II pollaio intellettuale italiano è in grande agitazione. Non basta più gridare allo scandalo; molti si mettono ormai le mani nei capelli: non c’è più religione! Urlano in grammatica: il mondo va a rotoli! S’approssima il secondo millennio che segnerà la fine di questa putrida umanità!
Uno persino ha trovato nel vocabolario le parole per incitare i compagni di fede a difendere col pugnale e con la pistola i Mani sacrilegamente violentati!
I futuristi! Per i buoni italiani non potevano essere che un numero da caffè concerto, un sostituto delle pulci ammaestrate ai baracconi delle fiere, e ora c’è qualcuno che minaccia di prenderli sul serio, di studiarli e di capirli! È grave, veramente, sì, è grave!
Che uomo meraviglioso Giovanni Papini! È bastato che con le sue bestemmie sulla diva Roma[1] si attirasse le urlate e gli sberleffi del gaglioffo canagliume giornalistico ancor fresco di aver intonato con pifferi e cennamelle il classico taratantara tripolino, perché avvenisse nelle coscienze di coloro che ancora una scintilla d’intelligenza conservavano, in qualche riposta piega del loro cervello, una reazione contro l’incarognimento generale.
Ma del resto il riconoscimento non poteva mancare; nella presente spaventosa povertà di produzione artistica, era fatale che chi lavorava per una fede, per un’idea, dovesse prevalere.
La letteratura, per riconoscimento generale, era divenuta una ruffiana del giornale, coi relativi azionisti; rifugiata nelle terze pagine, distillata a dosi fisse, doveva servire a procurare nei giorni di grasso una tranquilla digestione alle trippe dei buoni borghesi. E Palazzeschi, Govoni, Buzzi sono invece ciò che di meglio la letteratura poetica odierna può offrire alla storia, ciò che assolverà dinanzi alle generazioni future tutti i milioni d’imbecilli che sporcano carta; essi saranno letti anche quando ormai i volumi dei Benelli, degli Zuccoli, dei Moschino, dei Tumiati serviranno ottimamente ai salsicciai e forniranno magnifici reggichiffons alle cocottes di provincia.
Non hanno avuto finora i futuristi nessun critico intelligente: ecco perché non furono curati. Se qualche gazzettiere crociano ci avesse scritto su un paio di articoli, chi sa adesso quanti scopritori d’Americhe!
Invece: Papini stesso, nei suoi pur buoni scritti[2], ha cercato solo di fissare le ragioni etiche e storiche per cui i futuristi sono stati derisi; Prezzolini, G. S. Gargano, ecc. hanno cercato di far vedere che le novità del futurismo non sono precisamente novità[3]; vero, arcivero, ma perché non dirci perché essi sono artisti e non zampognari?
L’ultima manifestazione di Marinetti[4], che ai più, e forse anche a qualche suo amico, è sembrata una pagliacciata, la penultima girandola di un esaltato d’ingegno, avrebbe da sola dovuto far pensare e discutere, se da noi ci fosse davvero tutto quell’interesse per le cose artistiche, che si è strombazzato, perché essa si ricollega alla nuova tendenza dell’arte odiernissima, dalla musica alla pittura dei cubisti. La prova di Adrianopoli assedio-orchestra[5] è una forma di espressione linguistica che trova il suo perfetto riscontro nella forma pittorica di Ardengo Soffici o di Pablo Picasso; è anch’essa una scomposizione in piani dell’immagine; questa non si presenta alla fantasia sfumata negli avverbi o negli aggettivi, lievemente snodantesi nelle congiunzioni e nelle preposizioni, ma come una serie successiva o parallela o intersecantesi di sostantivi-piani, dai limiti bene fissati: è da vedere se Marinetti ha dato vera vita artistica a questa sua forma d’espressione, ma chi ha preso sul serio la rivoluzione di Sem Benelli nella tecnica dell’endecasillabo[6] non ha il diritto di ghignare faunescamente sulla prosa del futurista.
Sono già incominciati i preparativi di resistenza, ma, ahimè, fossero davvero capaci questi poverelli di usare la schioppetta e il pugnale!
Purtroppo, come disse Papini, da Roma partirono le aquile per la conquista del mondo, e rimasero a guardia le oche; ma il crocidare e lo starnazzare delle oche ormai non è più preso sul serio; il giochetto, appena scoperto, è stato smontato: e i pugnali e le pistole si sono risolte per via in una giaculatoria: Dio li ha pervasi di uno spirito di stordimento! La battaglia in verità è troppo disuguale; il gruppo gelatinoso dei nuovi romantici si accontenta di pubblicare ogni quindici giorni una nuova effigie di S. Giorgio[7] col solito drago trafitto; ma il drago è trafitto solo sulla carta: e quella gelatina ai raggi del sole si disfà, e ritorna inevitabilmente broda di lasagne, retaggio degli avi illustri. L’arte è una troppo acerba Angelica per le reni infiacchite dallo sbaciucchiare delle grate del confessionale e i nuovi venuti con tutta l’incompostezza, con tutto il turgore dei muscoli mostranti lo sforzo, hanno troppa vitalità, perché possa farli retrocedere il bisbiglio e il piss-piss delle comarelle[8].
[1] Alludeva a II discorso su Roma, letto da Papini nel corso di una tumultuosa manifestazione futurista al teatro Costanzi di Roma il 21 febbraio 1913 (cfr. “Lacerba”, anno I, n. 5, i° marzo 1913; ora in “Lacerba” – “La Voce” (1914-1916), a cura di Gianni Scalia, Einaudi, Torino 1962, pp. 139-48).
[2] Si trattava degli scritti lacerbiani in difesa del movimento futurista, poi raccolti in G. Papini, L’esperienza futurista (1913-1914), Vallecchi, Firenze 1914.
[3] Si riferiva quasi certamente agli articoli di Giuseppe Prezzolini, Futurismo vecchio e nuovo, in “La Stampa”, 4 aprile 1913, e Alcune idee chiare intorno al futurismo, in “La Voce”, anno v, n. 15, 10 aprile 1913, e all’articolo di G. S. Gargano, Poesia futurista, in “Il Marzocco”, anno xvni, n. 18, 4 maggio 1913.
[4] II Manifesto tecnico della letteratura futurista, pubblicato l’n maggio 1912 in foglio volante, e il supplemento al medesimo dell’n agosto dello stesso anno (ora in Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1973, pp. 77-91).
[5] F. T. Marinetti, Adrianopoli assedio orchestra, in “Lacerba”, anno 1, n. 6, 15 marzo 1913 (ora in “Lacerba” – “La Voce” (1914-1916) cit., pp. 149-54).
[6] In occasione della rappresentazione del Mantellaccio (1911), Ettore Cozzani aveva pubblicato nel ” Giornale d’Italia ” un saggio sull’endecasillabo benelliano come “verso sofferto”.
[7] Si riferiva alla rivista “San Giorgio. Giornale dei nuovi romantici”, pubblicata a Bologna dal i° dicembre 1912 al 15 luglio 1913 e diretta da Timoteo Solaroli (sostituito con l’ultimo numero da Eugenio Giovannetti); fra i collaboratori: Domenico Giuliotti, Ferdinando Paolieri, Federigo Tozzi. Un attacco della rivista ai futuristi era apparso nel n. 5-6, 15-28 febbraio 1913: Futurismo becero, a firma “Criticus”.
[8]Per i diversi giudizi dati da Gramsci sul movimento futurista, cfr. i successivi articoli Cavour e Marinetti (vol. II), Marinetti rivoluzionario?, in «L’Ordine Nuovo», 5 gennaio 1921 (SF, 20-22) e la lettera sul futurismo pubblicata da Trockij in appendice al suo libro Literatura i revoljucija, Izdatel’stvo «Krasnaja nov’», Glavpolitprosvet, Moskva 1923, pp. 116-18 (trad. it. Letteratura e rivoluzione, introduzione di V. Strada, Einaudi, Torino 1973, pp. 141-43; e SF, 527-28); cfr. anche Q, 1,115.