Strage dei Georgofili: le voci, i volti, gli occhi
Ècome entrare nelle case di tante persone,in quegli angoli privatissimi fatti di oggetti e di abitudini all’interno delle mura domestiche. Sventrati d’improvviso dallo scoppio di un Fiorino imbottito con 250 chili di tritolo. Quel pomeriggio, all’auditorium del Consiglio regionale toscano, la commemorazione dell’anniversario della strage dei Georgofili, ha superato sicuramente l’ufficialità della manifestazione istituzionale.”Io mi ricordo..” è il titolo, le vittime delle stragi del ‘93 raccontano è il sottotitolo, si tratta di una successione di persone che – spesso per la prima volta – raccontano in pubblico la propria storia, ovvero come è cambiato il corso della propria vita alle 1.04 minuti della notte del 27 giugno del 2003. La bomba agli Uffizi, che fu uno degli avvertimenti mafiosi che nell’estate del ’93 colpirono l’Italia a Roma (14 maggio autobomba in via Fauro), Milano (27 luglio via Palestro) e ancora Roma (28 luglio, San Giovanni in Laterano), quella notte distrusse completamente la Torre dei Pulci sede dell’Accademia dei Georgofili dove viveva la famiglia del custode,Fabrizio Nencioni, la moglie Angela e le figlie Caterina e Nadia, tutti e quattro rimasti uccisi sotto le macerie. L’incendio che seguì si propaga all’edificio del numero 3 di via dei Georgofili dove muore Dario Capolicchio uno studente che abitava in un appartamento al terzo piano. I danni sono ingenti, toccano tutti gli edifici in via dei Georgofili e in via Lambertesca e riguardano un’area di circa 12 ettari, dimostrando il potenziale altissimo della bomba. Le gallerie degli Uffizi subiscono danni gravi e circa un quarto delle opere verranno danneggiate. Un attacco mafioso alla città di Firenze che reagì con indignazione, ma anche con la forza e la volontà di risollevarsi.
Una storia collettiva che però è fatta anche di storie particolari che abbiamo potuto ascoltare lo scorso 26 maggio nell’auditorium del consiglio regionale.
“Stasera – dice Daniela Ceccucci – in questa sala a parlare, non c’è ombra di esperto. Non ci sono vittimologi, né specialisti di psicologia post traumatica. Non ci sono storici , né politologi, né mafiologi, né giuristi .E non perché non vi sia da parte nostra immensa stima per la scienza e la cultura. Dopo dodici anni, ci sembrava giunto il momento che i reali, quanto involontari, protagonisti della Strage di Via dei Georgofili, si riappropriassero del loro diritto alla parola, senza intermediazioni di alcun genere, senza interpretazioni. Volevamo la loro voce, i loro volti, i loro occhi. Volevamo le loro storie. Storie di povere persone, aggredite una notte nel cuore delle loro case, assalite nel momento di massima fragilità e abbandono: il sonno, il riposo, l’intimità”.
Così apre l’incotro Daniela Ceccucci che nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 abitava al numero 1 di via Lambertesca.
“Le donne e gli uomini che ascolterete – continua – lo hanno vissuto, come sempre si dice, ma in questo caso quanto mai vero, sulla propria pelle e ne hanno sopportato tutte le conseguenze, durate anni, ma i loro nomi sono rimasti confinati negli elenchi ufficiali e nessuno , tranne qualche funzionario, li ha mai conosciuti. Sono i familiari delle vittime, le vittime stesse, i feriti, gli scampati, coloro cui non rimase più nulla”.
Ma ci sono anche le persone che vissero quella notte in altri modi,a partire dal quella del vigile del fuoco Pecchioli, che ricorda le notizie confuse di quella notte:
“Le prime telefonate arrivarono da via Guicciardini, quindi le prime squadre furono dirottate là. Io partii dal distaccamento di NordOvest e mi dissero ‘vai verso Ponte Vecchio, saremo più precisi’”.
Così inizia l’ex- vigile del fuoco scusandosi per non sapere parlare in pubblico e con immagini spezzate ma vivide racconta quello che ha vissuto. L’incendio da spengere, la ricerca delle persone rimaste nelle case, che erano in realtà già scappate, le primissime testimonianze “Una guardia giurata ci disse ‘mi è sembrato di vedere una persona su quel davanzale avvolta dalle fiamme’”. Era Dario Capolicchio. E poi l’atroce rivelazione: “Un vigile urbano ci ha chiesto se sapevano nulla del suo collega che abitava lassù alla Torre dei Pulci.Ci siamo guardati tra di noi e abbiamo iniziato a scavare fra le macerie. Quasi subito o per disgrazia o per fortuna abbiamo trovato il primo corpicino, quello di Nadia Nencioni”.
C’è poi il racconto dell’operatore della Protezione Civile del comune di Firenze, istituita da pochi mesi nel ’93, che racconta l’impegno appassionato dei volontari che aiutarono in tutte le loro esigenze,materiali e psicologiche, gli sfollati di via dei Georgofili e di via Lambertesca, che furono accampati in quei primi momenti proprio in Palazzo Vecchio.
Ma Giovanni Porratti racconta anche lo shock per la notizia delle persone rimaste uccise che sconvolse anche loro, operatori della protezione civile alle prime armi. Ma sono le parole delle vittime a colpire in maniera particolare, per la loro totale assenzadi retorica e per il coraggio che dimostrano nel raccontare sentimenti e paure che ancora a distanza di dodici anni provano a causa di quello che è successo quella notte.
“È impossibile riunire il filo che si è spezzato quel 27 maggio 1993 – dice Luigi Dainelli cognato di Angela Fiume – per noi ci sarà sempre un prima e un dopo. Il nostro “prima” non esiste più si è fermato a quella domenica 23 maggio alla festa del battesimo di Caterina Nencioni la più piccola”.
Passati in tre giorni da un battesimo al riconoscimento all’obitorio di quattro persone care, la famiglia Fiume ha dovuto subire un ulteriore dolore, anche difficile a raccontare in una commemorazione ufficiale.
“La cosa che ci ha spezzato il cuore– continua Dainelli – è che ad un certo punto quei morti non erano più i nostri morti. Ci sentivamo dire da più parti che erano i morti di tutti, che dovevamo fare i funerali di Stato, e quel passaggio nel lutto che è il ricordo intimo ed il dolore, quando muoiono delle persone così vicine, ci è stato sottratto”.
Sentimenti questi che non vengono generalmente considerati.
Come non viene considerato il fatto di chi la ferita di quella notte se la porta sul proprio corpo.
“Da quel giorno – dice Eleonora Pagliai – non so più cosa voglia dire correre. Ogni tanto sogno di correre e la mattina mi sveglio stanca come se avessi corso davvero”.
Questa ragazza che si avvicina al banco appoggiandosi ad un bastone da passeggio, si scusa mille volte perché non ce la fa, come hanno fatto gli altri, a parlare a braccio e legge alcune note che si è preparata, raccontando dolori, sensazioni che sono rimaste nel fisico e nella mente da allora.
I rumori improvvisi che creano ancora panico, ed il corpo da un momento all’altro reso invalido, e nonostante questo c’è la volontà di andare avanti nelle parole di Eleonora .
“È importante la memoria – dice – ma lo è solo se guardiamo al futuro continuando a combattere per conoscere la verità, per questo voglio ringraziare con il cuore l’associazione delle vittime di via dei Georgofili perchè per molti anni hanno combattuto una battaglia che era anche la mia e che io non avevo la forza di combattere”.
Cecilia Ferrara“È impossibile riunire il