Un contributo alla riflessione sul rapporto fra canzone popolare e militanza politica
Pierpaolo Capovilla*
*Frontman del Teatro degli Orrori
“Un cantante deve fare il cantante, non il politico! Basta con questa ipocrisia!”. “Non hai il diritto di usare la tua pagina Facebook per fare politica! Così influenzi i più giovani!”. “Usi i social per fare propaganda fra i più giovani. Vergogna”.
Qualche giorno fa scrissi un duro post sulla mia pagina Facebook in favore del “no” alla controriforma costituzionale. Questi sopra sono solo alcuni dei messaggi pervenuti alla mia bacheca in quell’occasione. La maggioranza degli altri messaggi era di approvazione e incoraggiamento, certamente scritti da giovani e meno giovani di sinistra, magari iscritti all’ANPI o all’ARCI, o gravitanti nel mondo dell’antagonismo. Altri ancora erano messaggi ingiuriosi. Ma questi tre sopra, scelti fra i tanti, sono particolarmente significativi, e mi offrono l’occasione di fare una riflessione sul senso di fare musica leggera oggi, in Italia. Disvelano infatti un’opinione molto diffusa nella società italiana, e questa opinione cela una visione del rapporto fra spettacolo e politica – che c’è nella società italiana – fors’anche più preoccupante.
Penso che l’involuzione culturale manifestantesi nel paese in questi anni, stia raggiungendo traguardi ideologici mai raggiunti prima. L’idea diffusa che musica e spettacolo debbano tenersi lontani dal conflitto politico, pena la loro riduzione a fenomeni “politici” e quindi non più “artistici”, è l’espressione di un’apoteosi ideologica del dominio sovrastrutturale del capitale nelle menti della gente.
L’arte, e con essa la canzone popolare, incontrerebbe nella militanza il suo punto di non ritorno, il disconoscimento di quella purezza estetica che farebbe dell’arte la sua ragion d’essere. Si tratta chiaramente di una stupidaggine, ma tant’è, molte persone la pensano proprio così.
Dovetti armarmi di pazienza, e rispondere per le rime ai tanti detrattori. Lo feci con calma e circostanza, perché credo fermamente nell’arte della maieutica: prima che nello scontro, credo nel confronto e nella discussione, e nel tentativo di rendere comprensibile a molti o alcuni ciò che sorprendentemente sembrerebbe non esserlo più, nel tentativo non sempre disperato di cooptazione culturale dell’interlocutore: prima di mandarti a quel paese, cercherò di farti comprendere la bontà delle mie idee. Volli quindi rispondere.
In primo luogo un “cantante” è un cittadino, cosa più che ovvia, e come cittadino è portatore della sacrosanta libertà di esprimere le proprie opinioni come dove e quando vuole. Secondariamente un “cantante” non è semplicemente un’ugola capace di modulare la propria voce meglio di altri (io poi non lo sono affatto, le mie capacità vocali sono tristemente insufficienti), ma a volte è anche uno scrittore, un autore, a volte un poeta, e in quanto tale un intellettuale: mancherei al mio dovere, se non contribuissi al confronto politico. E poi, e poi come dimenticare la lunga e gloriosa tradizione cantautorale italiana, quelle di De André, Dalla, De Gregori, Guccini, Lolli, Venditti, Graziani, Gaetano, Pino Daniele, Bennato, gli Area, Finardi, e quanti altri…
Tutte queste ovvie considerazioni, sono spesso per niente ovvie anche fra arcinote e blasonatissime figure della musica leggera italiana. Vorrei raccontare una bizzarra esperienza che feci l’estate scorsa. Ero a Roma per la promozione di “Obtorto Collo”, il mio primo disco solista. Fui invitato a cena da Sergio, un manager Universal. Con noi c’erano ben quattro famosissime cantanti pop italiane. Non farò i loro nomi, non avrebbe senso. La più famosa in assoluto, una di quelle che riempiono gli stadi, incominciò una penosa discussione su Suor Cristina, dicendo: “Ma insomma!, Una suora deve occuparsi dei poveri, dei bisognosi, non certo andare in TV a cantare. È inconcepibile!” Le feci notare che una suora è innanzitutto una donna, e come tale è una cittadina, e in quanto cittadina ha il diritto di andare a cantare in TV, come chiunque altro. Poi le spiegai (io sono figlio di un’ex suora dell’Ordine Paolino) che la dottrina sociale della Romana Chiesa Cattolica d’Occidente non soltanto non impedisce, ma sollecita e incoraggia i suoi membri a fare evangelizzazione a tutti i livelli della società, senza escluderne alcuno. Alla fine le feci osservare che anche lei, che sfoggiava un terribile Rolex tempestato di diamanti (lo aveva comprato il giorno stesso, la cena era per festeggiarne l’acquisto) avrebbe potuto, se soltanto avesse voluto, rendersi utile socialmente, magari proprio in aiuto degli ultimi e degli emarginati: avrebbe potuto fare persino di più di Suor Cristina, che… poverina, già non se la fila più nessuno.
Ecco in che condizione sono i “cantanti”, quelli dei grandi numeri. Politicamente analfabeti. Artisticamente irrilevanti. Culturalmente inadeguati. Soltanto in un paio di aspetti, così caratteristici della società italiana contemporanea, eccellono come nessuno: nel narcisismo qualunquistico e nell’individualismo economico.
Perdonatemi, care compagne e compagni, questo excursus sull’imbecillità epidemica che sembra dominare la musica leggera italiana, per lo meno quella “mainstream”. Io vengo dalla scena musicale indipendente, e di questa sono diventato, malgrado tutto, un protagonista. Da molti anni ho l’impressione che nel mondo della musica leggera italiana, anche di quella “indipendente”, si sia sviluppato un più o meno consapevole processo di autocensura fra gli artisti, gli autori e i parolieri. Sembra che ci sia una certa paura, un timore del e verso il potere. E verso il potente di turno. Guai a pestargli i piedi, perché non si sa mai; oggigiorno farsi dei nemici a livello politico può portare soltanto guai. Molto meglio farsi gli affari propri.
Ecco allora non soltanto una sconfinata produzione musicale priva di spirito narrativo e tensione poetica, priva di critica sociale, vuota, inconsistente, superficiale, ignorante, quella “mainstream”. Ma anche un’innumerevole produzione “indie” che non ha niente da dire o raccontare, se non le strasolite figure dell’innamoramento giovanile (letto sempre e soltanto attraverso la lente dell’ipostatizzazione del particolare – un’esperienza personale?, un fatto privato dal quale procede il destino del mondo? – in universale, come se l’amore, la coppia, e in ultima analisi ciò che Lacan chiamerebbe “costruzione della famiglia”, fossero le uniche cose di cui vale la pena “cantare”).
Ecco allora una “nuova canzone italiana” il cui vocabolario è conformisticamente tanto povero da condurre a narrazioni epigrafiche irrisolte, non perché metaforiche, ma perché incapaci di raccontare alcunché. Ecco allora le piccole, ma straordinarie, vette dell’imbecillità di canzoni come “Ti Pretendo”, stupidissimo ma assolutamente esemplare esempio di inconsapevolezza e conformismo autoriale: ve la ricordate? Era di RAF, anni novanta, ma sembra pubblicata ieri: “io non ti voglio, ti pretendo, sei l’unico diritto che ho”. Come se l’amore fosse un “diritto”, come se “pretendere” fosse un’espressione autentica del desiderio, come se tutti gli altri diritti (come quello di esser lasciati in pace) non esistessero, visto che l’unico diritto è … l’amore. O la pretesa di esso. E poi ci meravigliamo se gli uomini prevaricano le donne, le inseguono e perseguitano, le violentano e le uccidono. Quella canzone di RAF è l’esempio, fra i più calzanti ch’io conosca, dell’ignoranza e della superficialità della canzone italiana, oggi. E in qualche misura, anche della sua “disutilità”.
Perché una canzone, quando te la trasmettono in radio cento volte al giorno, è un fatto “politico”, c’è poco da fare. E gli autori oggigiorno, spesso, troppo spesso, non si rendono conto del ruolo sociale che il loro mestiere incarna in questa società fluida ed errante, naufraga degli ideali novecenteschi, imprigionata nel presente, incapace di scorgere alcun futuro se non quello del tirare a campare.
Eppure l’Italia è stata la patria della tradizione cantautorale, di quella “canzone d’autore” che fece della musica leggera italiana un esempio di poesia e cultura, di narrazione e letteratura, di valori e militanza. Cosa è cambiato negli ultimi trent’anni? Perché non scriviamo e suoniamo e cantiamo più canzoni profonde e toccanti? Dov’è finita, dove si è nascosta quella tensione poetica che rese leggendari i repertori di un Fabrizio de André o di un Pino Daniele? Certo, la canzone è pur sempre lo specchio della società e dei tempi in cui viviamo. Ma quando l’arte, e con essa la musica leggera, rinuncia ad osservare e descrivere le contraddizioni sociali in cui viviamo, rinuncia certamente anche a cambiare il paese, e rinuncia così al futuro, accontentandosi ostinatamente di un sempiterno presente, che scorre nelle e sulle nostre vite, indifferente al loro stesso destino. Io, da tempo ormai, me ne sono fatto una ragione. Ma non mi sono mai arreso a questa contemporaneità.
Per dirla con Agamben, “è davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”. Ho compreso che fare musica e canzone d’autore, qui e oggi, esige quello “scarto”, quell’ “anacronismo” e quell’ “inattualità”, di cui autori e musicisti sembrano non accorgersi più, inconsapevolmente o meno. La musica leggera italiana è stata presa d’assalto da un esercito di analfabeti di ritorno, tutti, dico tutti ignari del significato sovrastrutturale e ideologico delle loro canzoni, della loro musica, delle loro stesse figure pubbliche, delle loro stesse stupide insignificanti e miserabili esistenze. Siamo all’ “A-Politica”, alla diserzione del significante dal significato, all’analfabetismo narrativo-letterario, e infine, al precipizio etico. La cultura umanistica, nell’Italia dell’oggi, vive il suo momento peggiore degli ultimi cinquant’anni. Lo si evince facilmente proprio ascoltando le canzoni. I grandi “tormentoni” radiofonici sono sempre canzoni sciocche, il cui fulcro narrativo coincide sempre con lo stesso tema: l’amore e il rapporto di genere, trascurando tutto, ma proprio tutto il resto. Il perché di questa rinuncia e sconfitta poetica non è difficile da rintracciare. È nel mercato musicale stesso, composto di lobbies discografiche e radiofoniche legate al diritto di edizione, nella loro ideologia dell’intrattenimento, che coincide con l’esigenza di vendere canzoni (non importa se fisicamente, o solo attraverso l’ascolto, che comunque genera denaro attraverso il diritto inferente la riproduzione fonomeccanica) che non infastidiscano il pubblico, non lo allarmino, non lo facciano pensare e riflettere, ma al contrario, lo accompagnino quotidianamente nell’indifferenza e nell’individualismo esistenziale che caratterizza più che mai i nostri tempi. È una resa totale a questa contemporaneità, ed è un tradimento esplicito del senso stesso dell’arte, che a questo punto non ha più niente a che fare con la canzone.
Di fronte a questo sfacelo culturale, alcuni artisti, i più coriacei e consapevoli, restano fieramente refrattari alle regole e alla logica del mercato discografico, nel segno dell’autenticità artistica, della genuinità dei contenuti, della poesia. Sono quelli che vivono il proprio mestiere in un senso politico. Il progresso sociale, che nel capitalismo non coincide mai con lo sviluppo economico, è per essi (per noi) infinitamente più importante del successo, del blasone, del primeggiare. Il “fare scena” insieme, in concorso e soccorso reciproci, il contribuire e cooperare, aspirando ad un paese più giusto e più uguale, per questi artisti è cruciale.
La musica, e la canzone con essa, lo sappiamo, sono importanti nella vita delle persone in carne ed ossa. Lo sono perché inducono l’ascoltatore non soltanto alla riflessione critica, alla presa di coscienza, ma anche alla fratellanza, alla con-passione, a quel “patire insieme” che è cruciale nel processo di coesione sociale. Ma c’è una pavidità di fondo, un timore politico dietro le quinte, che spinge i più a quella pasoliniana prudenza così tristemente tipica dei cattolici. Non me ne vogliano i cattolici, sono battezzato anch’io, ma sono veneto, e ho quasi cinquant’anni: ne so qualcosa. Mia madre mi raccomandava di non espormi mai, mio padre semplicemente mi disapprovava, i parenti credevano fossi un drogato o uno squilibrato. Tutti insieme, pregavano per la mia redenzione.
E che redenzione sia!
Nel segno di una società più giusta e più uguale, nel segno della democrazia reale, del sostegno reciproco, del mutualismo e della solidarietà fra le persone e fra i popoli.
Ecco, io penso, anzi, sono da sempre completamente conquistato dall’idea che la musica, e con essa la canzone popolare, possa contribuire al mutamento sociale. La canzone, infatti, c’è poco da fare, è un potente fattore di rimodulazione dell’immaginario collettivo. Quando essa esprime critica sociale, allora fa esattamente ciò che deve: contribuisce al risveglio della coscienza civile. E della lotta di classe.
Ecco perché aderisco convintamente alla ricostituzione del Partito Comunista Italiano. Non soltanto perché sono orgogliosamente comunista, ma perché così facendo getto il mio personalissimo ma arrabbiatissimo guanto di sfida al mondo della musica leggera italiana. Perché noi “artisti” non soltanto non dobbiamo temere il potere, ma lo dobbiamo sfidare e combattere. La canzone popolare può ritornare ad essere compagna di lotta nell’arena politica dell’Italia contemporanea.
21 giugno 2016