brevi riflessioni sul ruolo della teoria rivoluzionaria
Francesco Schettino
“Solo un partito guidato da una
teoria di avanguardia
può adempiere la funzione di
combattente di avanguardia”.
(V.I.Lenin, Che fare? 1902)
Lotta teorica e socialismo scientifico
Nella storia del pensiero marxista – o più in generale all’interno dei movimenti o partiti ispiratisi almeno vagamente all’idea del comunismo (o del socialismo) nell’ultimo secolo – il rapporto tra teoria e prassi rivoluzionaria ha senza dubbio ottenuto un posto di primaria importanza nel dibattito che negli anni si è svolto, per quanto spesso con esiti abbastanza avvilenti. In questo breve articolo non si vuole proporre una rassegna di quelli che sono stati gli ultimi, tra l’altro spesso poco incisivi, sviluppi della questione: al contrario, prendendo a riferimento l’esempio cubano, oltre che quello dei paesi a capitalismo avanzato, si tenterà di proporre un contributo che possa consentire una riflessione su questioni che, oramai, sono solo di rado tenute in adeguata considerazione.
Punto di partenza per affrontare una discussione di questo genere, evitando di scivolare su posizioni che in fin dei conti hanno dimostrato tutta la loro velleità e sterilità, è la considerazione, fin troppo distorta o aggirata, di Lenin che, nel Che fare? giustamente sosteneva che “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”. Questa, che tutto è fuorché una “semplice” locuzione affabulatrice, è esattamente il frutto della riflessione filosofica del rivoluzionario russo che coerentemente con Marx e Engels, e pertanto con la dialettica hegeliana, attualizzata dallo stesso Moro di Treviri, individuava l’identità dialettica tra teoria e prassi, ossia tra pensiero astratto e sua concretizzazione materiale.
In particolare, è lo stesso Lenin a far notare – in polemica con le smanie rivoluzionarie (diremmo oggi “movimentiste”) e le “praticonerie” dei suoi tempi – come l’altrettanto vituperata considerazione di Marx per cui “ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi” 1 fosse già ai suoi tempi estrapolata dal contesto in cui era stata scritta e, per questo, capovolta nel suo senso e nelle sue finalità. Privo di ogni ambiguità, osservava come “ripetere queste parole in momento di sbandamento teorico è come fare dello «spirito in un funerale». Queste parole, d’altra parte, sono estratte dalla lettera sul Programma di Gotha, nella quale Marx condanna categoricamente l’eclettismo nell’enunciazione dei princìpi. Se è necessario unirsi – scriveva Marx ai capi del partito – fate accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici del movimento, ma non fate commercio dei princìpi e non fate «concessioni teoriche»”. E così Lenin conclude: “questo era il pensiero di Marx, e fra noi si trova della gente che nel suo nome tenta di sminuire l’importanza della teoria (corsivo mio)!”.
La questione della centralità della lotta teorica era, del resto stata già rimarcata ampiamente da Engels (1850) nella prefazione alla Guerra dei contadini in Germania: è proprio lui che, chiaramente, introduce accanto alle due forme di lotta “socialdemocratica” più discusse (politica ed economica), il terzo piano, ossia quello della conflittualità teorica, evidenziandone la assoluta preminenza non solo in una fase non-rivoluzionaria, ma persino in quella particolarmente avanzata. Non a caso, nell’opera citata, ricorda come gli operai tedeschi abbiano avuto almeno un vantaggio essenziale: “essi appartengono al popolo d’Europa più portato alla teoria e hanno conservato il senso teorico (corsivo mio), che i cosiddetti ″uomini colti″ della Germania hanno totalmente perduto”. E, in particolare, continua osservando come senza la filosofia hegeliana e, più in generale, senza tutta la precedente filosofia, non sarebbe mai potuto nascere l’unico socialismo scientifico esistente, ossia quello tedesco. Inoltre, “se tra gli operai non ci fosse stato questo senso teorico, il socialismo scientifico non si sarebbe mai cambiato in sangue e carne in così grande misura come è effettivamente accaduto”. Peraltro, Engels attribuisce la (parziale) vittoria da parte del movimento operaio tedesco al fatto che, per la prima volta, in quell’occasione, la lotta è stata condotta unitariamente seguendo un piano che si è svolto su tre linee: teorica, politica ed economica. Del resto, per quanto Lenin sia stato in grado di riassumere con grande intelligenza politica la centralità della questione, polemizzando con posizioni talvolta non eccessivamente distanti, c’è da dire che, solamente la mancanza di conoscenza dell’opera di Marx ed Engels avrebbe potuto far immaginare una subordinazione del piano teorico agli altri due. Nell’Anti-Duhring, Engels rivendica esplicitamente l’importanza di aver creato le basi del “socialismo scientifico” superando definitivamente le velleità precedentemente già emerse con gli utopisti ecc. le cui battaglie, talvolta persino condivisibili, proprio per la mancanza di riferimenti certi e di alternative rigorosamente teorizzate e dunque credibili, finivano spesso e volentieri per naufragare nel nulla o poco più. Non a caso, conclude inequivocabilmente sostenendo che “compiere l’azione di liberazione universale è il compito storico del proletariato moderno. Studiarne a fondo le condizioni storiche e conseguentemente la natura stessa e dare così alla classe, oggi oppressa e chiamata in azione, la coscienza delle condizioni e della natura della sua propria azione è il compito del socialismo scientifico, espressione teorica (corsivo mio) del movimento proletario”.
Nel capitalismo avanzato
Sarebbe impossibile catalogare l’insieme delle lotte e delle battaglie da cui la classe dei lavoratori è uscita sonoramente sconfitta negli ultimi decenni. Anche alcuni degli esiti più positivi delle conflittualità del passato sono stati riassorbiti dalla classe dominante, proprio perché non più individuati dai lavoratori stessi come frutto di lotte a volte sanguinose e per tale ragione adeguatamente tutelati. Sarebbe un errore di straordinaria importanza non riconoscere il violento arretramento che la classe subalterna sta vivendo in grande parte del globo sia dal punto di vista della propria capacità politica, sia sul piano meramente economico\salariale. I timidi risvegli, per quanto importanti, sono stati rapidamente riassorbiti dalla capacità militare e coercitiva del capitale, per quanto le evidenti crepe emerse nel sistema dal 2008 in poi ne abbiano evidenziato la vulnerabilità strutturale. Riuscire a individuare un filo che riesca a tenere unite tutte queste sconfitte sarebbe probabilmente molto difficile, se non impossibile, ma soprattutto scorretto giacché frutto di rapporti di forza che, proprio perché dialettici, inevitabilmente si trasformano con continuità. Di certo, però un denominatore comune, relativo al disfacimento teorico e dunque coscienziale della classe dei lavoratori, è innegabile e, per tale ragione, ha necessità di essere discusso.
Negli ultimi decenni, soprattutto in Europa, culla di alcuni dei partiti comunisti più celebri e quantitativamente importanti del mondo, si è affermata una tendenza prevalente che ha assunto un ruolo centrale nel traghettare la classe lavoratrice alla disgregazione coscienziale e materiale (dal punto di vista prettamente salariale). Si tratta di quella che ha visto nell’abbandono del marxismo e dunque della lettura scientifica del modo di produzione attuale, una bandiera di cui andar fieri. Nel nome di un vacuo nuovismo, alla strenua ricerca di una “cassetta degli attrezzi” di più immediata comprensione e di più affascinanti conclusioni, molti movimenti e partiti si sono facilmente incanalati su binari morti. L’emersione di guru e di curiosi apparti ideologici, grazie alla loro semplice e banale ovvietà, hanno facilmente ammaliato grandi parti del cosiddetto “movimento antagonista” conducendole poi nell’angolo in cui regolarmente si è consumata l’ennesima sconfitta. Solo per fare alcuni degli esempi più noti, l’esperienza dell’operaismo o più recentemente del decrescismo, nonché l’idolatria di economisti come Keynes, Stiglitz, Latouche, Bagnai o Piketty (spesso e volentieri già in passato al soldo dei governi del capitale, o comunque ostili ai lavoratori) sono esempi significativi di questa tendenza. In maniera, più o meno velata, l’obiettivo condiviso da tutti questi nuovi teorici dei movimenti antagonisti, a livello mondiale, è consistito nello stravolgimento del marxismo che, mantenuto solo nella sua più superficiale e dunque inutile apparenza – a mo’ di una bandiera da stadio – è stato completamente svuotato della sua sostanza, in modo da essere reso al pari di un innocuo riferimento filosofico del passato.
Da questo punto di vista è significativa l’operazione politica\editoriale del testo di Piketty, chiamato non a caso “Il Capitale nel XXI secolo”, bestseller in ogni angolo del globo che, pur avendo saccheggiato il titolo al più noto capolavoro del Moro di Treviri, non contiene neanche un concetto che possa essere ricondotto alla teoria di Marx ed Engels. Per quanto all’interno del testo siano individuabili evidenze statistiche indubbiamente interessanti, uno dei pochi passaggi in cui è effettivamente toccata nel cuore la questione del marxismo è quella in cui l’autore la capovolge completamente: si propone infatti un superamento della “lotta di classe” attraverso la “lotta tra decili”. In altri termini il concetto di classe, ossia di funzionalità all’interno del sistema economico dovuto alla proprietà (o meno) dei mezzi di produzione, viene sostituito da un sistema di comparazione del tutto quantitativa (i decili della distribuzione) che, secondo il testo, indurrebbe ad una conflittualità tra ricchi e poveri e non già tra capitale e lavoro: hic rhodus, hic salta! Non stupisce dunque, da questo punto di vista, che i più moderni movimenti di massa – a parte quello francese contro la normativa del lavoro che sta assumendo connotati visibilmente diversi – abbiano eletto il professore francese alla stregua del nuovo ideologo, finendo per trovare una giustificazione apparentemente teorica allo slogan del movimento Occupy “99% versus 1%” che aveva infiammato nel passato anche le strade di New York, salvo poi assorbirsi con la stessa rapidità con cui si era formato.
Il fatto stesso che nella culla del capitalismo moderno, gli Usa, come riportato da numerose ricerche, dopo lunghi decenni di bombardamento ideologico, il socialismo sia visto da quasi la metà dei giovani (età compresa tra il 18 ed i 29 anni) come una alternativa valida al modo di produzione attuale, dovrebbe far riflettere. Per quanto, come noto, l’accezione che normalmente viene conferita negli Usa al socialismo è ben distante dall’idea marxiana, e più prossima a quella interpretata da Bernie Sanders, o anche, in parte, da Obama, è un dato di fatto che i cosiddetti millennials (quelli nati tra gli anni ottanta e gli inizi del nuovo secolo), in evidente discontinuità con le generazioni precedenti, considerino l’epiteto “socialista” non già alla stregua di un insulto, ma come un’etichetta di cui fregiarsi con orgoglio.
Anche in questo caso, lo straordinario lavoro operato dal capitale internazionale già dalla fine della seconda guerra mondiale, volto a cancellare ogni residuo di teoria marxista nel dibattito statunitense, relegandolo dunque a spazi limitati, per quanto talvolta qualitativamente apprezzabili, rende le cose estremamente difficili; dunque, ponendola in termini prettamente economistici, se la domanda di socialismo sembra esserci, l’offerta teorica è spesso scarsa e quella che arriva sul “mercato” finisce per non soddisfarla e, al contrario, la distorce verso prospettive naufraganti.
Nel socialismo moderno
Senza dubbio, dunque, per organizzare un movimento che possa aspirare ad avere un ruolo rivoluzionario, non nell’immediato, ma almeno in una prospettiva pluridecennale o secolare, diviene di straordinario rilievo porre l’accento sulla lotta teorica, ossia sulla battaglia delle idee. Abbandonare questo piano o, al più subordinarlo al più soddisfacente lavoro di natura politica o economica (sindacale), specie in una fase non-rivoluzionaria come quella che riguarda l’inizio di nuovo millennio, sarebbe un errore “capitale” per le ragioni già esposte.
Ma la questione può essere osservata capovolgendo la prospettiva, ossia tentando di valutare l’importanza della questione teorica anche dal punto di vista dei paesi che la rivoluzione l’hanno già fatta nel passato e che oggi possono definirsi socialisti. Se per quanto riguarda la Repubblica popolare cinese il cosiddetto (male) “socialismo di mercato” sembra assumere dei connotati sempre più prossimi ad un capitalismo di stato – e per questo non deve sembrare una contraddizione che nelle università locali vengano studiati prevalentemente modelli economici neoclassici (ossia quelli più reazionari) – una discussione ben differente può essere affrontata per quel che concerne Cuba.
Almeno dall’inizio degli anni novanta, definito non a caso periodo especial, si parla in tutto il mondo delle sorti del socialismo cubano, che, restato orfano di quello che, di fatto, era il principale finanziatore della Cuba post-rivoluzionaria, ossia proprio l’Urss, subita una contrazione straordinaria della propria ricchezza e delle risorse a sua disposizione. Immediatamente furono in molti a pensare a un effetto “domino” che dall’oriente europeo avrebbe avuto un analogo esito anche sull’isola caraibica riportando al potere “tutta la vecchia merda” 2, nel frattempo protetta in territorio statunitense, bramosa di ritornare ai posti di comando. Come è noto, però, le cose sono andate in maniera differente e dopo aver attraversato un periodo di straordinarie difficoltà, si è approdati al nuovo millennio ed in particolare al 2011 quando, in concomitanza col vi Congresso del partito comunista cubana si sono implementate le prime riforme che hanno definitivamente “aperto”, seppure con un processo molto progressivo e oculato, all’ingresso di capitale straniero – solo in alcuni settori ed in compartecipazione con cubani – e, dal 2016, vii Congresso, anche alle piccole e medie imprese private. Inoltre, l’inizio delle negoziazioni per la rimozione dell’embargo culminata nel 2016 con la visita di Obama, ha stimolato molti, e talvolta disinformati, dibattiti sulla possibilità che tutte queste presunte “aperture” possano metter fine al socialismo. In altri termini, in forma ancora più rozza, la tesi prevalente sostiene che una volta aperta l’economia cubana al capitale statunitense, il sistema socialista subirebbe un inevitabile capovolgimento dovuto alla capacità del dollaro Usa di comprare qualsiasi cosa, anche la coscienza delle persone.
Per quanto questo tipo di visione possa essere vittima di uno schematismo eccessivamente rigido, sia perché la cosiddetta “apertura”, come viene immaginata, ancora non è neanche all’orizzonte (così come l’eliminazione dell’embargo) sia perché fornisce al dollaro Usa un ruolo che forse travalica la sua reale forza, sicuramente può esserci qualcosa di vero: è innegabile, altresì, che la penetrazione graduale del capitale straniero, la proliferazione dei cosiddetti cuentapropristas (lavoratori autonomi legati spesso al proficuo settore turistico) che stanno accumulando significative ricchezze e la disponibilità di avere finalmente contatti con l’estero e con la stampa attraverso internet sono, questi, solo alcuni dei fattori di potenziale destabilizzazione dell’assetto politico ed economico locale.
Indipendentemente dall’analisi statistica dei dati, che alcune fasce della popolazione cubana stiano guardando sempre con crescente speranza in direzione Miami, è cosa evidente a chiunque abbia intenzione di approfondire l’analisi scevro da filtri ideologici o nostalgici. In termini semplificati, dunque, alla luce degli elementi già accennati, la domanda da porsi dovrebbe essere: perché un giovane ventenne dell’Avana dovrebbe aderire ai discorsi di Raul Castro e non rimanere affascinato dall’apparente carisma del giovane e ammaliante Obama? Per quanto la questione generazionale rappresenti sempre una chiave di lettura limitata ed imprecisa, è innegabile che, chiunque abbia avuto modo di camminare per le strade della capitale cubana e parlare con gli abitanti non ha potuto ignorare un’evidente frattura tra coloro che sono figli dei primi anni della rivoluzione (o che l’hanno vissuta) e coloro che sono nati all’incirca dopo il 1980 (di fatto, i millenials cubani). Se i primi, nonostante inevitabili critiche, sono coscienti della portata della rivoluzione cubana e degli effetti benefici che essa ha avuto su tutta la popolazione, opinioni divergenti spesso vengono espresse dagli altri, i più giovani, che danno francamente l’impressione di preferire all’iconografia dei Castro, di Cienfuegos e del Che, la bandiera a stelle e strisce.
Volendo evitare di fornire interpretazioni frettolose e ideologiche alla cosa, ci sembra importante fare un passo indietro per tentare di capire come, proprio dall’inizio degli anni novanta il socialismo cubano, sia profondamente cambiato, per certi versi più profondamente di quanto stia avvenendo ora, generando, di fatto, le radici del fenomeno che stiamo tentando di analizzare.
Sicuramente, da questo punto di vista, il processo di revisione costituzionale del 1.7.1992 ha sancito un inevitabile ed insanabile allontanamento dal socialismo dalla sua accezione reale e scientifica, rimanendo relegato, sostanzialmente, ad un riferimento quasi essenzialmente ideologico: concordiamo esattamente con Carla Filosa quando sostiene che “gli articoli 5, 6, 7, 10, ecc. ripongono continuamente nello stato un immaginario socialista rattrappito a condizione necessaria, ma assolutamente insufficiente a definire i termini dell’attualizzazione della lotta di classe. Al di là di una conservazione di identità rassicuranti o consolatorie, non si ravvisano elementi di ricostruzione di strumenti per continuare tale lotta entro le condizioni poste dalle leggi dell’accumulazione. Le costituzioni hanno sempre avuto il compito di costituire un ostacolo alla comprensione della storia reale, in quanto riflettono soltanto – non sono – i rapporti di forza concretamente operanti” 3.
In altri termini, in quel periodo il riavvicinamento al cattolicesimo – famiglia come “cellula fondamentale della società…”, Cap. iv – e soprattutto l’abbandono teorico del marxismo soppiantato in maniera pressoché definitiva da un patriottismo socialista, come quello impersonato da José Martì e dagli altri fautori dell’indipendenza cubana, o anche al bolivarismo 4 in termini continentali, sono elementi che hanno influito profondamente sul cambiamento di prospettiva e di mentalità i cui risultati più evidenti si riscoprono nelle opinioni delle nuove generazioni. Anche dal punto di vista accademico, le discussioni in ambito marxista sono straordinariamente limitate: il numero delle riviste teoriche di marxismo, ossia quelle che propongono spunti di riflessione indiscutibilmente coerenti con la teoria, è straordinariamente basso e probabilmente più limitato di quelle europee. Del resto, girando per l’Avana è possibile avere un impatto visivo di questo di tipo di impostazione: è possibile infatti osservare centinaia di migliaia di busti di Martì in ogni angolo della città, mentre le tracce di Marx si recuperano solamente in un imponente teatro in un quartiere non particolarmente centrale della città, mentre a Lenin è dedicato un parco e il più importante liceo probabilmente dell’isola (che però non si trova in città). Da questo punto di vista, paradossalmente, una città come Berlino fornisce elementi sicuramente di maggiore riconoscibilità al marxismo-leninismo.
La risposta alla domanda che ci siamo posti precedentemente è dunque coerente con tutto ciò che abbiamo tentato di proporre in questo articolo e potrebbe essere così impostata: finché le basi teoriche fornite dall’encomiabile sistema scolastico ed universitario cubano sbilanceranno il proprio baricentro nell’adulazione di importanti personaggi come José Marti o Antonio Maceo a discapito di quello che è appunto il solo strumento utile per comprendere la superiorità dialettica del socialismo rispetto al capitalismo, ossia il marxismo, i giovani cubani non disporranno di armi per difendersi dal canto ammaliante della bellissima sirena statunitense a svantaggio della pur affascinante, ma molto più malmessa (solo in apparenza), socialdemocrazia cubana.
Solo se tutto il popolo cubano, dunque anche quello inserito nelle fasce di età più giovanili, sarà in grado di comprendere quali sono effettivamente le straordinarie vittorie della rivoluzione allora il socialismo potrà essere tutelato e migliorato; solo quando sarà chiara ai giovani che affollano il Malecòn la reale differenza che esiste tra il capitalismo, che non è solamente la vetrina luccicante delle strade di Manhattan o di Miami, ma la miseria diffusa in ¾ del globo, e un modo di produzione privo di dominio di classe e sfruttamento, solo allora il sistema cubano potrà sentirsi al riparo dagli attacchi esterni. In sintesi, la teoria rivoluzionaria è lo strumento necessario (benché non sufficiente) per proteggere realmente il socialismo dall’attacco degli squali del capitale, così come è necessario per impostare lotte rivoluzionarie non solo in apparenza nei paesi a capitalismo avanzato. Solo un popolo cosciente e istruito ai princìpi del socialismo scientifico può essere in grado di difendere le straordinarie vittorie della rivoluzione del 1959, nei limiti delle inevitabili contraddizioni che “il comunismo come fenomeno locale” genera soprattutto dinanzi ad un capitalismo famelico che, dopo la fine dell’esperienza sovietica ha pervaso ogni angolo del globo e brama per concludere l’opera.
Note:
1 Dalla lettera di Marx a Bracke, del 5 maggio 1875.
2 Gf. Pala, Perché non ritorni la vecchia merda, Punto Rosso, Milano 1993.
3 Per un maggior approfondimento del tema si veda anche C.Filosa, “La transizione nella nuova costituzione cubana”, il lavoratore 22/23, Varese 1994.
4 “Veder celebrato come un Napoleone, il più vile, il più volgare e il più miserabile straccione, era un po’ troppo. Bolivar è il vero Soulouque (imperatore di Haiti, ndr)”. [Karl Marx, Lettera a Engels, 14.2.1858]