-R.C.- Una delle zone d’ombra più impenetrabili della storia della Repubblica è indubbiamente l’omicidio di Piersanti Mattarella.
Non si conosce neppure il nome di chi ha premuto il grilletto, quasi certamente non un uomo di Cosa Nostra, ma un killer venuto da lontano.
E pensare che le indagini le condussero l’allora sostituto Piero Grasso e il giudice istruttore Giovanni Falcone, indagini certamente accurate per un crimine politico di ‘alta mafia’ che adesso, alla luce di nuovi indizi, la procura di Palermo sta valutando di riaprire il fascicolo sulla morte di Piersanti Mattarella.
E ritorna prepotente la pista nera, intesa come braccio armato al servizio di poteri occulti che avevano interesse ad eliminare un politico che sognava “una Sicilia con le carte in regola” e per realizzare il sogno aveva capito che era necessario coinvolgere nel progetto anche il Partito comunista, esattamente il progetto di Aldo Moro.
Per l’omicidio furono condannati i boss della Cupola come mandanti, ma neanche uno straccio di sicario come esecutore, davvero anomalo.
L’avvocato della famiglia Mattarella, Francesco Crescimanno, prudentemente afferma “Mi preparo a mettere insieme tutta una serie di elementi e spero di presentarli in procura per far riaprire il caso”.
Tutto riparte dall’Addaura e dalle tante, strane presenze sul luogo del fallito attentato.
E’ l’inizio estate 1989 e davanti alla villa che Francesca e Giovanni Falcone hanno affittato per il periodo estivo vengono collocati candelotti di dinamite.
Falcone stava indagando anche sull’omicidio di Piersanti Mattarella, puntando decisamente sulla pista politica e aveva dato un volto agli esecutori materiali del delitto; Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, esponenti del gruppo neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari.
Gli intrecci sono inquietanti, terrorismo nero con la banda della Magliana, per arrivare alla Cupola di Cosa Nostra che a Roma era rappresentata da Pippo Calò.
Fioravanti e Cavallini vengono rinviati a giudizio, processati e assolti., nonostante le dichiarazioni di un paio di pentiti dei Nar.
Il classico repertorio dei delitti eccellenti, quello dell’inchiesta Mattarella, depistaggi, prove costruite e testi di comodo. Eppure la nuova sterzata investigativa porta al delitto politico, a una Democrazia Cristiana che doveva fare i conti con personaggi come Vito Ciancimino, il nemico principale di Piersanti Mattarella e di una nuova stagione per la Sicilia.
Il sindaco della mafia era potentissimo, un’unica cosa con i corleonesi di Totò Riina, ma un delitto come quello del presidente della Regione Siciliana non può avere una matrice solamente mafiosa, non può non essere stato deciso nei piani superiori dei palazzi del potere, così come l’assassinio di Michele Reina.
Tante le analogie tra i due delitti.
A cominciare dal killer che tanti testimoni indicano in Giusva Fioravanti.
Ha dichiarato Marina Pipitone, vedova Reina, che al momento dell’uccisione del marito gli è accanto: “Riconosco Fioravanti come killer al novanta per cento”. E ha aggiunto: “L’assassino aveva il volto atteggiato ad un sorriso che sembrava quasi un sogghigno”.
Anche Irma Chiazzese, vedova del Presidente della Regione e pure lei vicina al marito morente, ha riconosciuto Giusva Fioravanti come l’assassino. La signora ha raccontato anche “dell’incedere ‘ballonzolante’ del sicario”, la camminata caratteristica di Giusva Fioravanti.
Evidentemente le due testimonianze non sono bastate.
L’avvocato Francesco Crescimanno parla di omicidi “preventivi-conservativi” e omicidi “dimostrativi”, i primi necessari per eliminare un pericolo imminente e mantenere gli equilibri esistenti, i secondi per produrre paura.
E qui il legale si sbilancia “La mafia c’entra, certo che c’entra. Ma quello di Mattarella, lo ritengo un omicidio più politico che mafioso”.