-G.C– Trentatré anni. Tanto è trascorso da quella sera del 1983, quando il Procuratore Capo di Torino, Bruno Caccia, venne ucciso nel forse più eclatante agguato mafioso del nord d’Italia.
Caccia era un uomo austero, poco incline a lasciarsi andare; aveva scelto di dedicare la propria vita alla giustizia e alla rettitudine. Un uomo severo, incorruttibile: troppo severo e troppo incorruttibile, per alcuni. E troppo scomodo. La sera del 26 giugno, due sicari lo uccisero mentre si trovava in via Somma Campagna, senza scorta. Era una domenica.
In quel periodo, il procuratore si stava occupando di diverse inchieste riguardanti i nuclei terroristici e le infiltrazioni mafiose in Piemonte. Erano gli anni in cui s’iniziava a parlare, seppur con non poche remore, di criminalità organizzata al settentrione; una questione scottante, che doveva fare i conti con lo scetticismo e l’indifferenza. Caccia, però, proseguiva. Sapeva che a Torino non vi era solo Cosa Nostra, ma pure la ‘Ndrangheta e che, assieme, le due forze criminali, avevano raggiunto un potere non indifferente, occupando di fatto tutte le lacune dello Stato nella regione.
Inizialmente, per l’omicidio del magistrato, si seguì la pista delle Br. Le indagini del giudice potevano supportare una tesi di questo genere, senza contare che, il giorno dopo il delitto, una rivendicazione del terrorismo rosso comparve sulle scrivanie della Procura. Eppure, si trattava di un falso. Non erano stati i brigatisti ad uccidere Caccia e ci volle del tempo, e numerose false piste, prima di riuscire a trovare una strada che conducesse alla risoluzione del mistero.
Fu il pentito Francesco Miano, boss del Clan dei catanesi a Torino, a offrirla. Detenuto in carcere, decise di collaborare con la giustizia e, assieme ad altri pentiti del calibro di Antonio Saia e Carmelo Giuffrida, raccontò agli inquirenti di aver partecipato a numerose riunioni preparatorie per l’assassinio di Bruno Caccia, assieme a una potente ‘ndrina con cui i catanesi dividevano, volenti o nolenti, gli affari in Piemonte. I Belfiore, originari di Gioisa Jonica.
Miano venne reclutato dai servizi segreti. Il suo compito fu quello di raccogliere testimonianze da parte di altri mafiosi, al fine di permettere alle forze di sicurezza di scoprire chi avesse effettivamente ucciso Caccia e perchè. Inviato con un registratore nascosto nelle celle degli altri detenuti, Miano si rivelò utile: parlando con Domenico Belfiore, il capo bastone della cosca, raccolse una confessione: “Per Caccia dovete riconoscenza solo a me”. Per questo, dopo cinque gradi di giudizio, il boss calabrese venne condannato all’ergastolo come mandante dell’assassinio, mentre uno dei due sicari, Rocco Schirripa, è stato arrestato nel dicembre scorso.
Schirippa sarà imputato nel processo che si riaprirà il sei luglio prossimo di fronte alla Corte d’Assise di Milano: durante questo, si cercherà di far luce una volta su tutte su quanto accadde quella sera dell’83 e chiarire tanti punti oscuri, anche a fronte dei nuovi elementi che, nel tempo, sono emersi.
Si trattano, queste, di piste ancora da verificare ma che, nel caso dovessero essere confermate, riscriverebbero totalmente la storia dell’omicidio del Procuratore. Inserirebbero il delitto in uno scenario ben più complesso e controverso, nel quale trovano posto non solo mafiosi, ma anche istituzioni, servizi segreti deviati e personaggi ben conosciuti, perchè già inseriti in altre celebri inchieste, come quella sulla trattativa Stato-mafia.
Nel 2009, per esempio, è stata scovata un’intercettazione scottante. In essa il giudice Olindo Canali, indagato dalla Procura di Reggio Calabria, parla con un giornalista, raccontando di come abbia perquisito la casa dell’avvocato Rosario Pio Cattafi, il presunto boss di Barcellona Pozzo di Gotto. Nella sua abitazione, secondo Canali, venne rinvenuta anche la falsa rivendicazione delle Brigate Rosse riguardo l’assassinio di Bruno Caccia. Perchè si trovava lì? Ma, soprattutto, come mai quest’elemento non venne mai inserito nel fascicolo sull’agguato e nelle successive indagini?
Certamente la comparsa di Cattafi all’interno dello scenario sull’omicidio Caccia è inquietante. Specialmente, fa supporre un coinvolgimento dei servizi segreti, che avrebbero potuto giocare un ruolo indispensabile nella vicenda. Si potrebbe arrivare addirittura a credere che la mafia catanese abbia cercato di incastrare i Belfiore, attraverso Maino, su spinta di Cataffi e con la copertura delle istituzioni.
Quest’eventualità, d’altronde, non è da sottovalutare: è vero che in quegli anni i catanesi e i calabresi collaboravano, ma è altrettanto vero che i Belfiore erano divenuti fin troppo potenti e che, sino a qualche anno prima, i siciliani erano stati i re incostrastati della mafia in Piemonte. Inoltre, una delle ultime indagini di Caccia, verteva sui rapporti che intercorrevano tra boss e figure istituzionali e politiche; trattative che si consumavano all’ombra della Mole e su cui nessuno, prima d’allora, aveva avuto il coraggio di metter naso.
Eliminarlo, a quel punto, appariva indispensabile, sia da una parte che dall’altra.