In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è
se non dominio delle condizioni di lavoro
autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore…
cioè i mezzi di produzione… e i mezzi d sussistenza,…
benché tale rapporto si realizzi soltanto
nel processo di produzione reale,
che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore;
processo di autovalorizzazione del capitale anticipato.
Marx, Il Capitale, libro I, cap. VI inedito.
di Carla Filosa
Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale della giornata lavorativa. Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione, l’ineffabile ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale. I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.
Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale. Il titolo apparso (Smart working) sul Sole 24ore (1.12.15) a proposito della geniale proposta del ministro G. Poletti di abolire il criterio temporale applicato al lavoro – altrui, si sarebbe completato in altri tempi – , non fa eccezione. Nell’articolo citato, rispondono poi i metalmeccanici Cisl, senza avvedersi della portata del problema.
L’inimitabile trovata, non del suddetto ministro, che non ci sarebbe mai arrivato da solo, ma del suo “think tank” (cordata di pensatoi), merita quindi di andare a fondo in questa ennesima obsoleta“innovazione”.
“L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione” – scrive la Repubblica del 28.11.15, in prima pagina – “Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la retribuzione oraria”. La citazione del quotidiano continua perché l’espediente si sposta su «un tema culturale su cui lavorare», da inserire naturalmente nell’apposito scrigno del Jobs Act approntato all’uopo. Il ministro è andato a spiegare alla Luiss che «il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più risultato. Per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà». Le suadenti e alate motivazioni puntavano poi a rinverdire le vetuste “forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa”, di cui in seguito tecnici deputati, cioè “economisti e giuslavoristi”, dovranno “immaginare il futuro su questo tema”. In altri termini, tecnici organici al sistema – a sostituzione dei lavoratori titolari dell’erogazione lavorativa e destinatari della modifica delle condizioni lavorative – manovreranno queste ultime a favore dei datori di lavoro!
Dallo stesso quotidiano si apprende ancora che Maurizio Del Conte, docente alla Bocconi di diritto del lavoro, consulente di Palazzo Chigi e coautore del Jobs Act, presidente dell’Anpal (nuova agenzia di collocamento) ha incentivato poi, a supporto del ministro, il “lavoro agile” riferendosi all’attuale Legge di Stabilità. In questa “ci sono norme per la contrattazione di produttività, premiata con l’aliquota secca del 10% fino a un tetto di 2mila euro per la produttività partecipata che non è la partecipazione agli utili ma organizzativa. I lavoratori decidono con l’azienda come ottenere incrementi di produttività, quando e quanto premiarli. Una novità che vogliamo estendere anche al lavoro agile”…”Il lavoro agile non è un altro tipo di contratto. Ma un modo nuovo di organizzare il vecchio contratto subordinato che però non va archiviato, ma aggiornato e organizzato in modo diverso…Le aziende devono uscire dallo schema classico delle 40 ore. E’ un problema culturale più che sindacale… Cambia il modo di retribuire, perché cambia il modo di lavorare. E se ho lavoratori contenti perché passano più tempo a casa o all’aperto o allungano il weekend, si incentiva la fidelizzazione, dunque la produttività, e i salari crescono. Un cambio di paradigma rispetto alla retribuzione piatta: una quota del lavoro si svolge fuori dallo spazio e dal tempo classici. E i parametri per misurare e retribuire questa quota vengono fissati dall’azienda con i lavoratori. Ma ci arriveremo per gradi”.
Adesso proviamo a decodificare questo linguaggio fascinoso e mistificante. Innanzitutto tutti i significati di smart vengono racchiusi entro un concetto di “agilità” che non è chiaro se si riferisce ai datori di lavoro (in vista di maggiori profitti!), o ai lavoratori flessibilizzati, si ipotizza, “a loro piacimento”. Non si parla più – pare sia superfluo – dei rapporti di proprietà, ovvero dell’inestinto rapporto di “comando sul lavoro altrui”, ancorché dissimulato ma assolutamente presente nelle forme del ricatto esplicitato o dell’imbonimento occultato nei confronti di un lavoro perennemente dipendente dalle condizioni lavorative, unilateralmente gestite dai datori di lavoro. L’apparente cogestione remunerativa viene legittimata tecnicamente. Si evitano così i termini storici e sociali di un tuttora dominante comando capitalistico, modificabile da un’indifferente tecnologia avanzata, che però l’uso capitalistico rende sempre funzionale allo sfruttamento aumentato della forza-lavoro. Obiettivo cui tutto il panegirico precedente tende senza parere.
Al fattore “risultato” il sistema di capitale ha sempre teso. Già nel Capitale di Marx (1861) viene chiaramente detto che per il capitale il salario a tempo è meno vantaggioso di quello a cottimo, cioè a “risultato”, perché quest’ultimo, “forma mutata del salario a tempo” (Cap. I, 19), “tende da un lato a sviluppare l’individualità e con ciò il sentimento della libertà, l’autonomia e l’autocontrollo degli operai, dall’altro a sviluppare la loro concorrenza fra di loro e degli uni contro gli altri. Esso ha perciò la tendenza ad abbassare il livello medio dei salari mediante l’aumento dei salari individuali al di sopra del livello stesso… il capitale non può estendere la giornata lavorativa altro che aumentando l’intensità del lavoro… Variando la produttività del lavoro, una stessa quantità di prodotti rappresenta un tempo di lavoro vario. Quindi varia anche il salario a cottimo, perché esso è l’espressione del prezzo di un determinato tempo di lavoro. Il salario a cottimo viene abbassato nella stessa proporzione in cui cresce il numero degli articoli prodotto durante lo stesso tempo, e quindi diminuisce il tempo di lavoro impiegato per lo stesso articolo. Questo variare del salario a cottimo, in quanto è puramente nominale, provoca costanti lotte tra capitalista e operaio. O perché il capitalista si serve di questo pretesto per abbassare realmente il prezzo del lavoro, o perché l’aumento della forza produttiva del lavoro è accompagnato da un’accresciuta intensità di quest’ultimo. O perché l’operaio prende sul serio l’apparenza del salario a cottimo e crede che gli venga pagato il suo prodotto e non la sua forza-lavoro e quindi si oppone a una riduzione del salario alla quale non corrisponde la riduzione del prezzo di vendita della merce.”
“Il salario a cottimo diventa fonte fecondissima di detrazioni sul salario e di truffe capitalistiche. Esso offre al capitalista una misura ben definita dell’intensità del lavoro... Se l’operaio non possiede la capacità media di rendimento (in termini di tempo di lavoro socialmente necessario ), se quindi non è in grado di fornire un determinato minimo di opera giornaliera, lo si licenzia… Questa forma costituisce quindi la base tanto del moderno lavoro domestico.. quanto di un sistema di sfruttamento e di oppressione gerarchicamente articolato… Da una parte il salario a cottimo facilita l’inserimento di parassiti fra capitalista e operaio salariato, cioè il subaffitto del lavoro. Il guadagno degli intermediari deriva esclusivamente dalla differenza fra il prezzo del lavoro pagato dal capitalista e quella parte di questo prezzo che essi lasciano realmente pervenire all’operaio. Questo sistema si chiama in Inghilterra lo “sweating–system ” (sistema del sudore). Dall’altra parte, il salario a cottimo permette al capitalista di concludere con il capo operaio… un contratto per tanti e tanti articoli a un prezzo (e qui probabilmente si instaura la “partecipazione organizzativa” attuale, con suggerimenti premiabili), per il quale il capo operaio stesso si assume l’arruolamento e il pagamento dei suoi operai ausiliari. Lo sfruttamento degli operai da parte del capitale si attua qui mediante lo sfruttamento dell’operaio da parte dell’operaio.”
Altre testimonianze agli albori del lavoro a cottimo riferiscono che “il lavoro dei garzoni artigiani sarà regolato a giornata o a pezzo… I mastri artigiani sanno all’incirca quanto lavoro gli operai possono compiere in ogni mestiere, e quindi li pagano spesso in proporzione al lavoro che compiono; in tal modo questi garzoni lavorano, nel proprio interesse, quanto più possono, senza alcuna sorveglianza.” (Cantillon, Essai sur la nature du commerce en général, Amsterdam 1756, pp. 185 e 202).
“Spesso si assumono operai in previsione di un lavoro incerto, talvolta anche immaginario: siccome sono pagati a cottimo, si dice che non si rischia nulla, giacché tutte le perdite di tempo saranno a carico degli operai che non lavorano” (H. Grégoir, Les typographes devant le tribunal correctionnel de Bruxelles, Bruxelles, 1865 p.9).
Se non si fraintende, il lavoro misurato sul tempo non scompare – nella fraudolenta “innovazione” da immettere nella legge della regolazione lavorativa – ma viene affiancato, fors’anche con parziali modifiche, da una quantità di lavoro “fuori dal tempo e dallo spazio”. Già qui è necessario chiedere aiuto alla logica – quella del “futuro”, evidentemente – per capire come misurare una quantità senza categorie spazio-temporali. E’ come chiedere un pezzo di stoffa per un vestito senza disporre di metri o altre unità di misura. Se ne può prendere quanta se ne vuole, fino, si spera, allo stop irato del venditore che se la vede sottrarre tutta.
Dunque, quella forma – in quanto “forma” – lavoro salariato [lohnarbeit, non solo arbeit = lavoro] risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Si fa così giustizia di ogni altro pseudo-criterio, dalla remunerazione del rendimento e dalla partecipazione del lavoratore al risultato dell’impresa, fino alla fruizione di una quota di reddito nazionale, e via armonizzando. A proposito dell’esigenza che è stata prospettata recentemente [“recentemente” (!) lo scriveva già Marx più di un secolo e mezzo fa nei Lineamenti (lf, q.ii; f.28)] “talvolta con autocompiacimento, di dare ai lavoratori una certa partecipazione al profitto, non può trattarsi che di un premio speciale, che può raggiungere il suo scopo solo in quanto eccezione alla regola; e in effetti nella prassi normale si limita a una incetta di singoli sorveglianti ecc., nell’interesse del padrone contro l’interesse della sua classe; oppure di impiegati ecc., ossia, in breve, non più al semplice salariato, e quindi nemmeno al rapporto generale; oppure si tratta di una particolare maniera di truffare i salariati trattenendo una parte del loro salario sotto la forma precaria di un profitto che dipende dalla situazione dell’azienda. Ma che questa pretesa contraddica il rapporto stesso risulta dalla semplice riflessione che, se il risparmio del salariato non deve rimanere un semplice prodotto della circolazione – denaro risparmiato che può essere realizzato solo convertendolo prima o poi nel contenuto sostanziale della ricchezza, ossia in godimenti – il denaro accumulato stesso dovrebbe diventare capitale, ossia dovrebbe comprare lavoro, riferirsi al lavoro come valore d’uso. Il risparmio del lavoratore presuppone dunque a sua volta lavoro-che-non-è-capitale, e presuppone che il lavoro sia diventato il suo <contrario> — cioè non-lavoro. Per diventare capitale, esso presuppone già il lavoro-come-non-capitale di fronte al capitale; insomma, il ristabilimento dell’antitesi, che deve essere soppressa in un punto, in un altro punto. Se dunque già nel rapporto originario l’oggetto e il prodotto dello scambio del lavoratore – come prodotto dello scambio semplice esso non può essere altro prodotto che questo – non fossero il valore d’uso, i mezzi di sussistenza, la soddisfazione del bisogno immediato, la sottrazione dalla circolazione dell’equivalente in essa introdotto per distruggerlo mediante il consumo —— allora il lavoro si contrapporrebbe al capitale non come lavoro, non come non-capitale, ma come capitale. Ma anche il capitale non può contrapporsi al capitale se al capitale non si contrappone il lavoro, giacché il capitale è capitale solo in quanto non-lavoro; in questa relazione antitetica. Ossia, verrebbe negato il concetto e il rapporto del capitale stesso”.
È bene perciò chiarire che il lavoro [o, più correttamente, l’uso della forza-lavoro, di questa merce venduta ad altri] è divenuto organicamente dipendente per tutto il tempo stabilito, senza altri limiti o eccezioni, da colui che lo ha acquistato – il padrone (qui il borghese capitalista, l’imprenditore…) – e pertanto non ha nulla a che vedere con la supposta “partecipazione azionaria” dei dipendenti, tanto di moda e diffusa nella socialdemocrazia tedesca e sancita definitivamente nel congresso di Bad Godesberg del 1959 con quell’abbandono del marxismo che, dopo il programma di Erfurt del 1891, segnò l’instancabile assillante cammino intrapreso per primo da Eduard Bernstein con il suo revisionismo, sempre perdente a parole nel suo partito, di rincorsa al sistema capitalistico borghese fino a riuscire ad arrivare comunque al tracollo del marxismo nei partiti socialisti europei con la resa di Bad Godesberg. Si capisce, dunque, come si sia giunti all’“annichilimento” della classe lavoratrice.
Annichilimento realizzatosi, ora è quasi due secoli, mediante mezzi di produzione di proprietà capitalistica a tecnologia costantemente rinnovatasi, che utilizzano maggiormente il lavoratore in modo sempre più invisibilmente raffinato. Il lavoro vivo, ovvero la forza-lavoro in generale dei lavoratori utilizzati, viene risucchiato entro il valore in generale appropriato dal capitale, ed in esso si trasforma senza più apparire come in origine. Così incorporata al capitale che si “autovalorizza”, l’energia vitale dei lavoratori scompare anche nei tempi della sua erogazione essendo divenuta – per il solo arbitrio del “diritto proprietario” del capitale – valore conservato e maggiorato nell’oggettivazione alienata del capitale.
Realtà già in atto di fabbriche digitali si trovano presso Vodafone Italia, alla Fca di Pomigliano, alla Sevel (produce il Ducato), alla Zf Padova, ecc. dove si lavora con margini di autonomia, anche a distanza, con flessibilità orarie in entrate e uscite, ecc. Le modifiche funzionali alle innovazioni sono forme di un progresso produttivo sollecitato dal sistema di capitale, tale progresso oggettivo non necessita però, in prospettiva, della direzione capitalistica che ne aliena e distorce l’utilità sociale. Il lavoro è sempre quello socialmente necessario, cioè calcolabile in base ai tempi di una tecnologia generalmente affermatasi come più conveniente per chi l’ha promossa. Il tempo quindi non può essere abolito in nessuna alchimia politica, essendo la misura dell’intensità lavorativa richiesta. Si vuole solo sottintendere, o non mostrare, che il tempo di lavoro tende sempre più a coincidere con il tempo di vita, e che quest’ultima deve essere funzionale solo al bene lavoro nella sua crescente rarefazione.
La specificità della merce forza-lavoro è che anche se venduta, appropriata, trasformata e apparentemente perduta, rimane comunque attaccata al suo portatore, come una malattia incurabile (per il capitale!). Questo portatore è anche portatore di bisogni materiali inestinguibili strutturalmente antitetici a quelli capitalistici, tendenzialmente infiniti rispetto alla concentrazione limitata dei capitali. Di fronte al bisogno estremo della vita di una classe marginalizzata o resa superflua, ma che nell’esproprio si ingrandisce in termini planetari, l’autonomia da questo potere dialetticamente distruttivo sempre localizzato, nazionalizzato, regionalizzato, ecc. potrebbe configurarsi con la necessità di uno tsunami incontenibile e senza appuntamento.
7 febbraio 2016