Nota di Enzo Pellegrin Segretario Provinciale di Torino CSP Partito Comunista
Nelle pieghe dell’accordo sulla rappresentanza si nasconde non solo l’azzeramento della lotta ma si pongono le basi per ostacolare ogni prospettiva di sindacato di classe. Il tutto in un’Europa che conta ormai 80 milioni di disoccupati e sottoccupati. Il mondo del lavoro non è immune dalla pesante controffensiva culturale volta a scardinare ogni prospettiva di classe nell’analisi della situazione politica ed economica. L’affermazione si accompagna ad un chiaro esempio: mentre mainstream mediatico, teatrino parlamentare e forze politiche ivi gravitanti si spendono nel fare eco e polemica degli spari di piazza montecitorio, nessuno si occupa delle pallottole – ben otto, sparate, si dice, ad altezza d’uomo – destinate agli operai ex PIP che a Palermo manifestavano di fronte all’Assemblea Regionale Siciliana. Nel silenzio generale, attutito dal falso impegno del tradizionale concerto musicale di Piazza San Giovanni, avanza minaccioso il patto sulla rappresentanza accettato dal direttivo nazionale CGIL con la sola opposizione della rete 28 aprile, introduce ripercussioni non da poco sulle dinamiche contrattuali. Ai tavoli dei contratti nazionali parteciperanno solo le organizzazioni che rappresentano almeno il 5% degli iscritti, ai tavoli di quelli aziendali le RSU ed i loro sindacati. Ogni accordo diviene valido se la maggioranza dei sindacati o delle RSU lo sottoscrive.
E’ possibile la consultazione dei lavoratori se lo chiede almeno una delle organizzazioni presenti al tavolo, oppure almeno il 30% dei lavoratori.Dove sta il trucco?
L’accordo prevede che per accedere a questo sistema di rappresentanza le organizzazioni che hanno la possibilità di accedervi devono sottoscrivere la rinuncia a contestare i futuri accordi che verranno adottati da quelle maggioranze. In pratica, una volta che un contratto è stato accettato dalle maggioranze, chi non è d’accordo non può più contestarlo, fare sciopero, fare azione autonoma, pena l’esclusione dai successivi tavoli. A ben vedere è la realizzazione del Modello Marchionne su scala nazionale: chi dissente non parlerà più, non tratterà più. Appare evidente il tentativo di isolamento nei confronti di ogni opposizione e lotta non legata alle dinamiche consociative dei sindacati confederali. La strenua lotta dei lavoratori di Pomigliano, SLAI COBAS in testa, ha rappresentato e poteva rappresentare un vero ostacolo al procedere della logica consociativista, così’ anche le lotte dei lavoratori del san Raffaele, della Trenord, che si svolgono in assenza delle sigle confederali. Il 18 aprile di quest’anno l’opposizione sociale di Torino, i sindacati di base CUB, Cobas, gli operatori non dormienti, Giallo Sociale, hanno promosso uno sciopero separato del settore assistenza Enti Locali e Sanità. Lo scopo era sconfessare i sindacati confederali, promotori dell’astensione solo a senso unico, contro la sola Giunta regionale di centro destra Cota, dimenticando che i tagli ai servizi, alla Sanità, ai diritti dei lavoratori sono portati avanti altrettanto dalla Giunta comunale di Fassino. Alla fine del corteo confederale sfilava infatti anche il PD: contestatissimo dall’opposizione sociale, come avviene in ogni occasione in cui i democratici torinesi mettono fuori il naso nelle piazze. Poche le forze politiche oltre a CSP Partito Comunista che sono scese solidalmente vicino a questi lavoratori. Il Governissimo sindacale mira ad anestetizzare la costruzione di questi fronti uniti di lotta. Al pari delle istituzioni, l’opposizione è accettata solo se di Sua Maestà il capitalismo.
Nei cortei del Primo Maggio, a Torino ed a Pomigliano, il grido di lotta di questa opposizione sociale si è nuovamente sentito. Le aspre contestazioni al PD torinese, i fischi ormai di protocollo al Sindaco Fassino hanno richiamato l’assemblea operaia del Comitato di lotta delle mogli degli Operai di Pomigliano, dello SLAI COBAS della città vesuviana.
La lotta quindi è presente e dà fastidio. Ecco perchè entra in campo la controffensiva per rendere il dissenso “giuridicamente irrilevante”. Chi avesse ancora dubbi sulla natura intimamente borghese delle sovrastrutture giuridiche ha un altro esempio di fronte a se. La legalità non è mai indifferente, non è mai cieca, ci vede benissimo e sa come ordinare i rapporti di produzione sulla base degli interessi della classe al potere. Eppure la storia insegna che la contrapposizione sindacale più dura ha sempre portato i frutti migliori, anche approdando a “conquiste intermedie” di valore: lo Statuto dei Lavoratori nasce dalle lotte, non dal consociativismo, la dura opposizione sul salario costrinse i capitalisti all’innovazione tecnologica, non il contrario.
Il consociativismo ed i patti tra lavoro e capitale finirono sempre per arretrare ed eliminare i diritti conquistati, ad uno ad uno, come la recente storia dei sindacati confederali e del centrosinistra dimostrano. Persino i tecnici del capitale si accorgono del valore delle lotte e della direzione che li costringe ad imboccare. Sulla rivista tecnica “GDOWeek”, foglio di settore per le imprese della grande distribuzione organizzata (la c.d. G.D.O.), Cristina Lazzati del Sole 24 ore analizza le contromisure adottate dai vari rivenditori di merci al consumo in Europa. Contrariamente alla “pax sindacale” italiana, le ristrutturazioni aziendali nel settore commercio e grande distribuzione nei paesi del Sud Europa, come anche in altre parti del globo hanno incontrato opposizioni più serie, scioperi più frequenti, azioni di lotta più determinate. Ecco allora cosa mette in luce l’editoriale: “troppo spesso razionalizzare è diventato sinonimo di tagli di marketing, di personale… Con l’obiettivo di guadagnare tempo e denaro. Operazioni suicide, dettate dalla paura. lo sono ancora di più per le aziende del commercio, per definizione <aziende di servizi> . Zeynep Ton, docente di Harvard, … sottolinea come l’investimento delle persone sia direttamente proporzionale al successo di un retailer (rivenditore n.d.r.), qualche nome? Mercadona (rivenditore spagnolo), Trader’s Joe , CostCo e Quicktrip, tutti retailer low cost in controtendenza: anche durante la crisi hanno continuato a guadagnare e ad aprire nuovi punti vendita. ll segreto non è però solo nella busta paga, ma nella stabilità di orari, nella limitazione del part-time, nelle assicurazioni sanitarie pagate in toto. …. se si vogliono mantenere stipendi più alti del mercato si deve agire su altre leve di costo. Quali? Ognuno ha trovato la sua ricetta: Trader’s Joe non fa promozioni, CostCo espone la merce sul pallet… Anche coloro che hanno azionisti a cui rispondere devono saper reggere il mugugno di questi, perché il mugugno del proprio personale costa di più.
A tutti, anche agli azionisti”[1]
Chissà se in CGIL si legge qualche rivista del capitale allo scopo di affinare l’analisi e la strategia?
Si acquisirebbe l’informazione che il capitale ovunque (persino negli USA!) anche nei momenti di crisi, teme il sindacato combattivo, non consociativo, non solamente orientato all’ottenimento di condizioni vantaggiose di vendita della forza lavoro, tra l’altro in una miope lotta contingente, ma orientato secondo una prospettiva di opposizione sociale e di classe. Un sindacato di tal genere, privilegiando l’unificazione delle lotte, è in grado di portare i risultati più vantaggiosi non soltanto in una visione di lunga durata, ma anche nel breve periodo, costringendo il capitalista ad effettuare scelte alternative quando di fronte a se’ si trova una dura opposizione, in grado di danneggiarlo pesantemente. Razionalmente soppesando gli svantaggi di una dura lotta con un fronte unito di lavoratori, il capitale sceglie anche nel breve periodo una contromisura diversa. Questo succede però quando l’attività sindacale si estrinseca come efficace fronte combattivo. Quando invece ci si trova di fronte ai maggiori sindacati che invece conducono una politica pattizia e concertativa, ecco che per il capitalista si apre una prospettiva diversa e allettante: mantenere il proprio tasso di profitto attraverso la diminuzione della forza lavoro, attraverso il suo maggiore sfruttamento con l’estensione dell’orario a parità di salario, l’utilizzo dei contratti atipici ed a tempo parziale, la diminuzione delle garanzie, del diritto ad ammalarsi, del diritto a scioperare. Quando il mugugno del personale diventa irrilevante, si apre l’autostrada dello sfruttamento. Ben sottolineava Dario Ortolano nell’articolo “Per la ricostruzione di un sindacato di classe”[2] come già nel “Che Fare” Lenin prendeva posizione contro ogni forma di anestesia del conflitto sociale: “Lenin accusa il bernsteinismo di predicare l’attenuazione degli antagonismi sociali e l’insensatezza della rivoluzione, riducendo il movimento operaio e la lotta di classe ad un gretto rivendicazionismo economico ed alla richiesta di riforme graduali. Allo stesso modo, la rinuncia alla lotta e la condanna dell’assalto al cielo praticato dal sindacalismo confederale in nome di patti di “trentiniana memoria” (Camusso docet…) rappresenta il miglior amico del capitale. In tal senso, L’accordo interconfederale si rivela uno dei tanti mattoni che il capitale aggiunge alle politiche di austerità per la creazione di un esercito industriale di riserva, ristrutturare pesantemente il mercato del lavoro, ormai sempre più pesantemente caratterizzato dalla figura del “working poor”, povero che lavora.
Chi ha dubbi sul fatto che le ragioni delle politiche di austerità adottate con la scusa della crisi non stiano nella profonda ristrutturazione in tal senso del mercato del lavoro, per mezzo può avere una risposta nei dati sulla disoccupazione dell’indagine Eurostat. La leva dell’aumento della disoccupazione consente lo sviluppo delle forme di lavoro atipiche, a tempo parziale, a tempo determinato: ”Gli ultimi dati dell’indagine Eurostat mostrano che nel 2012, 43 milioni di persone lavorano a tempo parziale nell’Unione europea, a cui si aggiungono 26 milioni di disoccupati e 11 milioni di persone in età attiva, ma senza lavoro.Il numero di lavoratori part-time è in costante aumento dall’inizio della crisi: dal 18,5% della forza lavoro europea del 2008 al 21,4% del 2012.Con lo sviluppo della cosiddetta “flexicurity” nella UE, il lavoro a tempo parziale assurge a standard.
Rappresenta all’incirca un quarto dei posti di lavoro in Belgio e in Danimarca (25,7%), in Germania (26,5%), in Irlanda (23,9%), in Austria (25,5%), nel Regno Unito (27%) e in Svezia (26,5%). I Paesi Bassi hanno il primato di questa forma di precarietà, con un part-time su due (49,8%).I posti di lavoro a tempo parziale rappresentano il 18% dei posti di lavoro in Francia.
A livello europeo, un lavoratore a tempo parziale su quattro vorrebbe lavorare di più. Questa percentuale è al 24,7% in Francia, il 33,6% in Irlanda, il 42,8% in Portogallo. I lavoratori in questa condizione sono la maggioranza a Cipro (50,4%), in Spagna (54,6%) e in Grecia (66%).
Avere un posto di lavoro è sempre meno un fattore per uscire dalla povertà o dalla precarietà.Un’indagine dell’Istituto tedesco di statistica, Destatis, dimostrava nell’agosto dello scorso anno che il 20% dei lavoratori tedeschi erano poveri, vittime di contratti di lavoro precario (a tempo parziale, a tempo determinato, mini-jobs). Questa cifra tende ad aumentare. Anche Danimarca e Svezia conoscono questo nuovo fenomeno di “lavoratori poveri”, a causa della recente liberalizzazione del mercato del lavoro. Il tasso di lavoratori poveri è aumentato dal 5 al 10% in Svezia, tra il 2005 e il 2012.
I dati ufficiali stimano che l’Unione europea conta 26 milioni di disoccupati, 10 milioni in più dal 2008, con un tasso di disoccupazione ufficiale all’11% nel mese di febbraio 2013, contro il 6,8% del febbraio 2008.
I tassi più elevati si registrano ovviamente in Grecia (26,4%) e in Spagna (26,3%), seguite dal Portogallo (17,5%), l’Irlanda (14,2%) e la Slovacchia (14,6%).Nella popolazione i più vulnerabili sono i giovani: uno su quattro è disoccupato nella UE (23,5%), la maggioranza in Grecia (58,4%) e in Spagna (55,7%) e una significativa minoranza in Portogallo (38,2%) e in Italia (37,8%).Tuttavia, come rivela l’indagine Eurostat, questi dati nascondono un certo numero di persone in età attiva, ma senza lavoro. Sono le persone con età compresa tra i 15 e i 74 anni, disponibili al lavoro, ma non in cerca di occupazione (8,8 milioni di lavoratori) o in cerca di lavoro, ma non disponibili (2,3 milioni di lavoratori).
Sommando i lavoratori sottoccupati, quelli ufficialmente disoccupati, quelli attivi, ma senza impiego, si raggiunge la cifra di 80 milioni di persone sottoccupate o non occupate.
Riportato al numero di lavoratori attivi nella UE, 240 milioni, si può stimare che un terzo dei lavoratori sono vittime di precarietà o di disoccupazione, diretta o indiretta.”[3]
Il panorama italiano presenta nere nubi sul futuro: non solo per il tentativo anestetizzante di questo accordo, ma anche per la passione per la “flexicurity” presente anche nelle forze di opposizione al governo Letta. La discussione sul reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia di molte opposizioni, metterà in luce questo nervo scoperto. Il reddito di cittadinanza, obolo conferito ad ogni disoccupato, può nascondere un doppio intento ed è strumentalizzabile dallo stesso capitale che ha generato la crisi. Nelle esperienze dei vari sistemi capitalisti, esso si è sempre accompagnato, con la scusa della sua sostenibilità, ad una limitazione del periodo di erogazione, coniugato all’obbligo di accettazione di un qualsiasi lavoro al termine del periodo “sabbatico” concesso, pena la perdita del beneficio. Questo è stato lo strumento, con le riforme Hartz IV in Germania, ma anche similmente in Danimarca, Regno Unito, per alimentare un mercato di sottoccupazione legalizzato. I dati di cui sopra lo dimostrano nei fatti. Per chi invece ha bisogno di una riflessione “letteraria” o culturale, è significativo guardarsi la pellicola “My Name is Joe” di Ken Loach. 80 milioni di sfruttati, 80 milioni di buone ragioni per comprendere l’assoluta necessità di una lotta radicale non solo contro le politiche di austerità, non solo contro quello che inesatte analisi definiscono “neoliberismo”, ma di una lotta per rovesciare il sistema capitalista che ne è responsabile con i suoi strumenti di potere: uno tra i più importanti è l’Unione europea. Le parole e le azioni di tutte quelle forze politiche e sindacali europee che conducono la lotta contro la UE sono quindi da sostenere, prima che sia troppo tardi.
Enzo Pellegrin Segretario Provinciale di TorinoCSP Partito Comunista
[1] Cristina Lazzati, Razionalizzare i costi non significa tagliare, GDOWeek 07 2013 22 aprile, editoriale a p. 3
[2] D.Ortolano, Per la ricostruzione di un sindacato di classe, www.partitocomunistapiemonte.it
[3] Record nell’Unione Europea: 80 milioni di lavoratori sottoccupati o disoccupati, un terzo degli attivi, Solidarite Internationale, PCF, www.resistenze.org, osservatorio, Europa, politica e società, 27/4/2013, n. 451.