La mamma degli imbecilli è sempre incinta.
Approfittando del tempo non si è, però, perso il “vizietto” di dare l’informazione addossando responsabilità ad attori politici che erano contrari alle scelte terroristiche delle BR. Nel caso specifico, nel paragrafo “Fingere di sapere tutto“, si parla di cooperative “che hanno fatto capo al Pd (ex Ds, ex Pds, ex Pci)” quando sappiamo tutti che quest’ultima formazione politica era ferreamente contraria (l’unica, veramente, contraria) a scelte scellarate e controproducenti, per non dire, di verso contrario oltre al fatto che, quando i terroristi vennero aiutati, non esisteva più da qualche anno.
MOWA
STEFANO CASELLI ED EMILIANO LIUZZI
Poi è successo all’italiana: discussioni su come chiudere gli anni di piombo, sì, no, il parere degli intellettuali, delle vittime e dei carnefici. Della politica. E la politica ha finito col mettere l’ultima parola: gli anni di piombo si sono chiusi da soli. I parenti delle vittime e le vittime stesse, salvo rare eccezioni, hanno preso solo bastonate; i terroristi hanno cercato di prendere le distanze dal passato. Molti sono rimasti irriducibili. Altri hanno taciuto, altri si sono pentiti.
Con un risultato, anche questo, molto italiano: non sappiamo ancora quanti fossero con esattezza i carnefici di via Fani, chi sparò, se Aldo Moro venne tenuto solo nella prigione di via Montalcini e perché le forze dell’ordine non andarono a cercare in via Gradoli. Insomma, facciamo finta di aver saputo tutto, ma sappiamo sempre poco.
Fingere di sapere tutto
Il risultato però c’è stato: nessuno è più in galera, ormai da tempo. Nessuno dei carnefici dei pluriomicidi, dei fondatori storici. Hanno trovato lavori in media dignitosi, aiutati in qualche modo dalle cooperative che hanno fatto capo al Pd (ex Ds, ex Pds, ex Pci) e a Comunione e liberazione o alla Caritas. Molti, e qui siamo al paradosso, dalla clandestinità sono passati alla vita dei social, qualcuno continua a farlo dalla latitanza perché non tornò mai e nessuno e più nessuno lo cerca. Paradosso, è Mario Moretti che vive in una casa dell’Istituto di previdenza dei giornalisti a Milano. A pieno titolo: la moglie è una giornalista, non c’è bisogno di spiegare che si va a vivere con l’uomo che volle il rapimento Moro e decise, in quasi solitudine, che doveva essere giustiziato.
Una delle figure più controverse, insieme a quella di Moretti, è Giovanni Senzani, nato a Forlì, dal 2004 in semilibertà e dal 2010 uomo libero. Ha 73 anni, è sordo da un orecchio, è stato uno dei protagonisti al funerale di Prospero Gallinari, un raduno tra l’inquietante e il patetico. Senzani, giusto per intenderci, fu quello che tenne prigioniero e assassino Roberto Peci, il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito delle Br. Poi gli tolse la benda dagli occhi per vedere se dopo 11 colpi era morto. Lui stesso disse che fu un gesto di pietà.
Ma più che la storia, quella di accademico e ideologo della lotta armata, a contaminare il passato di Senzani sono, ancora una volta, i legami con i servizi segreti: divideva una casa con un ufficiale al momento dell’arresto, e fu tra quelli che frequentarono l’Hyperion, la scuola di lingue a Parigi che puzzava di centrale dei servizi deviati.
Ma nessuno lo ha mai ammesso. Senzani ha scritto anche un libro e un film con Pippo Debono, ed è stato ospitato a Locarno. Adesso è ufficialmente pensionato, ma appena è nella condizione sfoggia ancora l’intelletto applicato alla lotta. Sposò la sorella di Enrico Fenzi anche lui uno dei pochissimi intellettuali all’interno delle Br: Fenzi in carcere ha fatto una comparsa di tre anni. Continua oggi a scrivere libri e a studiare Dante e Petrarca. E’ pensionato anche lui. Una storia a parte quella di Renato Curcio e Alberto Franceschini, fondatori delle Brigate rosse, ma senza nessun reato di sangue alle spalle: vennero arrestati a Pinerolo nel 1974, prima della stagione di sangue brigatista. Curcio dirige una casa editrice, Sensibili alle foglie e fa il sociologo. Franceschini scrive e ha lavorato per l’Arci. Nella colonna romana, quella che portò a termine la strage di via Fani e il sequestro Moro, facevano parte, tra gli altri, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Anna Laura Braghetti, locataria dell’appartamento di via Montalcini, Germano Maccari, Rita Algranati, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, uno dei latitanti, ancora oggi, in Nicaragua, dove gestisce un ristorante e si fotografa su Facebook, appunto. Casimirri era in via Fani oltre ad aver ucciso il giudice Girolamo Tartaglione.
Il ragazzo con la P38
Comunque, anche tutti gli altri ex compagni, sono liberi. Non solo: pochi giorni fa Faranda e Bonisoli sono stati invitati a Scandicci a tenere un corso per i magistrati.
Lauro Azzolini, invece, ha lavorato per una società vicina alla Compagnia delle Opere, la cassaforte di Cielle.
Ora è in pensione. Il suo nome da non confondere con quello di Maurizio Azzolini che nel 2012 lavorava nell’ufficio di gabinetto del vice sindaco di Milano: quell’Azzolini è il protagonista della fotografia che ha fatto la storia degli anni di piombo, il giovane col passamontagna che impugna ad altezza d’uomo una P38 durante una manifestazione, sempre a Milano. Un capitolo a parte riguarda Marco Barbone, il terrorista che uccise alle spalle il giornalista Walter Tobagi. Ebbe una condanna relativamente breve (fu lui a scaricare sul corpo già a terra il colpo di grazia): otto anni e sei mesi perché si pentì subito. Ma dopo la condanna uscì dal carcere in libertà condizionata. Lavorò alla Compagnia delle Opere, forziere di Comunione e liberazione, come responsabile della comunicazione, è titolare di una ditta individuale, collabora anche con Il Giornale e il settimanale Tempi. Sergio Segio, ex Prima Linea, condannato per l’omicidio del giudice Alessandrini, è stato nel Gruppo Abele responsabile per la stampa, la comunicazione e il settore progetti sul carcere e collabora con Libera.Vive a Torino la sua ex compagna Susanna Ronconi, attiva nelle scienze sociali e umanistiche con una ditta a lei intestata. E’ invece in un paese vicino a Cremona Paola Besuschio, all’epoca dell’omicidio Moro in carcere: le Br chiesero la sua liberazione in cambio di Moro. Ha una sua ditta. Valerio Morucci, il postino durante il sequestro Moro, lavora come impiegato alla ditta G-Risk srl, a Roma, specializzata in organizzazione, gestione tecnica e finanziaria, studio e realizzazioni di espansione delle attività aziendali. Pietro Giovanni Bertolazzi è dipendente della cooperativa Futura, che assiste gli ex detenuti. Vive a Piacenza. Franco Bonisoli, invece, è dipendente della Compass Group Italia, a Milano. Barbara Balzerani, irriducibile, una scrittrice. Nel 2014 ha percepito il reddito della società dilettantistica polisportiva Ciabocco Andrea srl, società concessionaria della gestione del Parco della Madonnetta, a Roma.
Degno di nota, infine, è che molti ex terroristi siano oggi a loro agio sui social network.
Da clandestini a social
E’ difficile rimanere indifferenti al paradosso di uomini e donne che, un tempo votati alla clandestinità, si consegnano (alcuni senza nessun filtro) all’agorà voyeur di Facebook. Clamoroso il caso di Alessio Casimirri, attivo sulla piattaforma fino a 4 anni fa dalle spiagge del Nicaragua, dove era solito farsi ritrarre con variopinti pesci tropicali appena pescati.
Ma sono parecchi quelli più o meno attivi, e non mancano nomi di rilievo sia tra gli ex delle Brigate rosse che tra gli ex di Prima Linea. Alcuni non sembrano cambiati per nulla e colmano le loro bacheche di militanza, altri (decisamente i più simpatici, solitamente i pesci più piccoli) discettano di calcio e attualità varia. E’ un loro sacrosanto diritto, ci mancherebbe. Alla fine, per evitare sterili moralismi sempre in agguato quando si affrontano questi temi, è utile rileggere un passo di Primo Levi: “Qui, come in altri fenomeni, – scrive ne I Sommersi e i Salvati – ci troviamo davanti ad una paradossale analogia tra vittima e oppressore, e ci preme essere chiari: i due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e l’ha fatta scattare, e se ne soffre è giusto che ne soffra; ed è iniquo che ne soffra la vittima, come invece ne soffre, anche a distanza di decenni”.
Insomma, i ruoli vanno tenuti distinti, le responsabilità non si discutono, ma tanti ex – soprattutto i meno noti – sono caduti in quello che Levi chiama ”la stessa trappola”. Sono a loro modo, vittime: di loro stessi, del tempo in cui hanno avuto vent’anni, delle circostanze che li hanno condotti a fare scelti terribili… Per questo motivo hanno il diritto di sentirsi “ex” e di vivere nuove vite. Ma nessuno mai potrà impedire alle vere vittime di sottoscrivere quanto da anni ripete Andrea Casalegno, figlio del vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno ucciso dalle Br a Torino nel 1976: “Si può essere ex terroristi, ma non si può essere ex assassini”.
29 febbraio 2016