseguenze avvenire di quelle del 1871.
Il II congresso mondiale dell’Internazionale comunista richiama perciò l’attenzione degli operai rivoluzionari del mondo intero su quanto segue:
1) Il Partito comunista è una parte della classe operaia, e precisamente la sua parte più avanzata, dotata di maggior coscienza di classe e quindi più rivoluzionaria. Esso si forma attraverso la selezione spontanea dei lavoratori migliori, più coscienti, con maggior spirito di abnegazione, più perspicaci. Il Partito comunista non ha interessi divergenti da quelli dell’intera classe operaia. Esso si distingue dalla massa complessiva dei lavoratori per il fatto di possedere una visione generale dell’intero cammino storico della classe operaia e di sforzarsi di difendere, in tutti gli svolti di questo cammino, gli interessi non di singoli gruppi o categorie, ma della classe operaia nel suo insieme. Il Partito comunista è la leva organizzativo-politica, mediante la quale la parte più avanzata della classe operaia dirige sulla giusta via le masse proletarie e semi-proletarie.
2) Finché il potere statale non sarà conquistato dal proletariato e questo non avrà per sempre consolidato il suo dominio salvaguardandolo da una restaurazione borghese, il Partito comunista non comprenderà nelle sue file organizzate che una minoranza degli operai. Fino alla conquista del potere e nel periodo di transizione, il Partito comunista può, in circostanze favorevoli, esercitare una influenza morale e politica incontrastata su tutti gli strati proletari e semiproletari della popolazione, ma non può riunirli organizzativamente nelle proprie file. Solo dopo che la dittatura proletaria avrà strappato dalle mani della borghesia potenti mezzi di influenza come la stampa, la scuola, il parlamento, la chiesa, l’apparato amministrativo ecc., solo dopo che il definitivo crollo del regime borghese sarà apparso chiaro a tutti; solo allora la totalità o la quasi totalità degli operai comincerà ad entrare nelle file del Partito comunista.
3) Le nozioni di partito e classe devono essere tenute distinte col massimo rigore. I membri dei sindacati “cristiani” e liberali di Germania, Inghilterra ed altri paesi, appartengono indubbiamente alla classe operaia. I circoli operai più o meno considerevoli che ancora seguono Scheidemann, Gompers e consorti, fanno indubbiamente parte della classe operaia. In date circostanze storiche, è anzi possibilissimo che in seno alla classe operaia sussistano numerosi gruppi e strati reazionari. Il compito del comunismo non sta nell’adattarsi a questi elementi arretrati della classe operaia, ma nell’elevare l’intera classe al livello della sua avanguardia comunista. Lo scambio fra questi due concetti – partito e classe – può indurre ai più gravi errori e alla peggiore confusione. Per esempio, è chiaro che malgrado gli umori e i pregiudizi di una parte della classe operaia durante la guerra imperialistica, il partito operaio aveva il dovere di reagire ad ogni costo a questi umori e pregiudizi difendendo gli interessi storici del proletariato che imponevano al partito proletario di dichiarare guerra alla guerra.
Parimenti, all’inizio della guerra imperialistica nel 1914, i partiti dei social-traditori di tutti i paesi, nel sostenere la borghesia del “proprio” paese, si sono sempre e coerentemente appellati alla volontà, orientata nello stesso senso, della classe operaia, dimenticando che, se anche cosi fosse stato, compito del partito proletario in tale situazione avrebbe dovuto essere di opporsi agli umori della maggioranza degli operai e difendere malgrado tutto gli interessi storici del proletariato. Cosi pure alla fine del XIX secolo, i menscevichi russi di allora (i cosiddetti economisti) respingevano la lotta politica aperta contro lo zarismo con l’argomento che la classe operaia nel suo insieme non era ancora matura per comprendere la lotta politica. Allo stesso modo, gli indipendenti di destra in Germania hanno sempre giustificato le loro debolezze ed esitazioni col pretesto che “cosi vogliono le masse” – senza comprendere che il partito esiste appunto per precedere le masse e indicare loro la via.
4) L’Internazionale comunista ha la ferma convinzione che il fallimento dei vecchi partiti “socialdemocratici” della II Internazionale non può in alcun caso essere rappresentato come un fallimento del partito proletario in generale. L’epoca della lotta diretta per la dittatura proletaria dà alla luce un nuovo partito del proletariato – il partito comunista.
5) L’Internazionale comunista respinge nel modo più categorico l’idea che il proletariato possa compiere la sua rivoluzione senza avere un partito politico autonomo. Ogni lotta di classe è una lotta politica. L’obiettivo di questa lotta che si trasforma inevitabilmente in una guerra civile, è la conquista del potere politico. Ma il potere politico non può essere afferrato, organizzato e diretto se non da un partito politico. Solo se il proletariato ha alla sua testa un partito organizzato e temprato, con finalità nettamente definite e un programma ben preciso sui più immediati provvedimenti nel campo sia della politica interna che della politica estera, solo allora la conquista del potere politico non sarà un episodio fortuito e temporaneo, ma servirà da punto di partenza per un’opera duratura di edificazione comunista della società da parte del proletariato.
La stessa lotta di classe esige parimenti l’affasciamento centrale e la direzione unitaria delle varie forme del movimento proletario (sindacati, cooperative, consigli di fabbrica, attività educative, elezioni, ecc.). Un simile centro unificatore e dirigente può essere solo un partito politico. La rinunzia a creare e rafforzare un simile partito, e a subordinarvisi, equivale alla rinunzia all’unitarietà nella direzione dei singoli distaccamenti del proletariato che avanzano sui diversi campi di battaglia. La lotta di classe del proletariato esige un’agitazione concentrata che illumini le diverse tappe della lotta da un punto di vista unitario e diriga l’attenzione dei proletari, in ogni momento, su determinati compiti comuni alla intera classe; cosa che non può realizzarsi senza un apparato politico centralizzato, cioè all’infuori di un partito politico.
La propaganda dei sindacalisti rivoluzionari e degli aderenti agli “Industrial Workers of the World” (IWW) contro la necessità di un partito operaio autonomo, non ha perciò servito e non serve che di appoggio alla borghesia e ai “socialdemocratici” controrivoluzionari. Nella loro propaganda contro il Partito comunista, che essi pretendono di sostituire esclusivamente con sindacati o con informi unioni operaie “generali”, i sindacalisti e gli industrialisti si avvicinano, fino a fiancheggiarli, agli opportunisti dichiarati.
Dopo la sconfitta della rivoluzione 1905, i menscevichi russi hanno predicato per alcuni anni l’idea del cosiddetto congresso operaio, che avrebbe dovuto sostituire il partito rivoluzionario della classe lavoratrice. Gli “operaisti gialli” di ogni specie in Inghilterra e America predicano agli operai la creazione di informi unioni operaie o di vaghe associazioni meramente parlamentari in luogo del partito politico, nell’atto stesso in cui svolgono una politica in tutto e per tutto borghese. I sindacalisti rivoluzionari e gli industrialisti vogliono combattere contro la dittatura della borghesia, ma non sanno come. Non vedono che la classe operaia senza partito politico autonomo è un tronco senza testa.
Il sindacalismo rivoluzionario e l’industrialismo rappresentano un passo avanti solo in confronto alla vecchia, bolsa, controrivoluzionaria ideologia della II Internazionale, ma in confronto al marxismo rivoluzionario, cioè al comunismo, significano un passo indietro. La dichiarazione del Partito comunista operaio di Germania (KAPD) cosiddetto di sinistra, al suo congresso costitutivo dello scorso aprile, di creare bensì un partito, ma “non un partito nel senso tradizionale del termine”, significa una capitolazione intellettuale e morale di fronte alle concezioni reazionarie del sindacalismo e dell’industrialismo.
Con il solo sciopero generale, con la sola tattica delle braccia incrociate, la classe operaia non può ottenere vittoria sulla borghesia. Il proletariato deve ricorrere all’insurrezione armata. Chi ha compreso ciò, deve anche capire che a tal fine occorre un partito politico organizzato e non bastano informi unioni operaie.
I sindacalisti rivoluzionari parlano spesso del grande ruolo di una minoranza rivoluzionaria decisa. Ora, una minoranza veramente decisa della classe operaia, una minoranza che sia comunista, che voglia agire, che abbia un programma, che si proponga di organizzare la lotta delle masse, è appunto il Partito comunista.
6) Il compito più importante di un partito veramente comunista è di rimanere sempre in strettissimo contatto con le più larghe masse proletarie. Per raggiungere questo scopo, i comunisti possono e debbono lavorare anche in associazioni non di partito, ma abbraccianti vasti strati di proletari, come per esempio le organizzazioni di invalidi di guerra in diversi paesi, i comitati “Giù le mani dalla Russia” in Inghilterra, le leghe proletarie di inquilini, ecc. Particolarmente importante è l’esempio russo delle cosiddette conferenze di operai e contadini “senza partito”. Tali conferenze vengono organizzate in quasi ogni città, in ogni quartiere operaio e anche nelle campagne. Alle loro elezioni partecipano le più vaste masse anche dei lavoratori arretrati, e nel loro seno si discutono le questioni più scottanti: dell’approvvigionamento, della casa, della organizzazione militare, della scuola, dei compiti politici del giorno, ecc.. I comunisti cercano in tutti i modi di influire su queste conferenze “apartitiche” – e con enorme vantaggio per il partito.
I comunisti considerano come uno dei loro compiti fondamentali il lavoro organizzativo-educativo sistematico in seno a queste organizzazioni operaie a largo raggio. Ma, per impostare con successo un simile lavoro, per impedire ai nemici del proletariato rivoluzionario di impadronirsi di tali organizzazioni operaie di massa, gli operai comunisti di avanguardia debbono possedere il loro Partito comunista autonomo, un partito compatto che agisca sempre in modo organizzato e che, ad ogni svolto della situazione e qualunque forma assuma il movimento, sia in grado di discernere gli interessi generali del comunismo.
7) I comunisti non rifuggono da organizzazioni operaie di massa non partitiche e, in date circostanze, non temono di parteciparvi e di utilizzarle ai loro scopi neppure se rivestono un carattere apertamente reazionario (sindacati gialli, sindacati cristiani, ecc.). Il Partito comunista svolge incessantemente il suo lavoro in seno a queste organizzazioni e non si stanca di convincere gli operai che l’idea della apartiticità come principio è coltivata di proposito nelle loro file dalla borghesia e dai suoi lacchè, al fine di distrarre i proletari dalla lotta organizzata per il socialismo.
8) La vecchia e “classica” ripartizione del movimento operaio in tre forme – partito, sindacati, cooperative – è chiaramente superata. La rivoluzione proletaria in Russia ha creato la forma storica fondamentale della dittatura proletaria, i soviet o consigli operai. La nuova ripartizione verso la quale ci avviamo dovunque, è: 1) il partito, 2) i soviet, 3) i sindacati. Ma anche i soviet, come pure i sindacati rivoluzionari, devono essere costantemente e sistematicamente diretti dal partito del proletariato, cioè dal Partito comunista. L’avanguardia organizzata della classe operaia, il Partito comunista, deve dirigere le lotte dell’intera classe tanto sul terreno economico quanto sul terreno politico ed anche culturale; deve essere l’anima sia dei sindacati che dei soviet, come di tutte le altre forme di organizzazione proletaria.
La nascita dei soviet come forma storica fondamentale della dittatura del proletariato non sminuisce in alcun modo il ruolo dirigente del Partito comunista nella rivoluzione proletaria. Quando i comunisti tedeschi “di sinistra” (si veda il loro manifesto al proletariato tedesco del 14 aprile 1920, firmato “Partito operaio comunista di Germania”) dichiarano che “anche il partito si adatta sempre più all’idea dei consigli e assume un carattere proletario” (Kommunistische Arbeiterzeitung, n. 54), essi esprimono confusamente l’idea che il Partito comunista debba dissolversi nei soviet; che i soviet possano sostituire il Partito comunista.
Quest’idea è radicalmente falsa e reazionaria.
Nella storia della rivoluzione russa, abbiamo attraversato un’intera fase in cui i soviet marciavano contro il partito proletario e appoggiavano la politica degli agenti della borghesia. La stessa cosa si è potuta osservare in Germania. La stessa cosa è possibile anche in altri paesi.
Perché i soviet possano assolvere i loro compiti storici, è invece necessaria l’esistenza di un forte partito comunista che non si “adatti” semplicemente ai soviet, ma sia in grado di spingerli a ripudiare ogni “adattamento” alla borghesia e alla guardia bianca socialdemocratica e, attraverso le frazioni comuniste nei soviet, possa prendere i soviet stessi a rimorchio del Partito comunista.
Chi propone al Partito comunista di “adattarsi” ai soviet, chi vede in tale adattamento un rafforzamento del “carattere proletario del partito”, costui rende sia al partito che ai soviet un servizio quanto mai discutibile, costui non capisce il significato né del partito né dei soviet. L'”idea sovietica” vincerà tanto più rapidamente, quanto più forte sarà il partito da noi creato in ogni paese. Anche molti “indipendenti” e perfino socialisti di destra riconoscono oggi a parole la “idea sovietica”. Noi potremo impedire a questi elementi di deformare l’idea del soviet alla sola condizione di possedere un forte partito comunista, che sia in grado di influire in modo determinante sulla politica dei soviet, di trascinare i soviet dietro di sé.
9) La classe operaia ha bisogno del Partito comunista non solo fino alla conquista del potere, non solo durante tale conquista, ma anche dopo il passaggio del potere nelle mani della classe operaia. La storia del Partito comunista di Russia, che da quasi tre anni è al potere, mostra che l’importanza del partito comunista dopo la presa del potere da parte della classe operaia non solo non diminuisce, ma al contrario aumenta enormemente.
10) All’atto della presa del potere da parte del proletariato, il suo partito resta tuttavia, come prima, soltanto una parte della classe operaia. Ma è appunto quella parte della classe operaia che ha organizzato la vittoria: da due decenni come in Russia, da tutta una serie di anni come in Germania, il Partito comunista conduce la sua lotta non solo contro la borghesia, ma anche contro quei “socialisti” che sono gli agenti dell’influenza borghese sul proletariato; esso ha accolto nelle sue file i combattenti più tenaci, più lungimiranti, più evoluti della classe operaia. Solo grazie alla presenza di una cosi compatta organizzazione della élite della classe operaia, è possibile superare tutte le difficoltà che la dittatura proletaria trova sulla propria strada all’indomani della vittoria. Nell’organizzazione di una nuova armata rossa proletaria, nell’effettiva distruzione dell’apparato statale borghese e nella sua sostituzione con i primi germi di un nuovo apparato statale proletario, nella lotta contro il “patriottismo” locale e regionale, nell’apertura di vie verso la creazione di una nuova disciplina del lavoro – in tutti questi campi la parola decisiva spetta al Partito comunista. I suoi membri devono spronare e dirigere con il loro esempio la maggioranza della classe lavoratrice.
11) La necessità di un partito politico del proletariato cessa solo con l’eliminazione completa delle classi. Sul cammino verso la definitiva vittoria del comunismo, è possibile che l’importanza storica delle tre forme fondamentali dell’odierna organizzazione proletaria (partito, soviet, sindacati) si modifichi, e che a poco a poco si venga creando un tipo unitario di organizzazione operaia. Ma il Partito comunista si risolverà completamente nella classe operaia solo quando il comunismo cesserà di essere un obiettivo della lotta e l’intera classe lavoratrice sarà diventata comunista.
12) Il II Congresso dell’Internazionale comunista non si limita a confermare i compiti storici del Partito comunista in generale, ma dice al proletariato internazionale, sia pure nelle grandi linee, di quale partito comunista abbia bisogno.
13) L’Internazionale comunista è dell’avviso che soprattutto nel periodo della dittatura del proletariato il Partito comunista debba essere costruito sulla base di un ferreo centralismo proletario. Per dirigere con successo la classe operaia nella lunga ed aspra guerra civile necessariamente scoppiata, il Partito comunista deve instaurare nelle proprie file una disciplina di ferro, una disciplina militare. Le esperienze del Partito comunista che per anni ed anni, nella guerra civile russa, ha diretto la classe operaia, hanno mostrato che senza la più severa disciplina, senza un completo centralismo e senza la piena e cameratesca fiducia di tutte le organizzazioni di partito negli organi dirigenti del partito stesso, la vittoria degli operai è impossibile.
14) Il Partito comunista deve essere costruito sulla base del centralismo democratico. Il principio fondamentale del centralismo democratico è l’eleggibilità degli organi superiori da parte degli inferiori, il carattere incondizionatamente vincolante di tutte le direttive delle istanze superiori per le inferiori, e la presenza di un forte centro del partito la cui autorità sia riconosciuta universalmente, per tutti i compagni dirigenti, nell’intervallo fra un congresso del partito e l’altro.
15) Tutta una serie di partiti comunisti in Europa e in America è stata costretta dallo stato d’assedio proclamato dalla borghesia contro i comunisti a condurre un’esistenza illegale. Bisogna aver ben chiaro che, in tali circostanze, ci si trova nella necessità di prescindere dalla rigorosa attuazione del principio elettivo e di conferire agli organi direttivi del partito un diritto di cooptazione, come è avvenuto a suo tempo in Russia. Sotto lo stato d’assedio, il partito comunista non può servirsi in ogni grave questione del referendum democratico (come proposto da una parte dei comunisti americani); è invece costretto ad accordare al suo centro dirigente il diritto di prendere, quando necessario, decisioni importanti per tutti gli iscritti al partito.
16) La rivendicazione di un’ampia “autonomia” per le singole organizzazioni locali di partito indebolisce soltanto le file del Partito comunista, mina la sua capacità d’azione e favorisce le tendenze disgregatrici piccolo-borghesi e anarchiche.
17) Nei paesi in cui la borghesia o la socialdemocrazia controrivoluzionaria è ancora al potere, i partiti comunisti debbono imparare a collegare sistematicamente l’attività legale con quella illegale. A tal fine il lavoro legale deve essere sempre sottoposto all’effettivo controllo del partito illegale. I gruppi parlamentari comunisti, nelle istituzioni statali sia centrali che locali, devono soggiacere completamente al controllo dell’intero partito a prescindere totalmente dal fatto che tutto il partito sia, nel momento dato, legale o illegale. I deputati che in qualunque forma si rifiutano di subordinarsi al partito debbono essere espulsi dalle file dei comunisti. La stampa legale (giornali, case editrici), deve essere sottoposta senza limitazioni e condizioni all’intero partito e al suo comitato centrale.
18) Base dell’intera attività organizzativa del Partito comunista deve essere la costituzione dovunque di un nucleo comunista, per piccolo che sia al momento il numero di proletari e semi-proletari. In ogni soviet, in ogni sindacato, in ogni cooperativa, in ogni azienda, in ogni comitato di inquilini, dovunque si trovino anche tre persone che si schierano per il comunismo, deve essere immediatamente costituito un nucleo comunista. E’ solo la compattezza dei comunisti che dà all’avanguardia della classe operaia la possibilità di dirigere al suo seguito l’intera classe lavoratrice. Tutti i nuclei comunisti che lavorano in organizzazioni apartitiche devono essere assolutamente subordinati all’organizzazione generale del partito, a prescindere completamente dal fatto che il partito nel momento dato lavori legalmente o illegalmente. Tutti i nuclei comunisti devono essere subordinati l’uno all’altro in base al più rigoroso ordinamento gerarchico, secondo un sistema il più possibile preciso.
19) Il Partito comunista nasce quasi dovunque come partito urbano, come partito di operai di industria abitanti prevalentemente nelle città. Per la vittoria il più possibile facile e rapida della classe lavoratrice, è necessario che il Partito comunista diventi non soltanto il partito delle città, ma anche il partito delle campagne. Il Partito comunista deve svolgere la sua propaganda e la sua attività organizzativa fra i salariati agricoli e i contadini piccoli e medi, e lavorare con particolare cura alla organizzazione di nuclei comunisti nelle campagne.
L’organizzazione internazionale del proletariato può essere forte alla sola condizione che, in tutti i paesi in cui vivono e lottano dei comunisti, si rafforzino le concezioni sopra formulate sul ruolo del Partito comunista. L’Internazionale comunista ha invitato al suo congresso ogni sindacato che riconosca i principi della III Internazionale e sia pronto a rompere con l’Internazionale gialla. L’Internazionale comunista organizzerà una sezione internazionale dei sindacati rossi che stanno sul terreno del comunismo. L’Internazionale comunista non esiterà a collaborare con ogni organizzazione operaia non di partito disposta a condurre una seria lotta rivoluzionaria contro la borghesia. Ma l’Internazionale comunista, nel far ciò, addita ai proletari di tutto il mondo i seguenti principi:
1) Il Partito comunista è l’arma essenziale e fondamentale per l’emancipazione della classe operaia. In ogni paese dobbiamo avere oggi non gruppi o correnti, ma un partito comunista.
2) In ogni paese deve esistere soltanto un unico ed unitario partito comunista.
3) Il Partito comunista deve essere costruito sul principio della più rigorosa centralizzazione e, nell’epoca della guerra civile, instaurare nelle proprie file una disciplina militare.
4) Dovunque esista anche soltanto una dozzina di proletari o semi-proletari, il Partito comunista deve avere un suo nucleo organizzato.
5) In ogni istituzione non di partito, deve esistere un nucleo comunista severamente subordinato all’insieme del partito.
6) Nel difendere tenacemente ed energicamente il programma e la tattica rivoluzionaria del comunismo, il Partito comunista dev’essere sempre collegato nel modo più stretto alle organizzazioni operaie di massa ed evitare nella stessa misura il settarismo da un lato e la mancanza di principi dall’altro.
(LENIN)