-M.F.- Era il 20 marzo 2003 quando una coalizione multinazionale a guida degli Stati Uniti invase l’Iraq. La chiamarono Iraqi Freedom, molti la conoscono come Seconda Guerra del Golfo, lo scopo principale era la deposizione di Saddam Hussain, perché secondo fondi di intelligence nascondeva grandi quantità di armi di distruzione di massa.
Il Segretario di Stato Usa, Colin Powell, nel 2002, aveva portato davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una fiala, spergiurando che si trattava della prova certa che Saddam avesse depositi pieni di dispositivi chimici e batteriologici.
Saddam, inoltre, era anche accusato di essere uno degli sponsor di Al-Qaeda, ricordiamo che nell’ottobre del 2001 era iniziata l’Operazione Enduring Freedom in Afghanistan, la prima risposta al terrorismo in seguito all’attentato alle Torri Gemelle.
Se tutto questo non fosse bastato a giustificare un intervento militare in Iraq, gli Usa e gli Stati della coalizione (Gran Bretagna in particolare) pensavano fosse giunto il momento di deporre il dittatore sanguinario, al potere dalla fine degli anni ’70. E la guerra cominciò.
L’allora presidente americano, George W. Bush, nell’aprile del 2003, proclamò concluse le operazioni militari su larga scala: le principali città erano nelle mani della coalizione. Nel frattempo, però, la guerra mutò e divenne sia una guerra di liberazione dalle truppe straniere, che da molti gruppi erano viste come invasori, sia in una guerra civile.
Le truppe straniere si ritirano alla fine del 2011 lasciando sul campo migliaia di vittime, civili e militari, e lasciando un Iraq (democratico) totalmente nel caos. Caos che perdura tutt’ora, caos in cui gruppi armati e terroristici come Daesh trovano terreno fertile.
La Seconda Guerra del Golfo provocò molti malumori, sia all’interno della società civile, la quale per la maggioranza era contraria a un’invasione dell’Iraq che degli stessi Stati nazionali: Francia e Germania si opposero fin da subito all’idea. La Gran Bretagna, dell’allora premier Tony Blair, al contrario, si schierò al fianco dell’America di George W.
Proprio per questa decisione di Blair di andare in guerra, nel 2009, anno in cui le truppe britanniche si ritirarono dall’Iraq, l’allora premier Gordon Brown, chiese un’inchiesta sul legittimo intervento britannico, nota come Iraq Inquiry. Obiettivo: valutare l’operato dell’amministrazione britannica dal momento in cui è stato deciso di entrare in guerra fino al ritiro delle truppe.
L’inchiesta ha cercato di rispondere ad alcune domande come:
sulla base di quali informazioni è stata presa la decisione di entrare in guerra?
Le truppe britanniche erano sufficientemente preparate?
Come è stato condotto il conflitto?
Quali erano i piani per affrontare il ritiro delle truppe e l’intensificarsi della violenza nel Paese?
Dopo 7 anni di indagini, 12 volumi e 2 milioni di parole il 6 luglio scorso viene presentato il Rapporto Chilcot, dal nome di sir John Chilcot, che presiede la Commissione d’inchiesta, e afferma che: Tony Blair – in buona o cattiva fede – ingannò il Parlamento di Londra, presentando come sicure le informazioni circa le armi di distruzione di massa nelle mani del regime di Saddam Hussein. Cosa totalmente falsa. L’inchiesta condanna la decisione dell’ex primo ministro Tony Blair di impegnare truppe britanniche nell’invasione dell’Iraq.
Nonostante la mancanza di prove, malgrado il capo degli ispettori dell’Onu, Hans Blix, inviati in Iraq per sondare la veridicità della presenza di armi di distruzione di massa, avesse denunciato l’assenza di prove, nonostante la mancata copertura delle Nazioni Unite, nonostante la contrarietà di Francia e Germania e della popolazione civile, nel marzo del 2003 l’attacco era comunque partito.
Secondo il Rapporto Chilcot: “La scelta di entrare in guerra è stata presa molto prima che tutte le altre opzioni fossero esaurite”. Tesi avallata da un memo riservato indirizzato al presidente americano George Bush, in cui Tony Blair scrisse: “Sarò con te a qualsiasi costo”. Era il luglio del 2002, otto mesi prima che cominciasse la guerra con l’invasione in Iraq delle forze alleato anglo-americane.
Blair viene accusato di aver, per questo motivo, intenzionalmente ingigantito la pericolosità delle minacce provenienti dall’Iraq.
Inoltre il Rapporto evidenzia che “Le informazioni di intelligence erano fallaci, non c’era alcuna prova a sostegno della certezza con la quale è stato rappresentato il pericolo rappresentato dalle armi di distruzione di massa irachene”; tant’è che la Libia, la Corea del Nord e l’Iran, all’epoca, erano Paesi molto più pericolosi, in termini di armi di distruzione di massa.
Inoltre, nonostante l’amministrazione Bush avesse ignorato le richieste UK della pianificazione di una exit strategy post-bellica, il governo britannico scelte, ugualmente, di seguirla.
Per quanto riguarda l’esercito, le truppe britanniche schierate erano impreparate ad affrontare quel genere di azioni. Il ministro della Difesa prese la decisione troppo in fretta, non valutando i rischi e i problemi a cui l’esercito sarebbe andato incontro. Di conseguenza, i militari mancavano di equipaggiamenti e di preparazione.
Secondo i dati raccolti dalla Commissione, il governo britannico non aveva nessuna strategia da applicare dopo l’invasione e non chiese mai il tal senso all’amministrazione Bush su come volesse muoversi.
Infine, nelle memorie sulla guerra in Iraq, i generali britannici hanno più volte sottolineato che la guerra inizio a essere persa il giorno delle elezioni nel Paese: quando la minoranza sunnita ebbe chiaro che avrebbe rischiato il genocidio o l’emarginazione e iniziò la guerra civile. Pertanto per i generali britannici fu il tentativo americano di esportare la democrazia in Iraq a causare la guerra civile del Paese e il disastro da cui l’Iraq non è ancora uscito.
Le conclusioni del Rapporto non lasciano spazio a fraintendimenti: Iraqi Freedom fu una guerra illegale.
Londra decise di andare in guerra quando “l’azione militare non si poteva considerare l’ultima risorsa possibile”; non c’era “minaccia imminente da parte di Saddam Hussein”; la presenza negli arsenali iracheni di “armi di distruzione di massa era stata presentata con un grado di certezza assolutamente ingiustificato”; l’intelligence non aveva “stabilito oltre ogni ragionevole dubbio” che Saddam stesse producendo armi chimiche o biologiche; le basi legali dell’intervento “erano assolutamente insoddisfacenti”.
L’ex primo ministro Blair ha subito replicato alle accuse, annunciando prossime controdeduzioni. Andare in guerra in Iraq è stata “la decisione più dolorosa che io abbia mai preso – ha detto Blair – ma il mondo è un posto migliore senza Saddam Hussein. Ho agito in buona fede e per il bene del mio Paese”.
Ha poi aggiunto: “Non credo che la rimozione di Saddam Hussein sia la causa del terrorismo che vediamo oggi in Medio Oriente o altrove”.
Come scrive Mimmo Cándito: “Il Rapporto Chilcot non è la sentenza di un tribunale, ma dentro quei 12 volumi si scrive l’amara condanna dei responsabili di una tragedia che ancora non è arrivata al suo ultimo atto”.
Proprio perché la Commissione non ha poteri giudiziari, Blair, non sarà processato per “crimini di guerra” come chiesto da alcuni manifestanti e politici inglesi.